Sulla maternità surrogata

Una riflessione a partire da “Biolavoro globale. Corpi e nuova manodopera” di Melinda Cooper e Catherine Waldby (a cura di Angela Balzano, DeriveApprodi 2015).

Nel quarto capitolo di Biolavoro globale, Melinda Cooper e Catherine Waldby prendono in considerazione il mercato indiano della maternità surrogata. Si tratta di un caso emblematico che s’inserisce nel quadro di un’indagine più ampia, finalizzata all’elaborazione di una teoria del valore per quello che loro definiscono “lavoro clinico” in epoca postfordista.

L’economia postfordista, specificano Cooper e Waldby nel primo capitolo, è notoriamente trainata dal settore dei servizi, dalle industrie culturali e dai mercati finanziari; allo stesso tempo, però, è trainata «anche dalle nuove tecnologie della produzione biomedica finalizzate al reperimento di nuove forme di valore e all’inedita ridefinizione di diritti contrattuali legati al corpo». Lo spostamento sul “lavoro clinico” – per cui la manodopera viene prodotta e selezionata secondo linee di genere, di razza e di classe – mira pertanto a integrare quelle analisi e quegli studi che pongono al centro del discorso critico, politico ed economico, l’immaterialità degli odierni processi produttivi. La finanziarizzazione dell’economia sembra infatti aver imposto al pensiero critico di insistere sul ruolo della speculazione nella creazione («e più recentemente nella distruzione») del valore del capitale, producendo l’effetto perverso di sottostimare, forse, la solida persistenza di forme di lavoro di tipo fordista (e pre-fordista) – spesso bacini di sfruttamento di migranti e poveri –, così come «le nuove forme di lavoro iscritte nei corpi» che proliferano ai margini delle economie biomediche postfordiste. Reperimento e vendita di tessuti del corpo; partecipazione a studi e sperimentazioni cliniche; appunto, maternità surrogata, sono solo alcune delle forme di lavoro clinico prese in esame nel testo. In Biolavoro globale queste forme di lavoro sembrano acquisire una assoluta centralità nei processi di valorizzazione contemporanei. Esse possono contare, da un lato, sulla flessibilizzazione del lavoro e sulla erosione dei diritti sociali, tipiche del neoliberismo; dall’altro, sulla potente rimessa al centro del corpo nella sua totalità come luogo primario di estrazione di valore in una forma, tuttavia, per molti aspetti inedita.

Le continue esigenze di innovazione dell’industria farmaceutica – settore trainante del capitalismo contemporaneo – richiedono d’altronde un numero via via crescente di soggetti disposti a sottoporsi a forme di sperimentazione, in cambio di denaro, o spesso in cambio di cure, altrimenti inaccessibili. Le industrie delle “scienze della vita” necessitano di un’ingente forza-lavoro per molti aspetti non riconosciuta come tale, alla quale vengono richiesti non solo l’assunzione di farmaci ancora in via di sperimentazione, ma anche di vendere sperma, di sottoporsi a sperimentazioni ormonali, o a estrazione di tessuti, spesso mediante ricorso a procedure e tecniche invasive, sul piano fisico e su quello emotivo. I mercati della riproduzione assistita, infine, sono in costante espansione perché un numero crescente di coppie, principalmente ma non esclusivamente eterosessuali, desidera avere un figlio ricorrendo alle tecniche di fecondazione assistita o alla maternità surrogata – e, dunque, avvalendosi del lavoro di venditori di gameti e di gestanti surrogate. Il lavoro clinico, in altre parole, sostiene alcuni dei settori maggiormente produttivi di brevetti dell’intera economia post-industriale. La sua forza-lavoro, tuttavia, viene inquadrata nel livello più basso e informalizzato dei servizi lavorativi, e spesso coincide con quelle classi già marginalizzate dal passaggio dalla produzione fordista di massa alla produzione postfordista informatica.

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Cooper e Waldby applicano anche alla maternità surrogata la definizione di «servizio soggettivato». Un servizio, cioè, che si fonda su processi biologici in vivo e che vede nella materia vivente della lavoratrice il principale elemento produttivo. Questo servizio, come vedremo, si configura inoltre come «transnazionale».

Il mercato indiano della maternità surrogata – come quello europeo della compravendita di oociti, analizzato nello stesso capitolo – è preso in considerazione per due motivi specifici. Il primo è perché mette in luce le tendenze più generali della femminilizzazione del lavoro in epoca postfordista e neoliberale. Il secondo è perché esso riproduce per vie commerciali la whiteness. La maternità surrogata, infatti, prende piede in India grazie alle più generali politiche di esternalizzazione e di informalizzazione del lavoro, ma anche grazie alla messa a valore di un surplus di fertilità («la fecondità indiana è stata un rompicapo demografico per la governance nazionale e internazionale»), che consente alle donne di ricavare nicchie produttive nell’economia informale, investendo direttamente sulle proprie capacità riproduttive, sfruttando a proprio vantaggio il minor costo della manodopera rispetto, ad esempio, alle madri surrogate californiane o di altri paesi occidentali. In secondo luogo, dal momento che il modello indiano prevede che le gestanti non debbano necessariamente fornire i propri gameti, la nascitura o il nascituro somiglieranno maggiormente ai committenti che non alla surrogata: ovviamente non tutti i committenti sono di pelle bianca, ma lo sono la stragrande maggioranza, e si recano in India principalmente dagli Stati Uniti, dall’Europa o dall’Australia, per via della possibilità di riprodurre bambini e bambine bianche a basso costo.

Per certi aspetti, scrivono Cooper e Waldby, la condizione lavorativa delle gestanti surrogate non è molto diversa da quella di altre donne, o di altri soggetti che svolgono altre forme di lavoro femminilizzato. Le due studiose adducono a esempi le lavoratrici agricole stagionali, o anche tutte quelle forme di lavoro informale svolte da casa, parzialmente compatibili con la cura della famiglia e dei figli, ma del tutto prive di assicurazione, di assistenza sanitaria o di contributi previdenziali. Un tipico, e assai diffuso, lavoro svolto da casa è quello dell’operaia del settore dell’abbigliamento, per cui il datore di lavoro fornisce le materie prime e acquista i prodotti finiti a cottimo, riservandosi di interrompere o di intensificare il ciclo produttivo a seconda di esigenze che non sono chiaramente quelle della lavoratrice. In questo, come in tutti gli altri casi, pur essendo parte di una catena di produzione e di interdipendenze complesse, le lavoratrici vengono individualizzate, svolgono il proprio lavoro in condizioni di isolamento e sono pertanto estremamente vulnerabili, spesso vessate dalle scadenze di consegna ed esposte all’arbitrio e ai ricatti degli appaltatori.

Come queste e altre figure lavorative, anche le madri surrogate vengono reclutate tramite passaparola o tramite agenzie di intermediazione. Anche loro svolgono il proprio lavoro da casa, sebbene a volte debbano spostarsi in clinica, per periodi più o meno lunghi della gravidanza. Anche loro, inoltre, vengono reclutate prevalentemente dal bacino delle lavoratrici informali, e può dunque capitare che una bracciante agricola a giornata, una domestica o badante o bambinaia in casa d’altri, una lavoratrice a cottimo del settore dell’abbigliamento, o semplicemente una donna indigente, decidano di comporre un reddito anche grazie alla surrogazione. Le donne che lo fanno, d’altronde, ricevono un compenso fino a sette volte maggiore del loro reddito annuale medio. Ciò consente fondamentalmente di aggirare lo stigma eteropatriarcale secondo cui la surrogazione – almeno in India – sarebbe equiparabile all’infedeltà sessuale della donna nei confronti dell’uomo. I mariti delle donne che si prestano a surrogazione, d’altro canto, non se la passano affatto meglio: «spesso si arrangiano con molti lavori sottopagati, senza tutele legali, e senza un reddito fisso che permetta [loro] di superare il costante indebitamento».

A differenza degli altri impieghi del circuito informale, di conseguenza, la maternità surrogata colloca queste donne all’interno di un mercato e di un circuito relazionale di tipo «transnazionale». Diventando una gestante surrogata, scrivono provocatoriamente Cooper e Waldby, è come se la donna assumesse «finalmente un ruolo economico imprenditoriale». Pur esponendo il corpo delle donne ai rischi sempre connessi alla gestazione, la surrogacy assurge a dispositivo biopolitico di soggettivazione, il cui obiettivo è la costituzione e la diffusione del modello del soggetto proprietario che gode diritti di proprietà sul proprio corpo, come vuole la tradizione giuridica e civile europea. Le donne affermano infatti il proprio valore in quanto proprietarie della loro capacità riproduttiva: il loro utero, trasformatosi in risorsa, è in grado di produrre rendite di tipo monopolistico. Monopolistico perché la fertilità della gestante surrogata ha un valore inestimabile sul mercato globale, trattandosi di una risorsa scarsa. Pochi, infatti, sono i paesi in cui la surrogacy è consentita: alcuni stati degli Stati Uniti, Canada, Ucraina, Russia e India, appunto; vi sono poi altri paesi, come la Grecia, la Gran Bretagna o la Spagna in cui le condizioni sono più restrittive. Nella maggior parte degli stati “occidentali” è apertamente osteggiata dalle destre, dalla chiesa cattolica e dai movimenti neoconservatori e neofondamentalisti, i quali al contempo osteggiano anche l’interruzione volontaria di gravidanza, e molte altre cose, tra cui il matrimonio omosessuale o l’adozione da parte di coppie omosessuali, o da parte di individui singoli. In alcuni stati, inoltre, la maternità surrogata è aspramente avversata da alcune importanti esponenti del femminismo.

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In una recente intervista rilasciata sulle pagine del quotidiano cattolico Avvenire, Luisa Muraro definisce la surrogazione «la strada attuale per lo sfruttamento del corpo delle donne» e una forma di «prostituzione», come peraltro fa Sylviane Agacinski. Muraro, tuttavia, sembra dimenticare che a beneficiare del lavoro delle gestanti surrogate siano in generale coppie eterosessuali, ed esortata a esprimersi dall’intervistatrice, la filosofa respinge l’accusa di «omofobia» con lo stesso gesto con cui sostiene che

non si può avere tutto, ci sono dei limiti dovuti alla realtà delle cose. La coppia omosessuale maschile è una coppia sterile per natura. […] L’invidia dell’uomo, già nota alla psicanalisi, verso la fertilità femminile va analizzata e superata. Semmai quello che io vedrei come possibilità nelle legislazioni è che, se uno dei due è diventato padre e ha già l’affidamento dei figli, magari perché vedovo, possa farlo adottare anche dall’altro. La possibilità, però, non il diritto, lo dico e lo ripeto.

“Non si può avere tutto”, “limiti”, “realtà delle cose”, “sterile per natura”, “invidia”, “possibilità, non diritto”. È singolare che Muraro si avvalga di questo linguaggio per respingere le accuse di omofobia, e per aprire, semmai, alla possibilità – non al “diritto” – di genitorialità omosessuale maschile nei casi in cui uno dei partner sia «vedovo», e dunque padre di figli avuti da precedente relazione coniugale eterosessuale, finita tra l’altro per morte della moglie. Piuttosto che scomodare la categoria di “possibilità”, così importante per chi vive ai bordi del possibile e così foriera di inattese aperture, Muraro dovrebbe dire “tragica eventualità”. È una “tragica eventualità” quella che lei dipinge, non una “possibilità”: la tragica eventualità di ritrovarsi vedovo, solo, con dei figli a carico e di accontentarsi addirittura di un partner dello stesso sesso pur di condividere il fardello. La sua affermazione sembra riecheggiare quelle retoriche molto diffuse secondo le quali sarebbe meglio per un bambino essere adottato – addirittura! – da genitori omosessuali, piuttosto che passare i suoi anni in istituto (retorica, occorre precisare, sottesa anche a molti discorsi che esorcizzano la surrogacy auspicando al contempo l’estensione della possibilità di adottare anche alle coppie omosessuali). Abbiamo dunque ancora ottimi motivi, nostro malgrado, di continuare a credere che un certo femminismo costituisca la stampella dell’eteronormatività.

Nel mercato – e nel sistema giuridico – indiano studiato da Melinda Cooper e Catherine Waldby, giova ricordarlo, è fatto espressamente divieto alle coppie omosessuali, indiane o straniere, di avvalersi del servizio della surrogata (così come vietato è in Ucraina e nella Russia di Putin, in cui, tra l’altro, l’omosessualità è ostracizzata da specifiche leggi “anti-gay”). Di conseguenza, è come se persistessero stigmi e gerarchie che nemmeno l’affermazione del neoliberismo sarebbe in grado di emendare, e di cui la presa di parola di Muraro costituisce in fondo un buon esempio. Nonostante la surrogacy sia equiparata a una forma di adulterio, in India, essa è comunque consentita e tollerata socialmente nel caso in cui a beneficiarne siano altre coppie eterosessuali. L’imperativo più fondamentale della riproduzione eteronormata, in qualche modo, è ciò che consente di sacrificare l’inviolabilità di una coppia unita in matrimonio. A essere riprodotta commercialmente, pertanto, non è solo la whiteness, come scrivono Cooper e Waldby, ma la stessa eteronormatività, la quale già consiste in una determinata concezione della riproduzione, della sessualità, della genitorialità e della parentela, che la surrogazione interviene a garantire là dove essa non sarebbe possibile. L’“artificio”, in altri termini, interviene a dare continuità alla “natura”.

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Esistono molti altri modi di mettere sotto cauzione l’ottimismo neoliberale nei riguardi della maternità surrogata, che non quello di dar fiato alle trombe dell’omofobia (che poi è il vero motivo per cui tale questione è assurta agli onori delle cronache in Italia, nel bel mezzo della crociata anti-gender che si protrae ininterrottamente da mesi e dell’iter di approvazione del ddl Cirinnà) e nemmeno quello di paragonarla alla “prostituzione” o allo “sfruttamento” come se tali paragoni avessero la forza di chiudere il discorso. Se il discorso non viene chiuso nemmeno da questi accostamenti, infatti, è perché le donne che mettono a valore il proprio utero nella stragrande maggioranza dei casi sono già donne “sfruttate”, fanno già parte di un bacino di forza-lavoro informale, vulnerabile al ricatto, sottopagato, privo di tutele, e forse anche privo di ragionevoli alternative. In questa, come in tutte le altre forme di ricatto a cui sono sottoposte milioni di persone nel mondo nel regime di precarietà contemporaneo, diventa senz’altro difficile stabilire entro quale grado si possa parlare di “autodeterminazione”, ossia entro quale grado il singolo individuo sia in grado di giudicare da sé ciò che desidera, e con quali mezzi perseguirlo. L’“autodeterminazione”, d’altronde, emerge in seno a condizioni di “desiderabilità” che, in un modo o nell’altro, non si sono mai davvero decise.

Tuttavia, resta sempre poco chiaro il motivo per cui si denuncia lo “sfruttamento del corpo delle donne” o per cui si revoca in dubbio l’“autodeterminazione” nei casi in cui quella donna sia la gestante surrogata o la sex worker, o colei che vuole interrompere la gravidanza o vendere i propri gameti, e non quando quella donna è invece la badante o la bambinaia, o la bracciante agricola a giornata, o l’operaia tessile a cottimo vessata dai tempi di consegna, o quando fa tutti gli altri pseudolavori che ci possono venire in mente e che compongono la manodopera precaria dell’odierna sussunzione reale. Come abbiamo visto, è proprio la rendita monopolistica legata all’esperienza della maternità surrogata a consentire a queste donne e alle loro famiglie di migliorare economicamente e socialmente la propria condizione, consentendo loro di prendere in affitto una casa più abitabile, ad esempio, o di iscriversi all’università. Con ciò non voglio affatto elevare con leggerezza la scelta di optare per la maternità surrogata a forma di dis-assoggettamento critico da un certo sistema di precarizzazione e sfruttamento. Voglio però dire – e lo faccio prendendo in prestito le parole di Angela Balzano, che tra l’altro è la curatrice dell’edizione italiana di Biolavoro globale – che «se davvero ci indigna pensare che per iscriversi all’università una donna debba vendere pezzi di corpo, allora occorre mettere in discussione i rapporti di forza economico-politici, piuttosto che vietare la prostituzione o le nuove forme del lavoro riproduttivo» (dal suo libro con Carlo Flamigni, Sessualità e riproduzione. Generazioni a confronto, Ananke 2015).

Come dimostra la stessa esperienza della maternità surrogata, ma come dimostrano anche le questioni connesse più in generale ai diritti riproduttivi e al loro ostracismo – si tratti di aborto o di procreazione medicalmente assistita –, l’atteggiamento neofondamentalista, o neoconservatore, o anche solo blandamente proibizionista, non solo è tutore delle cornici disciplinari che fondano le relazioni di sapere e di potere che strutturano la nostra esperienza (l’eteronormatività, la whiteness, il privilegio maschile), ma è anche stampella del neoliberismo, di quei «rapporti di forza economico-politici» che presiedono alle abissali diseguaglianze da cui dipendono le scelte individuali. L’avversione nei confronti della maternità surrogata, come abbiamo visto, la rende oggi un mercato in regime di monopolio, che «segue le mappe regionali e globali dei rapporti di potere economici, a loro volta disegnati sulle più antiche mappe della razza e dell’impero». L’obiezione di coscienza nei confronti delle leggi che regolano l’interruzione volontaria di gravidanza – in Italia il 70% dei ginecologi dei servizi pubblici è obiettore – sortisce, da un lato, l’effetto di alimentare il mercato illegale dei farmaci abortivi acquistabili su Internet senza ricetta, mentre, dall’altro, quello di dirottare indirettamente le donne che vogliono interrompere la gravidanza verso le costose cliniche private, ammesso che abbiano i soldi per pagarsi l’aborto. Non sarebbe d’altronde possibile rispondere a una gestante di ripresentarsi dai sei mesi ai due anni dopo, come invece accade di norma per le altre prestazioni mediche: mi sembra lecito domandare, a margine, se dietro a questo repentino dilagare dell’obiezione di coscienza non si celi in realtà la forma che giocoforza deve assumere la dismissione del welfare, là dove esso ancora esiste, in materia di riproduzione.

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Il contrario del moralismo non è l’assenza di morale, ma la critica che, semmai, inaugura l’etica. Un’etica meno violenta, meno asimmetrica, meno escludente. «Dovremmo forse cominciare a problematizzare la tendenza a normare in senso neoliberista le nuove tecnologie di procreazione assistita, e in senso neofondamentalista contraccezione e aborto», suggerisce Balzano nella chiusura della sua Prefazione a Biolavoro globale. E ciò potrebbe anche passare per un utilizzo delle scienze della vita e delle biotecnologie (che sono «tante quanti sono i nostri desideri») in funzione di una sovversione delle dissimmetrie strutturali che ancora oggi come il caso della maternità surrogata dimostra le rendono in larga parte possibili.

Anche perché sembra quasi che questa ingiunzione a produrre, a riprodurre, a non sottrarsi dal ciclo schizofrenico della produzione e riproduzione degli schemi e delle relazioni della diseguaglianza, che si materializza nella normazione neoliberista delle nuove tecnologie, abbia la precisa funzione di consegnare nelle mani del neofondamentalismo la possibilità, invece, di interrompere il ciclo della produzione “per conto terzi”. E se questa possibilità, al contrario, è ciò che precisamente innerva «processi di divenire non eteronormati, desideri non umani, non dominanti, non elitari» che già animano le alleanze transfemministe e queer in vista di una liberazione tecno-scientifica dei corpi e delle relazioni – di parentela, sessuali, genitoriali – dalle catene del biolavoro globale, allora è esattamente lungo i sentieri di questi processi e di questi desideri che la scienza e la tecnologia possono, forse, trovare la propria strada.

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