Sui confini d’Europa

Storie di violenza e attraversamenti, di paure e speranze sui margini d’Europa.

14 giugno 2015, viene bucata la frontiera tra Turchia e Siria (Credit Lefteris Pitarakis / Associated Press)

Con questa serie di interventi, come redazione de il lavoro culturale, vogliamo dare spazio a cosa sta accadendo sui confini d’Europa. Troppo spesso, infatti, si parla di migrazione de-soggettivizzando le persone, con un approccio che utilizza categorie e forme dicotomiche (male-bene, pericolo-opportunità, criminalizzazione-vittimismo, ecc.) per dare una interpretazione di cosa rappresentano questi ‘altri’ che sono in Europa. ‘Altri’, tra virgolette, esprime al contempo l’oggetto e il soggetto del processo di traduzione di corpi, pratiche, colori e forme della differenza: nel primo caso, si oggettivizza il singolo o il gruppo con l’intento di dare una collocazione (attraverso l’esplicitazione, al plurale, del luogo di provenienza, ad esempio); nel secondo, si attribuiscono caratteristiche dei corpi, modalità d’azione e intenti che costruiscono una rappresentazione capace di silenziare le soggettività.

Questo processo, va chiarito, non riguarda solamente le narrative d’odio, ossia chi si erge a paladino del popolo e degli interessi locali, ma anche quelle parti politiche che dovrebbero essere più vicine alle questioni sociali. E, come se non bastasse, prendendo in considerazione l’ampio campo di chi si definisce ‘apolitico’, si riscontrano le medesime modalità di elaborazione di una distanza dalla complessità. È come, in altre parole, un’anticipazione, una memoria del futuro capace di collocare in un luogo, in Europa, chi, per questioni ovvie, non può e non vuole essere solamente europeo. Svolgendo questa riflessione dal punto di vista della mobilità, invece, si riscontra la volontà di bloccare, attraverso la parola e con l’immaginario, chi è diventato il suo stesso viaggio migratorio, con un processo di dislocazione che erra tra ieri, oggi e domani. Sayad ha parlato di ‘doppia assenza’, intendendo che chi parte non è più riconosciuto parte della comunità di provenienza, e, allo stesso tempo, è escluso da quella d’approdo. Ma il passaggio con cui Abdelmalek Sayad – sociologo e filosofo algerino che si è dedicato allo studio dell’immigrazione – in qualche modo parla la lingua di Frantz Fanon è quello in cui si riflette sull’immigrato come soggetto incompleto, di per sé colpevole e, in ogni caso, fuori posto, ovunque.

Fotografia di Emanuela Zampa, dalla mostra ‘Corpi fuori posto’, 2019.

È possibile interrogare su questo processo usando quell’opacità proposta da Edouard Glissant che è la dichiarazione dell’incapacità di comprendere ed essere compresi totalmente. Significa, in altre cose, decostruire il termine ‘migrante’ lavorando sui confini della parola, e non evocando i rimandi delle rappresentazioni coloniali, e le relative genealogie, usate per discriminare. Questa pratica agisce in modo tale da rendere significato e significante prossimi ad altri con i quali la persona, che si trova in diaspora, ha costantemente a che fare. A quel punto, leggendo le condizioni di vita, si potrebbero scoprire elementi in comune a moltissime persone bianche nate e cresciute in Europa: la precarietà, la povertà, lo sfruttamento, la violenza subita. Da questa prospettiva, il migrante non è un soggetto politico, perché il participio presente che lo definisce e lo accompagna per tutta la vita è fuorviante e riduttivo. La persona migrante diventa, soggetto (del) politico, suo malgrado.

Il ribaltamento dello sguardo, probabilmente, è un’eutopia che parte dal regime distopico in cui, ancora una volta nella storia d’Italia e d’Europa, si evoca l’uomo forte per risolvere la situazione di crisi. Questo anche perché, come ha chiarito Maurice Halbwachs, la memoria collettiva – che è fatta di rappresentazioni, immaginari e pratiche – riguarda il gruppo sociale di appartenenza. Nel caso specifico, la determinazione identitaria coinvolta in questo processo, che agisce tanto sul collettivo quanto sull’individuo, è quella di essere italiani e italiane. Aggiunge Halbwachs che la memoria collettiva si ricostruisce, ossia recupera il passato in funzione del presente. Anche in questo senso, è possibile sostenere che il passato coloniale non è stato rimosso perché è possibile non ricordare, non sapere, non avere la più pallida idea della storia d’Italia in Africa; ma è altrettanto possibile, partendo da questa ignoranza storica, aver ereditato l’archivio coloniale inteso come linguaggi, pratiche e immaginari sulle forme dell’altro. Ecco, allora, che quella memoria – lungo traiettorie che non riguardano il sapere storico che andrebbe appreso sui banchi di scuola – è ricostruita per esigenze di classe, sfruttamento ed estrazione della ricchezza: classificare, etichettare e posizionare altri soggetti che in termini di appartenenza sono considerati del Sud, oltre le frontiere o internamente all’Europa, parti inscindibili dell’Africa, dell’Asia, dell’America Latina.

Ma usare l’opacità per vederci meglio non basta. Un’altra azione è fondamentale, ossia focalizzare lo sguardo sul regime d’apartheid messo in atto in Europa oggi. Per questo motivo, Lavoro Culturale pubblicherà interventi di studiosi, ricercatori, attivisti, solidali che vogliano raccontare i confini non solamente come dispositivi ma anche per le forme di violenza esercitate su chi tenta di giungere in Europa. Si parte, la prossima settimana, con un articolo di Lorena Fornasir sul confine tra Bosnia e Croazia, Bihać e Velika Kladuša, con un focus proprio sulle storie di soprusi, pestaggi, deportazioni, umiliazioni, di tortura relative a uomini e donne sull’ultimo tratto della rotta balcanica. Seguirà, poi, un intervento di Emanuela Zampa, fotografa e ricercatrice, che racconta Ventimiglia e i respingimenti della polizia francese, le condizioni disumane in cui vive chi sogna la Francia, ma anche la volontà di resistere ai sistema dei confini da parte di solidali. Un terzo intervento, redatto da Benedetta Zocchi, analizzerà Ceuta dal punto di vista delle contraddizioni, di come, cioè, il confine tra Spagna e Marocco sia un dispositivo per evocare un certo passato e nasconderne un altro, capace di produrre ed imporre soggettività diverse (portatrici/portatori, persone migranti illegali, lavoratrici/lavoratori, ecc.) in base alla tipologia di mobilità.

La serie di interventi continuerà, inizialmente, con due articoli: uno su Lesbos e l’altro su Lampedusa. A quel punto, ci piacerebbe parlare di altri confini e altre frontiere d’Europa, interni ed esterni al territorio dell’Unione, ma anche poter ospitare contributi relativi a contesti non europei per comprendere meglio, con uno sguardo più consapevole, similitudini e differenze rispetto a cosa sta continuando ad accadere in Europa.

Print Friendly, PDF & Email
Close