Sui confini d’Europa #6

Tunisia tra frontiere di violenza e reti di resistenza.

Ci sono Stati che possono trasformarsi in frontiere, frontiere per imprigionare i sogni delle persone, rinchiudere le loro speranze e i progetti di un futuro diverso. Ci sono Stati, come la Tunisia, che addirittura rappresentano una doppia frontiera. La prima con la Libia, da cui non sempre arrivano vivi i corpi già martoriati dall’orrore. La seconda è la frontiera europea esternalizzata, appendice di questa nostra Europa celebrata come culla del diritto, che si culla, appunto, con sterili valori di carta, mentre esternalizza tutto ciò che turba la sua favola menzognera e, per farlo, finanzia Paesi terzi che tutto si potrebbe definire fuorché sicuri.

Foto di Silvia Di Meo

La Tunisia è una frontiera dove si transita: si parte e si arriva, come autoctoni e come migranti provenienti da paesi terzi. A partire sono i giovani, coloro che si affacciano al mondo adulto con un bagaglio di sogni da realizzare, di speranze per il futuro come qualunque giovane europeo che decide di fare un’esperienza all’estero e parte con un biglietto, una valigia e, quando necessario, un passaporto. Ma per viaggiare dalla Tunisia serve un visto, un permesso speciale che solitamente viene negato e così ci si ritrova a prendere la “strada del mare”, su una “barca della morte” con altri giovani, con altri sogni alla deriva, ad attraversare un Mediterraneo che troppo spesso si tinge di rosso, un mare che inghiotte e fa sparire le persone. A volte invece si arriva dall’altra parte di quel mare, ma, anche in quel caso, è possibile scomparire o imbattersi in un’altra frontiera, in un non luogo come un centro per il rimpatrio – un lager istituzionalizzato dove si vive in assenza di diritto o finire in un centro di pseudo – accoglienza, in un sistema assimilazionista e senza diritti.

Oltre i migranti autoctoni, a passare per il corridoio di transito della Tunisia ci sono persone provenienti dall’Africa subsahariana, che arrivano ad esempio da Eritrea, Sudan, Mali, Senegal, Ciad, Nigeria, Costa d’Avorio, Guinea Conakry, Camerun: paesi che corrispondono a uomini, donne, bambini che hanno attraversato l’inferno libico e vissuto le sevizie e le torture di cui tutto il mondo è a conoscenza.

Foto di Silvia Di Meo

La Tunisia è una frontiera dove non si rispetta il diritto d’asilo: lo sanno bene i circa 200 eritrei che vivono come rifugiati-fantasma in un paese che non ha una normativa nazionale chiara e definita che regolamenti la richiesta d’asilo e l’accoglienza. Abbiamo incontrato molti di loro a Tunisi e a Medenine, rinchiusi nei centri di “accoglienza” privi dei più elementari servizi e spesso lontani dai centri abitati: abbandonati a loro stessi con in mano un tesserino rilasciato dall’UNHCR, privo di valore reale: una carta inutile sul cui retro l’agenzia delle Nazioni Unite ringrazia la Tunisia per l’eventuale atteggiamento accogliente che volesse adottare nei confronti del suo intestatario. Si elargiscono favori, non diritti. Tra i favori non rientrano pertanto né la possibilità di lavorare con contratto regolare, né l’accesso alla sanità di base, né un supporto economico sufficiente a sopravvivere. Ecco perché, nonostante tutti confermino l’inferno libico, alcuni, travolti dalla disperazione di sopravvivere in un limbo imprecisato in assenza di prospettive e diritti, quasi desiderano tornarvi per riprovare ad attraversare il mare o quantomeno per poter lavorare.

La Tunisia è una frontiera dove si operano deportazioni: una terra dove le persone possono scomparire nell’indifferenza degli Stati, come è accaduto il 4 agosto 2019, quando trentasei ivoriani – 21 uomini, 11 donne di cui una incinta e 4 bambini – sono stati deportati dalla Garde Nationale presso Ras Agedir, in una zona imprecisata in mezzo al deserto nel territorio militare tunisino, in prossimità del confine libico. Grazie al video fatto circolare dai migranti, diffuso in rete dagli attivisti del Forum Tunisien pour les Droits Economiques et Sociaux, siamo venuti a conoscenza di quella violenza e siamo intervenuti come rete di attivisti italiani e internazionali presenti sul territorio di Zarzis. Nonostante la comunicazione intermittente con uno di loro e le condizioni di sopravvivenza criticissime – senza acqua né cibo per quattro giorni – siamo riusciti a raccogliere testimonianze audio di quella condizione che abbiamo fatto circolare pubblicamente, facendole arrivare all’OIM, UNHCR, Amnesty International, CRI. Questa azione, unita alle pressioni davanti alle sedi di potere delle istituzioni a Tunisi e con le sollecitazioni presso i checkpoint di Ben Garden al confine con la Libia, ha finito per dare visibilità alla questione e portare alla liberazione delle persone coinvolte. Tutto ciò di fronte alla negazione di tutti gli organi preposti alla tutela dei diritti dei migranti che si dichiaravano impotenti e si difendevano con sterili giustificazioni. In quell’occasione la stampa arrivava addirittura a definire gli attivisti coinvolti dei bugiardi e visionari e il governo tunisino minimizzava l’accaduto, parlando di ordinario respingimento in frontiera. La verità è stata altra: si è trattato di una deportazione a tutti gli effetti. Senza la tenacia degli attivisti locali e della pressione internazionale ad opera dei gruppi solidali, forse oggi quelle trentasei persone non avrebbero potuto raccontare l’orrore vissuto. Siamo stati testimoni di come si possa far scomparire qualcuno arrivando a negarne l’esistenza. La violenza di quell’atto internazionale ci ha assillato e ci assilla: cos’era se non un tentato omicidio di Stato con la complicità e l’indifferenza dei nostri governi?
Fortunatamente quelle trentasei persone oggi sono ancora vive, grazie agli attivisti che hanno bucato la rete di confine, raccogliendo il loro grido d’aiuto e mettendosi alla loro ricerca: da nord a sud Italia, dal Messico alla Spagna alla Tunisia, Bergamo Migrante Antirazzista, Borderline Sicilia, Campagna LasciateCIEntrare, Caravana Abriendo Fronteras, Ongi Etorri, Carovane Migranti, Dossier Libia, Europe Zarzis Afrique, Movimiento Migrante Mesoamericano, Progetto 20k, Progetto Melting Pot Europa, La Terre pour Tous. 

Foto di Silvia Di Meo

Infatti, la Tunisia è anche una terra dove si resiste. Perché se è vero che spesso la frontiera è muro, è anche vero che grazie alle persone che lo vivono la frontiera diventa uno spazio poroso, un dispositivo aggirabile.

In Tunisia, oltre la violenza brutale di politiche di morte e di negazione, ci sono persone che ogni giorno tessono una tela di solidarietà. Di questa maglia fanno parte i pescatori tunisini di Zarzis che raccolgono i corpi dei migranti in mare: come ogni eroe dei nostri tempi, i pescatori hanno visto trasformarsi la propria attività lavorativa in missione di soccorso di vite umane. Più volte accusati del reato di umanità perché oggi la solidarietà è un delitto, vivono la criminalizzazione costante della loro attività umanitaria, in un sistema costruito sul potere degli uni sugli altri.

Della rete di resistenza fa parte anche Imed Soltani, con la sua casa sempre aperta alle persone in transito e la sua preziosa associazione La terre pour Tous che lotta da anni per fornire delle opportunità ai giovani della medina e per ristabilire i legami  tra i migranti partiti per l’Europa e le loro famiglie, facendo memoria dei ragazzi scomparsi o inghiottiti dal mare, nel suo garage a Tunisi. Verità e giustizia chiede Imed, verità e giustizia cantano i giovani rappers tunisini col sogno di far vibrare la propria musica, le proprie parole oltre i confini a incontrare sinfonie di coetanei d’oltremare. Verità e giustizia mettono in scena i ragazzi nelle loro piece di teatro dell’oppresso. Verità e giustizia chiedono le madri unendo le loro voci a quelle delle madri centroamericane e del mondo intero.

Foto di Silvia Di Meo

A tessere la rete c’è anche il libero pensatore Mohsen Lihibiden, con la sua memoria attiva raccontata nella terra di Zarzis, sulla spiaggia che raccoglie corpi e storie portate dal vento. Grazie a Mohsen questa terra è anche resistenza e memoria, custodita nel Museo della Memoria del Mare e nelle poesie che qui scrive e recita: con le sue parole raccoglie le tracce dei passaggi, degli arrivi delle partenze e custodisce i simboli di quel transito travagliato, raccogliendo le scarpe di chi è passato per mare – vivo o morto. Mohsen fa del suo museo un piccolo spazio di resistenza all’oblio in cui sono risucchiate le vite dei migranti.

Vite che spesso finiscono tragicamente, corpi sbattuti sulla costa dalla forza delle onde che riescono a strapparne alcuni da questa grande fossa comune che è ormai il Mediterraneo. A Zarzis c’è chi cerca di restituire a quei corpi almeno il diritto a una sepoltura, corpi senza nome e spesso mutilati, custoditi da un fiore sotto cumuli di terra arsa dal sole nel Cimitero degli Sconosciuti.

Chamseddine Marzoug non si stanca di scavare, interrare, consacrare quelle tombe improvvisate nel suo pezzo di terra, regalando un ultimo pensiero a chi se ne va senza nessuno a piangerlo.

Foto di Silvia Di Meo

E, infine, a tessere questa rete di resistenza ci siamo anche noi, nel nostro piccolo a fare la nostra parte, come in quei giorni di agosto, quando ci siamo mobilitati per salvare le 36 persone deportate dalla violenza e dalla morte o quando da Zarzis abbiamo denunciato le condizioni di vita dei richiedenti asilo e dei minori di Medenine, cercando di costruire insieme agli attivisti locali delle possibilità di convivenza e futuro per cittadini e migranti. Diamo il nostro contributo, come quando abbiamo sostenuto il lavoro di Imed di Terre pour Tous, rendendo possibile il riconoscimento da parte delle madri tunisine dei corpi dei loro quattro figli – partiti per l’Europa e morti nel naufragio di Lampedusa del 7 ottobre 2019 – consentendo che le loro salme tornassero a casa e fossero sepolte. Uno sforzo congiunto tra attivisti italiani e tunisini che ha prodotto un risultato inedito, evitando la negazione e l’oblio delle storie dei migranti, permettendo di restituire un nome a quattro volti e di ricordare i loro progetti e sogni attraverso la testimonianza dei familiari.

Sì, ci siamo anche noi a cucire questa tela, muovendoci in punta di piedi, con il peso oneroso del vile colonialismo dei nostri antenati sulle spalle, con il candore dei nostri passaporti, con l’ingiustizia dei nostri privilegi, l’indifferenza di tanti nostri compaesani, ma con tutta la forza della nostra lotta per i diritti dei migranti e per la libertà di circolazione. Abbiamo al nostro fianco chi ci insegna a lottare e re-esistere: la nostra forza l’internazionalismo che ci contraddistingue, il riconoscersi persone tra persone oltre ogni concetto di patria e confine. Continuiamo a fare la nostra parte in Tunisia, sui confini e lontano da essi, a tessere la rete collettiva dei solidali che attraversa il Mediterraneo e le frontiere interne ed esterne, raccontando questa rete e questa Storia dal punto di vista delle soggettività che la vivono ogni giorno e costruendo con loro spazi di azione, denuncia e resistenza.

 

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