Sulla crisi ecologica e della presenza

Pubblichiamo la nona puntata di Intemperie*

“Drought”, IRRI Images, CC BY-NC-SA 2.0.

Riflessioni antropologiche sulle migrazioni ambientali.

La formula della crisi climatica corrisponde a un principio di proporzionalità inversa: i paesi che meno contribuiscono ad alimentarla sono quelli che generalmente più ne subiscono gli effetti. Ciò è risaputo, ma è bene ripeterlo: il Nord del mondo inasprisce in maniera più massiccia la crisi ambientale, subendone relativamente meno le conseguenze (per il momento) rispetto ai paesi del Sud del mondo. Il modello economico capitalistico, nato dall’iniquità coloniale e fondato sui miti della crescita infinita e dello sviluppo ad ogni costo, ha nella crisi climatica un suo elemento costitutivo: l’apocalisse ecologica odierna vissuta in molti contesti, la devastazione di ecosistemi, di mondi socio-ambientali, risultano endemici al suo funzionamento.

Achille Mbembe ha espresso con un una formula efficace questa dimensione del nostro tempo: “nel suo versante notturno e oscuro, la modernità è stata una guerra interminabile alla vita. Ed è tutt’altro che terminata”. I paesi del Nord osservano con distacco i lontani effetti collaterali di questa loro guerra; il problema si pone quando l’umanità errante1 viene a bussare alle porte che segnano i limiti della fortezza occidentale, difesa in modo chirurgico attraverso posti di blocco, muri, porti chiusi, fili spinati, visti inaccessibili e confini esternalizzati. Una fortezza risparmiata (per il momento) dal fuoco “amico” di quello che con un tragico eufemismo viene definito “cambiamento” climatico.

“La fine del mondo c’è sempre stata. Che altro vuoi che abbiano pensato gli Incas o gli Aztechi di fronte ai conquistadores spagnoli, questi marziani piovuti da chissà dove, se non che quella era la fine del mondo? Noi possiamo dire che era la fine del loro mondo, ma che cos’è la fine del mondo se non sempre la fine del proprio mondo? (De Martino, 2019: IX-X)”.2

All’interno dell’Antropocene, l’epoca geologica attuale in cui l’agire insostenibile di una porzione di umanità si fa agente climatico e geofisico, i movimenti di esseri umani e non-umani forzati dalla crisi climatica si intensificano in modo esponenziale. La migrazione è spesso descritta come la strategia per eccellenza utilizzata da tutti i viventi per adattarsi alle circostanze che cambiano. La crisi attuale però non può essere solo pensata come un mutamento ambientale del mondo come lo conosciamo. Per molte comunità viventi la migrazione non è l’adattamento ad un mondo che si trasforma, ma ad un mondo che finisce per sempre: d’altronde, “cos’è la fine del mondo se non sempre la fine del proprio mondo?”

Kiribati Islands, Pacific Ocean – MODIS Rapid Response Team, NASA/GSFC.

L’antropologia non può che volgere il proprio sguardo verso gli stati insulari dell’Oceano Pacifico e in particolare ai tristemente celebri casi di Kiribati e di Tuvalu, arcipelaghi composti da decine di atolli corallini che sporgono per pochi metri sopra al livello del mare, individuati da molti come i primi stati destinati a scomparire a causa dell’innalzamento delle acque. Attingendo al vocabolario demartiniano, in questi luoghi la minaccia dell’innalzamento del mare provoca un’esperienza di “crisi” o di “apocalisse” individuale e collettiva: una sensazione di radicale spaesamento, di perdita di domesticità del mondo di fronte all’evento disastroso che si traduce nel “rischio di non poterci essere in nessun mondo culturale possibile”, alimentando la percezione di una fine del mondo ormai vicina e che, in assenza di altre forme di riscatto, fa pensare alla migrazione come l’unica strategia di adattamento possibile (De Martino, 2019: 128).

Come ha osservato l’antropologa Heater Lazrus nella sua ricerca etnografica a Tuvalu, la narrazione apocalittica è divenuta uno dei modelli culturali di riferimento di molti abitanti per dar forma alla percezione della propria vulnerabilità. Tale modello è stato alimentato da una serie di articoli sensazionalistici che dipingono gli abitanti di Tuvalu come impotenti di fronte alla crisi che li sommergerà. Una simile impostazione rischia di occultare “l’agency e la tenacia di persone hanno abitato gli atolli per secoli e navigato in modo esperto l’Oceano Pacifico per migliaia di anni”(2009: 35).

Di questo avviso è anche l’antropologo Adriano Favole, il quale osserva in modo critico l’utilizzo della nozione “estinzione” in riferimento a tali società, poichè “non tiene conto delle capacità di resistenza, resilienza e ricostruzione che hanno le culture umane, anche in situazioni drammatiche come quella che potrebbe prodursi a Kiribati”. Il modello apocalittico fa apparire la migrazione come l’unica soluzione possibile all’innalzamento del mare, impedendo l’utilizzo di altre modalità di adattamento e rendendo Tuvalu e Kiribati nazioni di rifugiati ambientali.

La preoccupazione per una fine imminente ha guidato le azioni di governo dell’ex presidente della repubblica di Kiribati Anote Tong, il quale ha adottato varie strategie nel tentativo di mitigare la crisi climatica. Fra queste si evidenziano il ripristino delle mangrovie per la protezione delle aree costiere dall’erosione e dalla violenza delle acque, il progetto di costruzione di isole artificiali e l’acquisto di terre nel 2014 sull’isola di Vanua Levu, facente parte delle isole Figi, per l’eventualità di dovervi trasferire gli abitanti di Kiribati in futuro.

“Secretary-General Plants Mangroves on Kiribati”, United Nations Photo, CC BY-NC-ND 2.0.

Tali strategie, nel loro mettere al centro la crisi climatica, sembrano però rendere quest’ultima un capro espiatorio: il mutamento climatico non può essere pensato come l’unica causa della vulnerabilità a cui sono esposti gli isolani. Al contrario le diseguaglianze socio-economiche, la marginalizzazione di molte persone, l’assenza di servizi essenziali e di infrastrutture sono problemi quotidiani che possiedono profonde radici storiche, che non vengono affrontati dalla politica e a cui la crisi climatica si va a sommare. Come scrive Giuseppe Forino “è l’interazione tra l’evento naturale e tali vulnerabilità a creare dunque un disastro”. Ilan Kelman invece sottolinea come “in caso di calamità, i poveri e gli emarginati sembrano essere quelli più colpiti dall’impatto”. Da qui l’importanza di esplorare le dimensioni storiche della vulnerabilità, i processi che portano alla sua costruzione sociale e culturale, e la sua centralità nella produzione del disastro.

Come notava De Martino “il momento dell’abbandonarsi senza compenso al vissuto del finire costituisce innegabilmente una disposizione elettiva della nostra epoca” (2019: 355); un’epoca che vive “nell’alternativa che il mondo deve continuare, ma che può finire” (ivi: 70), e che è governata da “due antinomici terrori”: “quello di ‘perdere il mondo’ e quello di ‘essere perduti nel mondo’” (ivi: 360). Simili parole, elaborate all’indomani dell’esplosione della bomba atomica e del rischio reale di una fine del mondo, riecheggiano nella mente di chi tenta di compiere riflessioni sulla crisi climatica attuale, “un’altra minaccia più grande e insidiosa di qualsiasi altra nel passato e che si presenta come una pressante realtà” (Cossu, 2019: 6).

Se da un lato la narrazione apocalittica rispetto a Tuvalu e Kiribati sembra negare l’agency e gli sforzi degli abitanti delle isole nel resistere ai cambiamenti sociali, economici, politici e climatici, dall’altro la retorica emotiva dei media è solitamente guidata da un quadro di valori associati all’ambientalismo, i diritti umani e l’uguaglianza globale e sembra essere l’unica modalità in grado di lanciare “un messaggio potente e tempestivo, un messaggio che dovrebbe essere ascoltato soprattutto dagli spettatori delle società industrializzate” (Chambers e Chambers, cit. in Lazrus, 2009: 35, trad. mia).

“Life’s a beach/ France in 2050”, Adrian Kenyon, CC BY-NC-ND 2.0.

L’utilizzo di una retorica apocalittica a fini politici è stata fatta propria da diversi movimenti ambientalisti e per i diritti umani, che sull’opposizione alla fine del mondo, o quanto meno a quella della nostra specie, basano il loro attivismo (si pensi a Extinction Rebellion). Uno degli obiettivi è sicuramente quello di smuovere la comunità internazionale sulla questione delle migrazioni, poichè, come già accade per il fattore economico, anche quello ambientale non viene fatto rientrare  fra i motivi plausibili per ottenere protezione internazionale, dal punto di vista scientifico la crisi climatica si inserisca all’interno di quei pull and push factors che inducono i movimenti delle persone.

Come già sottolineava De Martino, in alcuni casi l’esperienza di apocalisse sembra essere il preludio necessario per un progetto di ripresa: “il pensiero della fine del mondo, per essere fecondo, deve includere un progetto di vita, deve mediare una lotta contro la morte, anzi, in ultima istanza, deve essere questo stesso progetto e questa stessa lotta” (2019: 208).

In un’intervista ad Aurore Chaillou e Louise Robin, Malcolm Ferdinand, nella sua analisi della relazione tra le attuali crisi ecologiche e la storia coloniale della modernità, evidenzia come “distruzione della natura ed oppressione sociale sono da sempre stati legati”. L’esodo dell’umanità errante dice, anzi grida ad alta voce la verità di questa oppressione: se secoli di cultura coloniale hanno anestetizzato la sensibilità occidentale rispetto alla fine dei mondi altrui, Mbembe ci ricorda inoltre che “presto non sarà più possibile delegare la propria morte ad altri. Questi ultimi non moriranno più al nostro posto”.

Con la pandemia da Covid-19 l’esperienza di fine del mondo non è più esperienza intima di mondi lontani: essa è giunta ad abitare anche i nostri spazi e i nostri immaginari. La pandemia ci ha messi di fronte oltre che ad una possibile fine, anche alle nostre responsabilità dirette, mettendo al centro della scena l’immensa fragilità del nostro rapporto con l’ambiente, mediato da un modello economico che si fa regime ecologico e che palesa le sue enormi implicazioni nel perpetrare una crisi indispensabile al suo agire.

Bibliografia

Cossu T., 2019, Visioni di apocalissi culturali nell’Antropocene. La crisi radicale dell’umano in Ernesto de Martino e in The Road di Cormac McCarthy, “Medea”, vol. 5, n. 1.

De Martino E., 2019, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, Torino.

Lazrus H., 2009, Perspectives on Vulnerability to Climate Change and Migration in Tuvalu, in Oliver-Smith A. e Shen X., 2009, Linking Environmental Change, Migration and Social Vulnerability, UNU- EHS, Bonn.

[1]Il termine è preso dall’articolo di Mbembe (2020) Il diritto universale di respirare: “Per non parlare delle sostanze esplosive e delle altre guerre di predazione e occupazione che colpiscono decine di migliaia di esseri umani e che ne costringono altre centinaia di migliaia sulle strade dell’esodo, tutta un’umanità errante”.

[2] Le parole di De Martino emergono da un dialogo tenuto tra Cesare Cases e l’antropologo napoletano, poco prima della morte di quest’ultimo nel 1965.

*Serie realizzata in collaborazione con studenti e studentesse del Laboratorio permanente di Antropologia dei Cambiamenti Climatici, coordinato dall’antropologa Elisabetta Dall’Ò, presso il Dipartimento CPS (Culture, Politiche e Società) dell’Università di Torino.

 

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Note

  1. Come sottolinea Mbembe in Il diritto universale di respirare: “Per non parlare delle sostanze esplosive e delle altre guerre di predazione e occupazione che colpiscono decine di migliaia di esseri umani e che ne costringono altre centinaia di migliaia sulle strade dell’esodo, tutta un’umanità errante”.
  2. Le parole di De Martino emergono da un dialogo tenuto tra Cesare Cases e l’antropologo napoletano, poco prima della morte di quest’ultimo nel 1965.