Sul sommerso e il salvato

Pubblichiamo una recensione di Marco Ambra a Il Giorno del Giudizio, seguito da Gli aiutanti di Giorgio Agamben (Nottetempo, 2004)

Allora i re della terra e i grandi, i capitani, i ricchi e i potenti, e infine ogni uomo, schiavo o libero, si nascosero tutti nelle caverne e fra le rupi dei monti;
e dicevano ai monti e alle rupi: Cadete sopra di noi e nascondeteci dalla faccia di Colui
che siede sul trono e dall’ira dell’Agnello,
perché è venuto il gran giorno della loro ira, e chi vi può resistere?

(Giovanni, Apocalisse 6, 16-17)

Cosa hanno a che fare i primi dagherrotipi e i volti delle fotografie di Mario Dondero con i sinistri gemelli Arturo e Geremia, aiutanti dell’agrimensore K. in Il castello? Quale gesto di ri-capitolazione del tempo e della storia accomuna l’angelo della fotografia a quegli esseri paralleli e approssimativi che popolano le fiabe e aiutano l’eroe o l’eroina ad affrontare l’avversa sorte?

Queste domande intreccia e prova a sciogliere il brevissimo saggio Il Giorno del Giudizio di Giorgio Agamben, pubblicato nella collana i sassi dall’editore Nottetempo nel 2004 insieme ad un’altra fulminea riflessione del filosofo dedicata a Gli aiutanti, quei personaggi letterari che specie nella letteratura per l’infanzia spuntano per miracolo a tirar fuori d’impaccio il o la protagonista. Si tratta di schegge, di vere e proprie riflessioni accidentali su immagini e icone letterarie che assediano la quotidianità dell’autore, come la foto assai nota del volto di una bambina brasiliana poggiata su un mobile nello studio dove lavora e che pare fissarlo severamente, nell’atteggiamento severo di un giudice (p.11).

Il filo conduttore di entrambi i saggi è il gesto escatologico, proprio delle religioni semitiche, che mostra l’umanità nel Giorno del Giudizio, il momento in cui ciò che s’è perso – trascinato dalle acque del fiume Lete – riemerge una volta per tutte per essere additato e giudicato. Nell’ora del giudizio non esiste più la deformazione del ricordo di una colpa commessa, scompare ogni verità di comodo o meglio ancora viene messo irrimediabilmente a nudo quello che Primo Levi ha definito «il silenzioso trapasso dalla menzogna all’autoinganno» (I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 1986, p. 16). Ed è con questa nuda semplicità che secondo Agamben la fotografia rappresenta il mondo come appare nell’ultimo giorno. Non si tratta del senso di gravità e angoscia che pervade i peccatori di fronte all’estremo giudizio. La fotografia è infatti un gesto lieve grazie al quale l’ignara persona catturata dall’obiettivo viene consegnata «per sempre al suo gesto più infimo e quotidiano» (p. 8). Ciò è evidente sin dagli albori della tecnica fotografica: Agamben si sofferma su un particolare di uno dei primi dagherrotipi, una sagoma nera di un uomo fermo al banchetto del lustrascarpe in Boulevard du Temple, rimasto “immortalato” a causa della notevole durata di esposizione richiesta dal metodo di Daguerre, alla quale invece si sono sottratti carrozze e passanti nella strada all’ora di punta.

Come se fosse sperduto in un deserto di ombre, sottratto al fluente divenire del traffico cittadino, l’uomo è colto in un atteggiamento statico, banale, sordidamente immerso nell’habitus giornaliero per l’eternità. Un potere estremo di sintesi: è questa la veste angelica dello scatto fotografico. E se l’uso traslato del verbo “immortalare” – il gesto che perpetua qualcosa nella memoria collettiva – è utilizzato ironicamente per designare la trasmutazione in ricordo su pellicola e carta di un momento felice o degno di memoria, forse dovremmo riflettere sul disuso attuale di questo verbo con l’avvento di massa della fotografia digitale e sulle implicazioni, non solo semantiche, del coinvolgimento della macchina fotografica – ora fotocamera – nel nuovo ecosistema tecnologico. Perché nell’inflazione iconica determinata dalla rivoluzione digitale a perdersi nella ripetizione senza fine e nella ricorsività insensata – a soccombere nel rumore della catena di montaggio della propria riproducibilità tecnica – sono la storicità e la singolarità dell’evento fotografato.
Aspetti che invece non mancano alle fotografie di Mario Dondero. Classe 1928, protagonista della Milano bianciardiana, quella del quaternario spaesato dal boom economico e delle serate al bar Jamaica in via Brera, Dondero possiede il dono secondo Agamben di coniugare la natura escatologica del gesto fotografico con l’assoluta individualità dell’evento fotografato. Come nel caso della famosa fotografia che imprigiona e consegna al fruitore dell’immagine gli autori del nouveau roman fermi nel 1959 davanti alla sede delle Editions de Minuit. Ed è proprio quel momento, quel senso quasi antologico di contiguità spazio-temporale tra Beckett, Simon, Robbe-Grillet, Serraute a mostrare come la fotografia di Dondero contenga insieme «un inconfondibile indice storico, una data incancellabile» e un rimando «a un altro tempo, più attuale e più urgente di qualsiasi tempo cronologico» (p. 10).

Il senso di urgenza che scaturisce dal gesto fotografico di Dondero, capace di sottrarre all’oblio un evento, si percepisce in tutta la sua forza nello sguardo esigente dei sui soggetti.
Agamben legge nei volti fotografati da Dondero – volti umanissimi, provati dalla fatica, annullati dal lavoro, dispersi in un mondo troppo piccolo per non scomparire fra gli sconfinati tratti somatici che ricambiano lo sguardo dell’osservatore – una richiesta ineludibile di redenzione: «Anche se la persona fotografata fosse oggi completamente dimenticata, anche se il suo vero nome fosse cancellato per sempre dalla memoria degli uomini, ebbene malgrado questo – anzi, precisamente per questo – quella persona, quel volto esigono il loro nome, esigono di non essere dimenticate» (pp. 10-11). Un’esigenza che imprime alla fotografia un sovrappiù di capacità rappresentativa, un mostrarsi della soluzione all’enigma della vita e della storia che, come direbbe Wittgenstein (Tractatus logico-philosophicus, 6.5), enigma non è. Quanto piuttosto scarto fra ricordo, fra percorso potenzialmente attivo nella memoria individuale e collettiva di lungo termine, e speranza, richiesta di realizzare l’esigenza unica di redenzione espressa dal volto fotografato. In questo scarto prossimale, sempre potenzialmente riducibile, i soggetti fotografici di Dondero assumono il volto di una profezia, annunciano l’apocalittico gran giorno dell’ira.
E se i volti fotografati da Dondero esigono redenzione, agli antipodi dello spettro dell’umanità nel giorno del Giudizio si collocano gli assolutamente irredimibili aiutanti. Creature crepuscolari, presenti nei grandi romanzi mitteleuropei di Kafka e Walser, nella letteratura per l’infanzia e nella mistica sufi, gli aiutanti «incarnano il tipo dell’eterno studente e del gabbamondo, che invecchia male e che, alla fine, dobbiamo, sia pure a malincuore, lasciarci alle spalle» (pp. 20-21).

Proprio come lo scrivano Bartelby di Melville, al quale Agamben ha dedicato pagine bellissime, questi personaggi così importanti per i protagonisti delle storie in cui compaiono esprimono un’esigenza di abbandono, un bisogno di esser lasciati alla propria incuria. Pretendono di diventare ciarpame perduto e disperatamente ricercato come lo slittino Rosebud di Kane in Quarto potere. Ne sono incarnazioni paradigmatiche il Pinocchio della prima versione collodiana del romanzo, quella in cui «il mezzo golem e mezzo robot» (p. 22) muore senza diventare un ragazzo, o i wuzara delle Illuminazioni di Ibn-Arabi, uomini che posseggono già le caratteristiche del tempo messianico, in grado di consigliare con la loro saggezza specialistica il Mahdi, il messia venuto ad estendere la sua giustizia al mondo visibile e a quello invisibile. Ma più spesso oscillano senza nome in una dimensione buia, quella del dimenticato, della sbadataggine, della goffaggine. Come l’omino gobbo sempre pronto a rubare il panpepato del piccolo Benjamin, l’aiutante assume i tratti del «grigio funzionario» intento a riscuotere da ogni attività del malcapitato la «metà del dimenticare» (cfr. Infanzia berlinese intorno al millenovecento, tr. it. di E. Gianni, Einaudi, Torino 2007, p. 81). Ma non sono le ombre vaganti dell’Ade greco-romano, quelle parvenze di re ed eroi che stentarono a riconoscere Ulisse, condannate a ripetere senza fine lo stesso gesto. Sono piuttosto eccentrici amministratori di un pro-memoria, quello che ci ricorda, mortali dalla memoria corta, come ognuno sia una promessa – non ancora mantenuta – di felicità. Proprio loro, che sono per antonomasia “i dimenticati” ricordano a chi li incontra di esser fedeli a questa promessa. E di questa ambiguità ai limiti della parodia, ci ricorda Agamben, si carica l’attesa del Regno.

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