Ultima puntata di Sui confini d’Europa, prima di ripartire con tavole rotonde e pubblicazioni
Lasciate da parte i litigi, mettetevi insieme, cercate di capire la realtà della nostra condizione, cercate di capire che il fascismo c’è già, che il popolo sta già morendo e può essere salvato, che altre generazioni ancora moriranno, o vivranno una vita a metà macellate dalla miseria, se voi non riuscirete ad agire. Fate quel che c’è da fare, scoprite nella rivoluzione la vostra umanità e il vostro amore. Trasmettete il segnale di fuoco. Unitevi a noi, e la vostra vita datela al popolo.
George L. Jackson, Con il sangue agli occhi.
Gli Stati Uniti, le notti di fiamme e rabbia. I cortei che inondano le strade, da Minneapolis alle due coste, fin nelle viscere del Paese. Come scrive Sandro Portelli sul Manifesto “è una parte di America senza diritto di parola, senza voto e senza rappresentanza quella che è esplosa in tutto il paese”. C’è Trump con la bibbia in mano, certo. Ma soprattutto è necessario guardare alla polizia, alla lunga scia di sangue. Non c’è nulla di casuale. Derek Chauvin: una mela marcia? Chi ci può ancora credere? Il razzista, forse.
Seguendo la linea del colore che percorre gli States, si giunge ad altre conclusioni. Se la violenza è sempre uno scontro nel campo del politico, quel ginocchio sul collo, di per sé, è metafora della moltiplicazione delle forme della razza, ma anche simbolo di un confine storico che va attraversato. Una perlustrazione temporale ne chiarisce la genealogia. A partire dal 1619 – un anno prima del mito di fondazione della Mayflower – con l’arrivo in Virginia della White Lion, nave negriera con migliaia di schiavi deportati dall’odierna Angola dalla corona portoghese. Poi venne la costituzione di forze di polizia per il controllo degli schiavi, soprattutto al Sud. E il caso John Punch, un africano condannato alla schiavitù a vita, dopo essere fuggito dal padrone bianco. Sempre in Virginia nel 1669, era emanata una legge che permetteva ai padroni di punire a morte i propri schiavi. Del 1704 è l’istituzione delle “slave patrols”, gruppi che dovevano recuperare gli schiavi e restituirli ai proprietari, punirli e istituire forme di paura per evitare le fughe. Dopo la rivolta di Stono, la Carolina del Sud approvò una legge – siamo nel 1740 – che rese illegale, per gli schiavi, lasciare gli Stati Uniti, ma anche riunirsi e coltivare cibo, guadagnare denaro e imparare a scrivere. Il 5 marzo 1770 è la data del Boston Massacre. La polizia spara, per reprimere i riot degli afroamericani, e uccide Cispus Attucks. Anche a latere del secondo emendamento, approvato nel 1791, vi è traccia di razzismo. James Madison fa approvare un provvedimento contro le rivolte dei neri. Il 6 marzo 1857 la Corte Suprema emanava una sentenza secondo la quale i “neri americani” erano inferiori e non erano adatti ad associarsi alla “razza bianca”. E poi, per tutta la prima parte del Novecento, la storia si ripete: violenze di suprematisti bianchi, sentenze di corti, negazione di diritti. Ma anche riot, come quello del 1919 dei veterani neri di ritorno dalla prima guerra mondiale. E poi c’è una lunghissima lista di uccisi: Emmet Till su tutti. Un ragazzino, aveva 14 anni. È il 1955. Viene rapito, barbaramente pestato e ucciso per motivi razziali. La madre decide di far celebrare i funerali con la bara aperta, per mostrare, a tutti, le condizioni del piccolo. Jimmie Jackson, invece, è ucciso dai soldati dell’Alabama nel 1965. Stessa scena anni dopo: è il 3 marzo 1991 e la polizia di Los Angeles massacra Rodney King. Poi, ancora, altre morti: Amadou Diallo nel 1999, Trayvon Martin e Rekia Boyd nel 2012, Eric Garner, Mike Brown, Tamir Rice nel 2014, Walter Scott, Freddi Gray e Sam DuBose nel 2015. Fino a George Floyd e a quel ginocchio sul collo.
Il confine, cioè, è anche un luogo della storia che mostra le persistenze, le eredità, le stratificazioni di significati e di pratiche. Ma è anche il luogo conflittuale, in cui, spesso in ombra rispetto alla storia scritta sui libri e raccontata in televisione, si creano alleanze e si moltiplicano le lotte. E, quindi, ha ragione Portelli quando scrive che “la sola opposizione in questo momento sta nelle strade. La “violenza” non piace a nessuno; ma se i senza parola non avessero alzato la voce Dereck Chauvin l’avrebbe fatta franca come sempre e come tutti gli altri; e se non avessero parlato con il fuoco nelle strade, le istituzioni si sarebbero limitate a licenziarlo ma non l’avrebbero, troppo tardi, incriminato”.
Quanto emerge dal fuoco degli Stati Uniti, per la prima volta, e, credo, in controtendenza con i riots del 2015, è una composizione della piazza ampia, che raggruppa molteplici soggettività. Alcune delle quali hanno capito che dove non arriverà Trump, ci penserà la mannaia della crisi economica. Non è, questa, “la lotta dei neri contro i bianchi” – recita un cartello durante un riot. E anche le pratiche di resistenza sono numerose. Questo scontro infiamma gli USA, ma si connette, inevitabilmente, con l’Europa – per non dire con il mondo intero. Non parlerò di insegnamenti, perché è nella mischia che si decide quanto vale il domani. Ma di una volontà di ripensare il confine – e tutti i confini intorno a noi – come luogo del conflitto, come occasione per costruire quel comune che è già un pezzo di futuro.
La serie “Sui confini d’Europa” partiva proprio da questi stimoli. Rileggere le soglie dell’Europa come luogo di violenze e resistenze non era un’attività fine a se stessa. Ma prevedeva il tentativo, raccogliendo interventi di soggettività diverse, di problematizzare le diverse declinazioni della razza con un approccio intersezionale, di indagare la messa al lavoro dei corpi e l’estrazione di ricchezza, ma anche, e soprattutto, di mostrare le forme di resistenza che sono sempre collettive anche quando agite individualmente. La serie continuerà su due distinte ma incrociate traiettorie: quella di un volume collettaneo, con i contributi delle autrici e degli autori che hanno raccontato i confini d’Europa, di prossima pubblicazione per Il Manifesto Libri; quella di tavole rotonde trasmesse sui canali social di Lavoro Culturale.
I ringraziamenti non sono di rito, ma necessari: alle compagne e ai compagni di viaggio della redazione di Lavoro Culturale, per i tanti stimoli e i consigli, per quanto di bello abbiamo condiviso, per i ritardi e gli errori che chi hanno messo in dialogo, per i risultati ottenuti, insieme. Grazie a tutte le autrici e a tutti gli autori per i preziosi contributi. Grazie alle lettrici e ai lettori per la dedizione con cui hanno seguito le puntate, settimana dopo settimana.
A presto, sempre sui confini d’Europa!