Problematiche e fascinazioni di un oggetto di confine.
Il presente contributo riprende alcuni punti del ciclo di articoli recentemente pubblicati su Fare Ricerca intorno al tema del metodo: la pluralità dei metodi e le loro relazioni; i metodi come figure di confine tra oggetti “naturali” e “culturali”; le condizioni della sopravvivenza extra-accademica dei metodi; la loro dimensione processuale.
Un oggetto plurale
Organizzare, intorno al tema del metodo, il ciclo di articoli appena usciti sulla rubrica Fare Ricerca e, prima ancora, un ciclo di incontri sul medesimo oggetto, pareva un azzardo: si trattava di tenere insieme un tema facilmente espandibile e suscettibile di innumerevoli approcci.
Se infatti il metodo è, letteralmente, ricerca, indagine, l’etimologia greca ci ricorda che è modo della ricerca, procedimento, seguito. La piena libertà di cui gode la materia da esplorare si arresta nel momento in cui la sua stessa globalità richiede una messa in ordine. Ciò non coincide necessariamente con una sua chiusura entro coordinate monolitiche, ma entra necessariamente in contatto con linee che si tracciano e strade che si percorrono. Operazioni senza le quali non vi è traccia di metodo: linee e strade coincidenti con operazioni specifiche che sottintendono l’elezione di un qualcosa da cercare o di assiomi cui riferirsi, norme e criteri generali a cui allinearsi o, perché no, le tre cose insieme.
L’azzardo contemplava la presenza di relatori con competenza, certamente, nella loro disciplina ma, aspetto affatto scontato, in grado di articolare sulla componente metodologica uno sguardo trasversale e scevro da facili impressionismi.
La nostra gratitudine va a Paulo Fernando Lévano e Gianluca De Fazio, per un intervento a carattere filosofico, che ci ha insegnato da subito a parlare di metodi, piuttosto che di metodo e ad uscire da una concezione positiva e ingenua dello stesso, a Maria Cristina Addis, Francesco Galofaro e Giovanna Ori, per l’affascinate focus sul tema, spesso evitato o maltrattato, del rapporto tra semiotica e mondo del lavoro, a Roberto Marchesini e Lorenzo Niccolini, per la stimolante presentazione dell’approccio cognitvo-zooantropologico, ad Emilio Fava, per una relazione sulla ricerca empirica in psicoterapia e sul tema della cura davvero esaustiva e ricca di spunti.
Ai confini del metodo
Si tratta, a questo punto, di rivedere anche le nostre posizioni: semiotiche per formazione ed etnosemiotiche per vocazione. Se ogni disciplina ha elaborato propri criteri metodologici passibili di transitività interdisciplinare, anche la semiotica ha percorso un suo personale itinerario: esplorando le sue pratiche in ambienti eterogenei, testandone mano a mano la trasduzione, sempre al confine tra gli elementi di ordine teorico-metodologico e quelli di ordine analitico.
Questo orientamento della semiotica le ha suggerito una costante rimessa in discussione metodologica, composta e ricomposta in una serie di implicazioni che hanno dato luogo, nel suo itinerario, a un continuo va e vieni tra la teoria, la pratica e la teoria della pratica. Una dinamica, questa, che suggerisce una riflessione di più ampia portata, sulla nozione di metodo e sul rapporto al suo interno tra teoria e pratica, sempre più o meno direttamente contrapposte.
Si tratta, d’altra parte, a fronte dell’apparente trasversalità dell’oggetto-metodo, anche di immergersi negli scenari della multidisciplinarietà, interdisciplinarietà e transdisciplinarità, ponendo l’accento proprio sul rapporto tra teoria e pratica. Un orizzonte nel quale immediatamente gli oggetti ritratti sembrano decisamente disposti alla rinfusa, in un secondo momento emerge la molteplicità di simmetrie e ricorrenze che in modo variabile cambiano, da disciplina a disciplina, in un moto dinamico che imprevedibilmente forma strutture puntuali e lascia intravedere fondamenta dai tratti più o meno saldi.
Se teoria e pratica sono indubbiamente interconnesse, per far emergere la complessità di tale rapporto ci è parso infatti significativo rivolgerci agli ambiti dove frequentemente esso appare compromesso, in particolare quelli in cui questa coppia oppositiva entra in tensione con un’altra coppia, quella che oppone le cosiddette “scienze dure” alle cosiddette “scienze morbide”. A tal proposito è stato significativo, ad esempio, l’intervento del dott. Roberto Marchesini, fondatore di SIUA e di Lorenzo Niccolini, cofondatore di Stray Dogs International Project. Si tratta di realtà operanti con l’apporto di professionisti formatisi in ambienti accademicamente lontani tra loro, che testimoniano la funzionalità di una metodologia ibrida e dinamica.
Oltre al metodo nelle diverse discipline e fra discipline eterogenee, un’attenzione particolare è stata riservata a quella soglia che coincide con i confini delle università, luogo di transizione che costituisce inevitabilmente una soluzione di compromesso e rispetto al quale il metodo si colloca, ancora una volta, come avveniva tra teoria e pratica e tra discipline diverse, proprio sui bordi, ai confini.
Posizioni
Il metodo, dunque, è emerso in primo luogo come oggetto di confine tra scientificità e discipline, fra mondi diversi di cui garantisce le reciproche posizioni. Il metodo come presa di posizione sul mondo che di volta in volta torna a fare mondo.
Dato questo approccio era facile e probabilmente auspicabile riscontrare una notevole eterogeneità dei contributi. D’altra parte a questa apertura tensiva, fa inevitabilmente eco una altrettanto forte tensione alla chiusura. È interessante, proprio alla luce di questa grande eterogeneità, rintracciare alcuni elementi ricorrenti all’interno del ciclo di articoli. La ridondanza di tali elementi apre alla visione o all’intravisione, in itinere o a posteriori, di una o più linee di lettura coerenti e unitarie (in semiotica si parlerebbe di isotopie o scene discorsive). Alcuni elementi ricorrenti sono stati: la pluralità dei metodi e i rapporti tra gli stessi; i metodi come figure di confine tra oggetti “naturali” e “culturali”; le condizioni di sopravvivenza extra-accademica del metodo.
Non vogliamo però, in questa sede, proporre una ricognizione di tutti questi elementi, piuttosto vi è un’altra tematica ricorrente sulla quale vorremmo soffermarci un momento, interessante nella misura in cui non era stata in alcun modo suggerita agli autori. Ci riferiamo alla componente processuale del metodo. Per citare alcuni esempi: il metodo è emerso ora come il risultato di un processo di riduzione volto a naturalizzare o culturalizzare i propri oggetti, identificabile solo a posteriori; ora come “la collezione di strumenti”, per “sviluppare consapevolezza del proprio lavoro”, dunque la base attraverso la quale leggere e su cui innestare un processo; o ancora come processo e prodotto a un tempo, della cui co-implicazione si fanno carico i medesimi attori: «chi costruisce e produce metodi e quindi dati di ricerca».
Movimenti
È chiaro che si parla di metodi diversi e non abbiamo interesse a ridurli forzatamente ad uno. È invece pertinente notare come si sia passati da una lettura statica ad una lettura decisamente dinamica del metodo.
Questo, ci pare, ha comportato una decisiva svolta negli equilibri del ciclo. In prima battuta, infatti, si potrebbe pensare al metodo come ad una finestra, dalla quale guardare per accedere ad un’altra lettura del mondo; oppure come ad una porta, da attraversare per passare ad un certo orizzonte scientifico. L’immagine, decisamente più dinamica, che emerge dagli articoli è, piuttosto, simile a quella di una strada, di una scala o di un “ponte mobile” che va prima di tutto costruito e percorso. La porta e la finestra costituivano, nel nostro immaginario, i limiti, le condizioni di possibilità per l’emersione di un al di qua e un al di là scientifico, ne rendevano conto e ne definivano differenze e criteri di passaggio. Il ponte, invece, suggerisce un’immagine che se affiancata alla prima garantisce una lettura ben più complessa e matura: al di là di ciò che collega, il ponte è esso stesso un mondo nuovo, colmo di storia e di storie da percorrere e da cui esser percorsi.
Il punto non è solo, o tanto, ciò che i nostri ponti uniscono o separano, ma l’azione, il movimento che questa nuova unione o separazione comporta.
Sospensioni
Quale dunque il movimento caratteristico delle discipline a vocazione meta-discorsiva da cui muoviamo? O, ancora: quale movimento tipicamente meta-discorsivo si lascia intravedere al di qua di ogni azione metodologica (sia nel senso di azione sul metodo che nel senso di azione attraverso il metodo)?
Ci pare si tratti di un movimento di sospensione del giudizio, delle posizioni, delle azioni e delle progressioni interne alle varie scientificità, o ad esse interstiziale. L’epochè infatti, come ha sottolineato Paulo Fernando Lévano nel suo intervento, è a sua volta un movimento e, vorremmo dire, un movimento di ordine metodologico. In questa chiave (e si tratta di una proposta su cui riflettere, non di un’affermazione), il movimento che le discipline di ordine meta-discorsivo avrebbero da offrire alle altre, sarebbe proprio quello che, a posteriori, consente di tornare sulla riduzione che ha portato a ritagliare un determinato campo disciplinare e su di esso un certo impianto metodologico, in quanto processo di individuazione e proiezione di pertinenze. Tale processo emerge, così, come un movimento di sospensione del giudizio sul campo disciplinare in questione e, parallelamente, su quanto ne rimane escluso, aprendo a una definizione complessa del metodo in cui aspetti statici e aspetti dinamici sono del tutto co-implicati.
Con un movimento che è al contempo epistemologico, metodologico e analitico (non ci si limita a ritagliare un ambito disciplinare: si sa e si crede di ritagliarlo, si ritaglia il ritaglio), le posizioni scientifiche emergono come il risultato di altrettante sospensioni dei continui movimenti e cambiamenti del mondo della vita. Come dire che il senso anche e soprattutto quando è articolato in termini scientifici, tende sempre a presentarsi come chiuso nei suoi effetti (nelle sue manifestazioni), ma essi rimangono sempre, almeno virtualmente, pronti ad aprirsi e dinamizzarsi ancora.
Ciò non significa mettere in discussione risultati scientifici e assetti metodologici ma, semplicemente, suggerisce di prevenirne o discuterne la naturalizzazione, mettendo in evidenza come, almeno dal punto di vista degli autori del presente contributo, ogni metodo sia leggibile anche come una, legittima e necessaria, operazione di sospensione.
Bibliografia
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