Contemplazione di un supermercato: da Auchan con Annie Ernaux

La pubblicazione de “Gli anni”, “Il posto” e “L’alta figlia” da parte dell’editore L’orma ha attirato su Annie Ernaux una certa attenzione del pubblico e della critica. Ilaria Moretti racconta qui un altro volume della scrittrice francese, “Regarde les lumières mon amour” (“Guarda le luci, amore mio”), ancora inedito in Italia.

Quali sono le parole per raccontare il quotidiano? Esiste un modo per raccogliere le esperienze, gli stralci di ordinaria banalità che costituiscono il vissuto di ogni essere umano? «Scrivere la vita» è un modo per non dimenticare, per fissare attraverso la letteratura.

È ciò che Annie Ernaux, normanna, classe 1940, fa dal 1974. Da quando, col suo primo romanzo Gli armadi vuoti (Rizzoli), ricostruisce la memoria. È il tentativo di raccogliere in un puzzle di immagini, frammenti, ricordi, il senso della propria permanenza sulla terra. Non sono le grandi narrazioni a fare gli scrittori, non le mirabolanti avventure a rendere turbolenta, degna di racconto, un’esistenza. Quel che conta è stare, fare di se stessi «un essere letterario» capace di parola.

Dal novembre 2012 all’ottobre 2013 Annie Ernaux ha annotato, osservato, descritto su un diario privato le giornate trascorse all’ipermercato Auchan di Cercy-Pontoise. Il risultato è una sorta di inchiesta, un giornale della banlieue, che nasce da un moto intimo e che tenta, attraverso la lente dello sguardo, una riflessione sulla società dei consumi.

Il volume Regarde les lumières mon amour (Seuil) è stato pubblicato in Francia nel 2014 e il titolo – “Guarda le luci, amore mio” – fa riferimento al linguaggio settoriale – quasi un codice comunicativo preciso – che nasce spontaneamente tra gli scaffali dei supermercati al giorno d’oggi.

Abitudini, frequentazioni, lembi di conversazioni strappate da una corsia all’altra si accavallano seguendo lo scorrere dei giorni: «2012. Giovedì 8 novembre. Fa freddo, è grigio. Poco fa, una sorta di piacevole agitazione all’idea di andare alle Tre Fontane e fare qualche compera necessaria da Auchan…». Inconsapevoli attori sono i clienti, gli addetti alle casse, i magazzinieri, professionisti di reparti specializzati, ex pescivendoli, ex macellai, ex panettieri che abbandonate le botteghe di quartiere si sono riconvertiti nella grande distribuzione.

Il centro commerciale Les Trois Fontaines (“Le Tre Fontane”) sorge nel quartiere della prefettura di Cercy-Pointoise, agglomerato urbano creato negli anni Settanta a nord ovest di Parigi. È un colosso a tre piani, un’enorme «fortezza rettangolare di mattoni rossi» che divide l’autostrada A15 dalla stazione RER: certamente la più grande struttura commerciale della regione Val-d’Oise.

L’ipermercato Auchan si estende su due piani distinti e occupa più della metà dell’intera superficie. Ne è il «cuore» pulsante: aperto dalle otto e trenta del mattino fino alle dieci di sera, primeggia sugli altri negozi circoscritti in orari più modesti (dalle dieci alle venti) e visitati da una clientela meno variegata. È quotidianamente popolato da impiegati, clienti ma anche semplici flâneurs che vagano senza meta per i corridoi: sguardo puntato addosso alla merce, naso all’insù verso i pannelli colorati che propongono prezzi stracciati, offerte da capogiro, imperdibili pacchi da cinque chili al prezzo di uno. I senza-tetto, un tempo abituali frequentatori dei centri commerciali, paiono ormai scomparsi. Gli agenti preposti alla sicurezza verificano che non vengano introdotti sacchetti provenienti da altre insegne commerciali. L’ordine è importante. Per questo motivo assieme agli animali è vietato l’ingresso agli SDF (“senza domicilio fisso”) così da non turbare la quiete dell’«amabile clientela».

Al mattino la merce attende occhieggiante dagli scaffali. I pavimenti sono tirati a lucido, c’è odore di lavanda, la musica è inesistente. Qualche anima solitaria si aggira smarrita con il carrello ancora vuoto: difficile scegliere, tutto è eccessivamente in ordine, una perfezione che stordisce. In lontananza si odono le parole di una nota canzone pop: è la filodiffusione che ondeggia tra i corridoi del centro commerciale. Sui viali illuminati da sfrontate luci al neon si intravedono le insegne di marche a poco prezzo – la clientela, con il passare degli anni, è cambiata – sono scomparsi il cinema Les Tritons, il piccolo caffé Le troquet, e l’unica libreria nell’arco di chilometri: Le temps de vivre. Tuttavia, nei negozi aperti undici ore al giorno si vendono dischi, vestiti fabbricati in Bangladesh, profumi aromatizzati e tecnologia all’ultimo grido. La musica suona forte: ogni commercio possiede una propria colonna sonora, tranne Auchan.

Il supermercato è teatro del «grande incontro umano»: offre uno «spettacolo» capace di distrarre dalla monotonia del quotidiano. Abbandonare la scrittura per immergersi nella folla, passeggiare tra gli scaffali, scegliere pan carré e qualche yogurt alla frutta è un pretesto per distrarsi dalla fatica della pagina. L’imbarazzo sopravviene alla cassa quando, nelle lunghe file d’attesa, si è esposti allo sguardo della gente. I carrelli dei vicini sono rivelatori di abitudini, gesti famigliari, solitudini, vizi privati, poche virtù. Il contatto esiste ma spesso è soltanto visivo. Auchan si fa fabbrica di illusioni, elemento-guida di bisogni autoindotti capace di anticipare le mode, segnare lo scorrere del tempo, illudere il cliente sul bisogno necessario declassando, a festività concluse, il prodotto che fino a poco tempo prima pareva di primaria necessità.

Non ci sono finestre. Chiusi tra i muri del supermercato si è al riparo dalle intemperie, caldo e freddo sono regolati artificialmente. Si può entrare e uscire in tranquillità, osservare, essere osservati, avere l’illusione di una socialità apparente che si espleta nel solo stare tra la folla: è possibile attraversare l’intera superficie commerciale senza scambiare una sola parola e avere, al contempo, l’impressione d’aver fatto parte del consorzio umano. L’illusione del non essere soli.

Non v’è percezione dello scorrere del tempo e tra prodotti impilati con cura, infastiditi dal sottile cigolio dei carrelli, si prova – più che altrove – una strana difficoltà nel cogliere l’istante presente. Le stagioni sono indicate dall’abbigliamento dei clienti, dal susseguirsi di offerte che segnano l’obbligato passaggio da un mese con l’altro: festività natalizie, mese del bianco, saldi di primavera, festa della mamma, costumi da bagno, attrezzi da pic-nic, quaderni per il rientro di settembre.
Malgrado la sensazione di controllo – agli ingressi, in prossimità delle casse, durante la spesa dove ogni singolo gesto pare “reperito” da un silenzioso occhio che tutto vede: «non sapevo che fosse vietato fotografare! È il regolamento, signora» – permane, tra le corsie, una forma di stordimento poetico, una sorta di rêverie della vita moderna, un modo – tra gli altri – per aderire ai fatti del mondo.

«Mi sono spesso chiesta perché i supermercati non fossero mai presenti nei romanzi pubblicati ogni anno. Quanto tempo ci vuole a una nuova realtà per accedere alla dignità letteraria?». Dopo la perfida etichetta di «non luoghi» dai tratti spersonalizzanti è difficile ridare valore poetico alla sovrabbondanza occidentale, alla fabbrica del bisogno che macera l’uomo in un ciclo di consumo-utilizzo-rifiuto perennemente uguale a se stesso. Tuttavia Annie Ernaux azzarda un’ipotesi. L’assenza è motivata da una semplice questione di genere. Il supermercato altro non è che uno spazio riservato all’attività femminile, notoriamente «invisibile», scarsamente presa in considerazione. «Ciò che non ha valore nella vita non può averlo in letteratura».

La seconda ipotesi è geografica. Fino agli anni Settanta gli scrittori e gli intellettuali erano soprattutto di origine borghese e vivevano a Parigi, dove le cosiddette grandes surfaces non erano ancora state impiantate (a tutt’oggi non esistono ipermercati nel cuore storico della capitale). Difficile immaginare Nathalie Sarraute intenta a comprarsi cereali, Françoise Segan in coda per i latticini o Alain Robbe-Grillet spazientito dietro al carrello della spesa. Georges Perec avrebbe potuto far eccezione ma forse, ci dice Ernaux, è solo uno «sbaglio»: forse nemmeno lui avrebbe provato «seduzione», «eccitazione» dinnanzi alla varietà dei prodotti, all’illusione del tutto possibile. Tuttavia, anche il corridoio di un supermarket può divenire luogo di memoria, stralcio di passato riconducibile ad altri modi d’essere: strumento attuale per misurare l’evoluzione del sé.

L’anno delle passeggiate commerciali si conclude a ottobre 2013. I frammenti compongono un piccolo libro di poche pagine, brevi schizzi, flash più o meno nutriti sul nostro modo d’essere. Cuciti assieme costituiscono l’album fotografico di ciò che stiamo diventando: esseri smarriti alla ricerca di una strada, sollevati quando qualcuno, al posto nostro, pare indicarci ciò che è giusto – compra! scegli! fai! è tempo di! – come se l’autonomia si fosse esaurita e lo svago, complessa materia della nostra contemporaneità, fosse sempre più legato al bisogno.

Tuttavia la contemplazione esiste ancora. Prende vita nell’attimo in cui la folla torna, al pari dei viali di baudelairiana memoria, a essere protagonista di un gioco a specchiere: guardare l’altro per ritrovare se stessi. Osservare, nei moderni centri commerciali, non costa nulla. Non ci sono terrazze all’aperto, non simpatiche panchine impiantate al sole da cui sbirciare il mondo incollandosi ai passi della gente. È sufficiente, sembra dirci Ernaux, una passeggiata più lenta, una spesa senza carrello: è l’atto del dimenticare se stessi smarrendosi nella visione. L’attenzione, anche in spazi apparentemente poveri di senso, diviene un più acuto modo di guardare: permette di distinguere oggetti, individui, meccanismi relazionali conferendo loro un «valore d’esistenza». Vedere per scrivere è, per Annie Ernaux, «vedere diversamente».

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