Incontro Antonio Castaldo e Ilenia Amoruso ai tavolini di un bar di San Lorenzo, a Roma, il giorno dopo la presentazione al Piccolo Eliseo di Metti, una sera a cena con Peppino di cui sono rispettivamente regista e autrice.
Il documentario, prodotto dalla 8 Production di Laura Catalano in collaborazione con l’Istituto Luce, indaga il percorso artistico e umano di una delle figure più eclettiche e dimenticate del Novecento italiano: lo scrittore, commediografo, regista teatrale, televisivo e cinematografico Giuseppe Patroni Griffi, per gli amici Peppino.
Con un titolo tratto dall’opera più celebre dell’artista napoletano – quel Metti, una sera a cena prima pièce teatrale di successo portata in scena proprio all’Eliseo dalla Compagnia dei giovani di Romolo Valli e Rossella Falk, poi film campione d’incassi con Florinda Bolkan e Jean-Louis Trintignant – il film riporta in vita Patroni Griffi attraverso le interviste a critici e celebri collaboratori (Valerio Caprara, Giorgio Napolitano, Raffaele La Capria e Franca Valeri, Umberto Orsini, Massimo Ranieri, Vittorio Storaro), squarci teatrali, inserti animati, e senza rinunciare a mettere in scena alcune sequenze dai suoi romanzi interpretate dalla profonda voce partenopea di Peppe Barra. Un documentario, sotto certi aspetti, multiforme come la figura che racconta.
Andrea Caciagli: Vedendo il documentario si percepisce la difficoltà di restituire la complessità di un artista così poliedrico. Come avete selezionato le parti con cui comporre il vostro ritratto, c’è qualcosa che avete scelto di tagliare?
Ilenia Amoruso: Siamo stati un po’ ambiziosi, perché siamo partiti dall’idea di raccontare l’opera, ma eravamo anche interessati all’aspetto umano, che volevamo emergesse. Quindi a un certo punto abbiamo dovuto fare delle scelte e focalizzare l’attenzione soltanto su alcune opere. Altre sono state sacrificate, ma lo abbiamo fatto per cercare di andare più a fondo nel personaggio.
Antonio Castaldo: Raccontare la vita di qualcuno in un’ora è difficilissimo, tanto più quando si tratta di una persona che ha lavorato per cinquant’anni, che ha attraversato diverse epoche italiane, alcune delle quali molto importanti, se consideriamo la trasformazione enorme che c’è stata dagli anni Quaranta al Duemila. Non era semplice tracciare questo percorso. L’idea era approfondire entrambi gli aspetti partendo dalla contestualizzazione del personaggio per arrivare ad un avvicinamento, uno zoom: dall’inizio del documentario dove c’è una situazione generale fino ad arrivare al punto focale dell’essere umano, della sua anima e dell’importanza per lui di certi temi come l’amicizia e l’amore.
Andrea Caciagli: C’è una sorta di particolare corrispondenza tra la Compagnia dei giovani con cui emerse Patroni Griffi e la compagnia che ha messo in piedi il documentario. Un gruppo giovane che ha concepito il film proprio durante una cena, uno dei luoghi centrali dell’opera di Patroni Griffi.
AC: Bisogna dire una cosa importante. Nell’epoca in cui Patroni Griffi ha cominciato a fare teatro le compagnie erano come delle famiglie, persone che vivevano insieme, passavano il tempo insieme, mangiavano insieme. Condividevano tutto. Con il boom economico dell’Italia è venuto meno un po’ quel senso di famiglia, di amicizia, e ci si è diretti verso un’epoca più individualista. Fino ad arrivare all’apoteosi dell’individualismo, negli ultimi vent’anni. Penso che noi, come gruppo, siamo la dimostrazione che forse si sta tornando un po’ in quella direzione. Questo lavoro è importantissimo perché è fatto da tutti noi, ognuno ha portato il proprio contributo, ed è una cosa che voglio sottolineare. Credo che in un’epoca individualista come quella odierna sia fondamentale far capire che l’idea di gruppo sta riemergendo, le persone si rimettono insieme, e le cose si fanno insieme. Non più come negli ultimi anni, ma come si faceva all’epoca di Patroni Griffi. Se c’è un parallelo, è questo.
IA: Noi siamo rimasti molto affascinati dal suo modo, dalla sua esigenza di condividere con i propri attori e collaboratori questo senso di famiglia. Quando Kapparoni nel film sostiene che era quasi un dittatore nel suo modo di amare, perché amava e pretendeva di essere amato, ci dice qualcosa di molto forte. A riportarla poi all’interno del nostro gruppo la cosa va più in profondità, perché secondo me lui era molto morboso nei suoi rapporti e posso affermare che anche noi siamo morbosi allo stesso modo nel rapporto tra di noi, il che ha i suoi rischi, i suoi pericoli, ma ha anche il suo fascino. E affrontare un lavoro insieme diventa anche crescita, condivisione, conflitto, ma parte di un percorso che si fa insieme e dà grandi soddisfazioni. Un percorso che ti dà quel senso di famiglia che per me che vengo da fuori, per Antonio che viene da fuori, è importante. In questo senso è stato affascinante conoscere queste cose di Patroni Griffi ma poi anche viverle, scoprirle, ritrovarcisi in prima persona e quindi comprenderle più a fondo.
Andrea Caciagli: Antonio, qual è stato il tuo percorso prima di entrare a far parte di questo gruppo?
AC: La mia formazione viene dall’università. Ho fatto il DAMS a Siena studiando le arti performative tra cui il teatro, la musica, il cinema, la scenografia, la fotografia. Da lì in poi la mia scuola è stata con la compagnia teatrale dell’università, in cui ho fatto la regia e l’aiuto regia, e con il cortometraggio che ho fatto per la mia tesi di laurea. Poi, a Roma, ho frequentato il corso “Tracce”, che è più un corso di perfezionamento che una vera e propria scuola di cinema, ma come la scuola di cinema è un importante canale di incontro, perché permette a persone che hanno una stessa passione e degli stessi interessi di incontrarsi. E questo è molto importante perché da lì possono nascere delle squadre, come è successo a noi. Per noi è stato fondamentale frequentare la stessa scuola di cinema.
Andrea Caciagli: Hai mai usufruito dei contributi statali per le tue produzioni?
AC: Io ho iniziato a fare tutte le cose che ho realizzato partecipando a bandi. Prima di fare il regista ho soprattutto imparato a fare i bandi per finanziare i progetti che avevo in testa. Ho preso un primo fondo dalla Regione Toscana, dalla Toscana Film Commission; feci un bando e mi diedero intorno ai duemila euro, perché si girava in Toscana, poi ho preso finanziamenti con un bando del Ministero degli Esteri per la Cultura fino all’ultimo del Mibact, come cortometraggio documentario, che abbiamo vinto insieme alla produttrice Laura Catalano per questo film. Ho sempre fatto questo, da quando ho iniziato.
Andrea Caciagli: Visto che ne hai avuto esperienza diretta, secondo te qual è il ruolo importante che svolgono le Film Commission?
AC: Far incontrare il luogo con le esigenze della produzione. Questo è un ruolo determinante. Forse manca una ricerca attiva dei ragazzi, dei giovani talenti, questa è una cosa che le Film Commission non fanno, però a me hanno dato una possibilità. Io non ero nessuno, ho portato il progetto, il progetto è piaciuto e mi hanno finanziato. Con pochissimi soldi, ma mi hanno finanziato.
Andrea Caciagli: E finanziare Metti, una sera a cena con Peppino è stato difficoltoso? La nuova legge cinema chiama “difficili” alcuni film, un documentario come questo secondo te rientra tra i film difficili da realizzare in Italia?
AC: Il nostro documentario non direi. Un film sperimentale, ad esempio, è difficile che venga sostenuto, o i documentari di un certo tipo. Pensandoci mi viene in mente l’animazione, che abbiamo utilizzato in alcuni segmenti del documentario. Ecco, i film di animazione sono film davvero difficili, perché non avendo una grande storia alle spalle produttori e Film Commission hanno paura di investire.
Andrea Caciagli: Alla luce della tua esperienza quale fase della vita di un film – scrittura, produzione, distribuzione – credi che avrebbe bisogno di maggiore supporto?
AC: Scrittura e promozione, ma la scrittura più di ogni altra. La differenza con le altre fasi produttive è che ci sono pochissimi strumenti di supporto. C’è un lavoro enorme che non viene assolutamente ricompensato o valorizzato. Nel mio caso poi, nel documentario, la scrittura è studio, è ricerca. Giorni e giorni passati negli studi, negli archivi, tra i libri. Con scrittura non intendo solo mettere la penna sul foglio, ma portare a concepimento l’idea di un progetto. Mentre nelle altre fasi della filiera se si vuole si trova il modo di farsi sostenere economicamente, in quella di scrittura c’è soltanto il fondo di sviluppo di sceneggiatura, o il Solinas che però dà un premio esiguo rispetto al tempo necessario che si impiega nel lavoro di scrittura.
Andrea Caciagli: Come avete lavorato per scrivere e costruire questo documentario?
IA: L’idea è nata perché conoscevamo Giuseppe (Patroni Griffi, omonimo pronipote di Peppino e parte del gruppo di lavoro che ha realizzato del film, ndr) e perché si tratta di un autore molto interessante e c’era molto materiale da approfondire, su cui studiare. Poi, man mano che siamo andati avanti in questa ricerca abbiamo scoperto non solo l’opera, ma anche l’uomo. Inizialmente abbiamo cercato di comprendere il suo percorso, dopodiché, con un quadro più completo di tutto quello che aveva fatto, abbiamo fatto una ricerca più mirata. La lettura dei romanzi, la visione dei film, tutta la letteratura critica. E abbiamo iniziato a fare le interviste.
Andrea Caciagli: Quindi le interviste, già prima delle riprese, sono state la base del lavoro?
IA: Sì, alcune interviste sono state importanti perché ci hanno permesso di mettere in ordine tutto il materiale che avevamo a disposizione.
AC: Aggiungo che poi, anche dopo l’inizio, c’è stato un’ulteriore intervento da parte delle autrici per migliorare la struttura in base a nuovo materiale che abbiamo recuperato successivamente. Non è mai stato un lavoro chiuso in partenza, è stato un percorso.
Andrea Caciagli: Chi sono queste autrici e le persone che compongono il gruppo di lavoro da cui è nato il documentario?
AC: La produttrice Laura Catalano, che è stata determinante e che interpreta il ruolo di produttore in maniera molto diversa da come lo si intende oggi, perché il suo approccio non è stato solo burocratico, tecnico, amministrativo, ma anche di carattere artistico, come il produttore di una volta. Poi le tre autrici: Ilenia, appunto, insieme a Rosamaria Vaccaro ed Elita Montini. Ilenia e Rosa avevano sempre scritto insieme, mentre Elita l’abbiamo inserita nel gruppo proprio per rompere gli schemi. In gruppi già affiatati spesso ci si è già detti tutto, e far entrare una terza persona per intervenire ci sembrava una cosa molto stimolante. E poi ovviamente Giuseppe Patroni Griffi, l’aiuto regia ma soprattutto l’anima e la scintilla del documentario, che è cresciuto grazie a lui e alla possibilità che ci ha dato di scavare nelle persone della famiglia Patroni Griffi. Anche lui ha dato il suo contributo artistico e definirlo semplicemente come aiuto regista mi sembra riduttivo.
Andrea Caciagli: Secondo voi l’opera di Patroni Griffi può dire ancora qualcosa oggi, a livello sociale e culturale?
IA: Secondo me sì, anche perché i temi che affronta sono universali. Trattati in un modo probabilmente in anticipo sui tempi, rispetto a quelli che Patroni Griffi ha vissuto. Quali sono i temi principali della sua opera? L’amore, l’amicizia, la morte. Discorsi sempre attuali e temi universali.
Andrea Caciagli: Le considerazioni e il modo di vivere la sessualità di Peppino, omosessuale dichiarato nell’Italia degli anni Sessanta e Settanta, possono essere una lente per riflettere su un tema che è di prepotente attualità nella società che viviamo?
AC: Se oggi si è arrivati a parlare di temi civili in maniera anche sorprendente per quest’Italia, che nonostante abbia fatto grossi sforzi non è comunque ancora riuscita a mettersi al pari di altri paesi su cui è sempre un po’ in ritardo, si deve anche a Giuseppe Patroni Griffi. L’importanza di Peppino in questo assume una grandezza ancora maggiore, perché è stato uno dei primi, primissimi a parlare di famiglie allargate, di omosessualità, di temi che all’epoca non erano tabù, semplicemente non esistevano. Non si poneva neanche il problema, almeno a livello popolare. È riuscito ad aprire le mentalità attraverso la sua arte. Quello che è successo a me: io attraverso l’arte sono riuscito ad aprire i miei orizzonti. E lui scrivendo di temi così trasgressivi nel ’50, nel ’60, nel ’70, credo abbia fatto un gran bene all’Italia, e i risultati li stiamo vedendo adesso. Se oggi possiamo parlare di questi temi in maniera diversa in minima parte lo dobbiamo anche lui.