Sui confini d’Europa #5

Storie di confine da Moria

Ricordo quando N. è partito e abbiamo aspettato il suo trasferimento per ore nella discesa dell’Olive Grove, prima della strada principale. Tra saluti, scherzi e pianti quello è stato uno dei momenti chiave della mia permanenza a Lesbo, l’immagine più nitida di quel caos opprimente e offuscante. Decine di famiglie, tra cui quella di N., hanno dovuto impacchettare le loro vite in sacchi neri dell’immondizia, borse e scatoloni con il loro nome sopra e con qualche ora di preavviso. Ci guardavamo intorno un po’ per nascondere la tristezza, un po’ per cercare tra la folla persone che magari non abbiamo avuto il tempo di salutare.

N. era agitatissimo e continuava a fare avanti e indietro contando continuamente i membri della sua famiglia, controllando i bagagli, sempre un po’ confuso per la notizia improvvisa, continuando a portare borse e scatoloni e cercando di realizzare cosa stesse accadendo. Stava lasciando quel luogo infernale, sì, ma nemmeno sapeva per dove. Sapeva che era forse Atene, forse Thessaloniki, sicuramente la mainland. Continuava a chiedere a me e ad A. “ma voi lo sapete dove ci portano?”, e noi ovviamente avevamo meno risposte di lui. “Un posto migliore di questo”: questa è la risposta di poliziotti e impiegati dell’UNHCR. Impacchetta la tua vita in qualche ora che di sicuro andrai in un posto migliore.

N. ci guarda e con quel viso dolce che ci ha accarezzato per settimane e quel sorriso che non l’ha mai abbandonato nemmeno nei momenti più ingrati, ci dice “quello che ho capito è che non abbiamo scelta sulle nostre vite. Dal momento in cui ho dovuto lasciare l’Afghanistan per scappare con mia moglie e i nostri figli, abbiamo smesso di avere potere sulle nostre vite. Non è facile dimenticare quello che ho visto e lasciato là, ma trovando svaghi, facendo volontariato, conoscendo nuove persone un po’ ci stavo riuscendo a costruire nuove memorie.” E in silenzio continua a sorridere mentre A. ci porta un caffè ghiacciato. “Oggi però mentre impacchettavo di nuovo tutto, il primo pensiero che ho avuto è stato noi che prepariamo le borse e salutiamo la nostra casa e i nostri cari per lasciare l’Afghanistan. E tutto ricomincia da capo”.

Ci abbracciamo e le risposte rimangono intrappolate in gola, schiacciate da storie che non potremo mai immaginare e che potremo sempre e solo ascoltare.

Mentre torniamo a parlare di cose che non ricordo più, iniziamo a sentire la gente urlare e applaudire tutt’intorno a noi rivolti verso la strada principale. Tra la folla si stava facendo strada uno dei bus della polizia che trasposta i nuovi arrivi al campo. N. ci guarda, sorride alle nostre facce perplesse e ci dice “gli stanno urlando welcome to the hell”.

E mentre la barzelletta raccontata dal governo da mesi sugli spostamenti verso la mainland per rimuovere la pressione da Moria crolla di fronte ai nostri occhi, un senso di sconforto mi assale e l’immagine di quell’inferno che non ero ancora riuscita a mettere completamente a fuoco, improvvisamente ha contorni nitidi. E in quella giornata vedo cos’è Moria.

Mentre un centinaio di persone se ne vanno, il doppio viene accolto da quelle mura bianche e dal filo spinato. Mentre un gruppo tira un sospiro di sollievo lasciandosi alle spalle quel dolore ma senza sapere cosa li aspetta, il doppio viene gettato in quel non-luogo di incertezze a chiedersi se è quella l’Europa e se è quella una vita degna di essere vissuta.

E in questo caos e queste storie ed i suoi numeri, Moria si disegna e l’unica cosa chiara che ne risulta è che non vi è un piano.

Camminando per l’Olive Grove, parlando con le persone, ascoltando le storie e le testimonianze di chi ci vive e di chi ci lavora, leggendo gli articoli della stampa internazionale e i report delle organizzazioni, ascoltando i discorsi dei politici e quelli al bar, l’unica cosa comune e nitida è che c’è consapevolezza di cosa accade alle porte dell’Europa ma ciò che manca è l’iniziativa (o la volontà) di rispondere a ciò che sta accadendo.

Come quella di N., altre mille storie andrebbero raccontate per spiegare cosa vuol dire Moria, oltre politiche e discorsi, quotidianamente nelle vite di chi la abita.

K. ha passato le ultime due settimane con noi stando quasi sempre in silenzio, a fissare il vuoto, a dormire durante i turni nel free-shop, a non mangiare. Il suo volto stanco e il corpo esausto non partecipavano più a nulla di ciò che accadeva intorno. Ogni tanto gli scappava qualche sorriso, quando provavo a ripetere senza successo le poche parole che mi aveva insegnato in Kurmanji. In una delle pause io, lui e F. chiacchieriamo e ci raccontiamo da dove veniamo. Poi tiriamo fuori una mappa e lui punta una stradina di una città nel nord dell’Iraq, vicino a Sinjar. Poi sta in silenzio per secondi infiniti. Guarda me e F. e dice “è la prima volta dopo cinque anni che rivedo casa mia”. E poi se ne torna nel suo angolo.

K. ora ha lasciato quest’isola infernale. E’ stato nel nord della Grecia con la sua famiglia in un altro campo di soli yezidi. La partenza, quella che tutti i prigionieri di questi confini aspettano, per lui era un ulteriore viaggio senza meta e senza certezze. Un’altra delusione imminente. Solo l’ennesima e neanche lontanamente ultima tappa nel suo viaggio verso la Germania. Una tristezza e rassegnazione che ti entrano nelle ossa nel momento in cui lasci casa, le immagini che solo tu puoi vedere davanti a te ogni giorno ed ogni notte che ti ricordano da cosa cerchi di fuggire e non ti abbandonano mai, ma si insidiano negli angoli più ostinati della tua quotidianità. Quello che forse può essere un lieto fine, poi per K. è arrivato e a inizio dicembre ha finalmente lasciato la Grecia con la sua famiglia per raggiungere la meta finale che era Colonia.

Quando invece N. e H. sono stati trasferiti verso la mainland risplendevano di una luce che non avevo mai visto loro addosso in tutto quel primo mese e mezzo. La luce di due bambini che per un giorno possono tornare bambini e gioire. Hanno saputo il mattino stesso che li avrebbero trasferiti nel pomeriggio con le zie e i cugini ad Atene (che spesso vuol dire semplicemente un luogo indefinito nella mainland). Qualche ora per impacchettare uno zainetto a testa e anche per loro e’ il momento di lasciare l’isola. Abbracci infiniti, sorrisi e lacrime trattenute. Auguri e benedizioni. Le promesse di rivedersi un giorno in giro per l’Europa. Di N. e H. non ho più però avuto notizie.

Poi c’è E. che ho conosciuto un giorno per caso durante una mappatura e che da lì è diventata una presenza quotidiana e un sorriso fraterno che scalda. Un mio amico mi dice “vieni, ti presento una persona che parla bene inglese e ti può dare una mano con le traduzioni” e mi porta alla sua tenda. Ci salutiamo, uso le poche parole in farsi che ho imparato per presentarmi, lui scoppia a ridere e mi risponde. Poi ci stende un materassino da yoga accanto alla sua tenda e ci chiede di sederci per bere un te’. Sua figlia di due anni si avvicina a passi scalzi e incerti salutandoci timidamente e ci mostra cosa sta facendo sul telefono per dirci che sta imparando l’inglese con dei video su YouTube. Chiacchieriamo con E., ci presenta il suo vicino di tenda che era professore in Afghanistan prima di venire qui, prima che la sua casa non fosse più casa ma un cumulo di macerie. E. ci racconta che per scappare dall’Afghanistan ha preso l’aereo con sua moglie e sua figlia fino in Iran. Dall’Iran alla Turchia l’ha fatta un po’ a piedi e un po’ in macchina. Nelle macchine, semplici automobili o furgoncini, ci si stava in 20 quando andava bene, ma anche in 30. Pausa. Dice che quella è stata la parte piu dura mentre rivolge lo sguardo velocemente verso sua figlia.

Poi ci fa vedere sul telefono le foto della sua casa in Afghanistan prima che venisse distrutta e un video satellitare in cui si vede il suo quartiere. Per i primi secondi non si vede nulla, poi all’improvviso si vede precipitare un aereo senza pilota e poi una grande esplosione. Era il 9 agosto e il 20 ha lasciato l’Afghanistan. Sai, io e la mia famiglia ce l’abbiamo fatta in tempo, il mio vicino di casa no. Finiamo il tè tra sorrisi di circostanza per nascondere il silenzio delle risposte che mancano a storie che ci dovrebbero appartenere ma che non capiremo.

E il mio privilegio in quel campo l’ho capito realizzando che la mia sfida più grande, la difficoltà più scomoda era proprio quella: ascoltare le storie senza la possibilità di fermare la mia mente dal ricostruirle in immagini, e reagire nel modo giusto. Perché un modo giusto per rispondere a tanto dolore non esiste. Un dolore che a noi viene solo raccontato, quasi mai interamente. E io, che in quel momento avevo il privilegio di poter solo ascoltare e immaginare, non sapevo come gestire tanto dolore. Non sapevo come rispondere agli sguardi e ai silenzi. Non sapevo come accettare il mio senso di impotenza, non volevo farlo.

Mi ritrovavo a dover elaborare una storia non vissuta e mi ritrovo ora a scriverla, assieme ad altre, con la mia narrativa di chi è appunto esterno a queste dinamiche, con le distorsioni dettate dai miei pregiudizi e con le mie idee di guerra e dolore.

E. torna poi nella tenda e ne riesce con un piattino di plastica e tre brioches confezionate. “Fate finta che sia una torta” e ride mentre le apre e le taglia a fette. Così torniamo a parlare di altro. “Ce le danno a colazione al campo, una brioche e una bottiglia d’acqua”.

Da quando arrivai sull’isola quello che ci si ripeteva è che l’inverno stava arrivando e che il rischio era quello di sfiorare i numeri del 2015/2016 senza i mezzi sufficienti per rispondere all’emergenza, con l’unica differenza che all’epoca le persone non rimanevano che qualche giorno al campo. La paura era di non saper gestire la situazione e che probabilmente si sarebbero piante tardivamente le vittime del freddo e delle frontiere. Poi è successo che l’inverno è arrivato, le previsioni sui numeri e sui mezzi si sono realizzate, ma una risposta si è trovata a fatica. E ovviamente non è abbastanza perché la soluzione non sono i trasferimenti se le persone vengono trasferite, come è capitato a N., in paesini disabitati e lontani da qualunque servizio sulle montagne vicino al confine con l’Albania . A questo si aggiunge che comunque ogni trasferimento equivale al doppio delle persone che arriva senza che servizi adeguati ai numeri siano implementati. Oggi l’Olive Grove è senza corrente elettrica, ad esempio. La pressione sul sistema del campo ufficiale, adatta a massimo 6 mila persone, è troppa per coprire le esigenze di più di 20 mila. Quindi chi non ha la propria tenda o costruzione all’interno delle reti di Moria resta senza corrente elettrica, cosa che nella vita di tutti i giorni si traduce in impossibilità di riscaldarsi, di cucinare, di caricare i telefoni, di avere una fonte di luce che protegga la propria famiglia dai pericoli della notte, impossibilità per le donne di muoversi in sicurezza.

La soluzione non sono quindi gli spostamenti verso la mainland, non è il trasferimento di persone da un campo all’altro, o tantomeno la costruzione di campi di detenzione per i nuovi arrivi come il nuovo governo va proponendo (senza fortunatamente supporto da parte della popolazione locale). Il problema alla base, di cui porteremo la responsabilità sulle nostre spalle per decenni e che non sapremo come spiegare, sono i confini di questa fortezza Europa che uccidono, umiliano, violentano, picchiano, deprimono. Moria non è che il risultato di questi problemi e queste mancanze. È il volto di un’Unione Europea che delega le proprie responsabilità, che chiude gli occhi di fronte alle proprie debolezze strutturali e alle proprie sfaldature, che si rifiuta di guardare in faccia e prendersi carico dei disastri umanitari causati dalle proprie politiche migratorie fallimentari, colonialismo e guerre disumani.

E mentre i muri da scavalcare diventano sempre più alti e i confini da attraversare sempre più pericolosi, il limbo che è Moria crolla lentamente sulle teste di chi lì è bloccato senza, come N. mi diceva, il potere di scegliere sulla propria vita.

Se di Moria ci sono così tante cose da raccontare, quasi nessuna è una bella storia. Però raccontare questo posto per immagini e racconti è per me il modo più semplice per capire la logica feroce dietro a questo campo profughi. A capire che i numeri sono persone e le persone non sono numeri.

Qui infatti le persone spesso diventano numeri: numeri di arrivi, numeri identificativi, numeri sulla tenda o sul container in cui vivono, numeri pubblicati online e su Facebook ogni volta che i documenti sono pronti, numeri di morti, numeri di spostamenti verso la mainland, numeri di rimpatri, percentuali di richieste di asilo accettate per nazionalità, numeri di persone bloccate in Turchia.

Ogni articolo o post che parla del campo inizia più o meno così, dicendo che ha una capienza di 3 mila persone ma ne accoglie ormai 20 mila. Che ogni settimana in estate approdano tra Lesbo, Samos e Chios almeno 700 persone, in inverno un po’ meno, ma di cui più della metà sono sempre minori. E nonostante ciò gli arrivi sono solo un terzo delle partenze. Tutti gli altri tornano in Turchia. O rimangono sui fondali del Mediterraneo.

I numeri spesso aiutano le storie a disegnare i contorni di questo non-luogo, a dargli un contesto, a capire l’emergenza, a rappresentare in grafici cosa vuol dire quando l’umanità finisce, le barriere di filo spinato si alzano e i confini diventano i guardiani di questo continente.

Ma vedere numeri, che in molti casi fanno paura, è meglio che fermarsi a guardare i volti. Perché vedere il riflesso di questa Europa corazzata che respinge, imprigiona e uccide, tra le rughe e le cicatrici degli adulti e dei bambini fa ancora più paura. E ascoltarla nei racconti di chi ne porta le tracce indelebili nei lineamenti, nelle espressioni e nella voce, spaventa.

Ma soprattutto questi numeri non sono nulla se non li si spiega.

Se non si spiega cosa vuol dire 20mila persone la mattina, il pomeriggio, la sera, in coda per prendere un pasto, il più delle volte freddo e scaduto, altre volte niente pasto perché dopo ore di coda c’è troppa gente e non abbastanza il cibo. E poi dopo la coda per il cibo c’è la coda per la doccia, per lavare i panni, per andare in bagno, per andare dal dottore, per i documenti, per ogni semplice azione avrai davanti una coda di centinaia se va bene, migliaia nella maggior parte dei casi, di persone. Vuol dire che ti devi alzare ogni mattina alle 5 per farti una doccia fredda e portarti dietro il volto stanco per tutto il giorno. Vuol dire presentarti davanti all’ufficio alle 3 del mattino quando l’ufficio apre alle 10 se tu e la tua famiglia volete arrivare in tempo per ritirare i vostri documenti, avere la vostra intervista o il timbro sul ausweis.

E se sei in coda per una di queste attività e non nella tua tenda nel momento in cui ti vengono a cercare per informarti che sei tra i “fortunati” che verranno spostati verso la mainland, beh, semplicemente hai perso la tua occasione. E anche qui ti metti in coda per il prossimo spostamento.

Su Moria ci sono ancora centinaia di vite da raccontare, problemi da urlare e risolvere, informazioni sbagliate, lavori da rifare, ma le pagine su cui farlo e le parole da usare non sono mai abbastanza. Vorrei però fare un’ultima riflessione.

Moria non ha bisogno di pietà e paternalismo o di reporter che in cinque giorni pensano di averla capita e tornano a casa soddisfatti per aver fatto un buon lavoro, ammirando la foto di un bambino scalzo nel fango o di una madre che piange. Moria non ha nemmeno bisogno di volontari che spinti dal loro white saviour complex vengono in gita di due settimane a vedere il campo come fosse uno zoo e una volta a casa racconteranno di aver visto dei refugees. Moria non ha nemmeno bisogno di ONG che mettono bibbie in mezzo ai pacchi di vestiti e cercano di convertire chi arriva da loro perché se ti converti velocizziamo la tua richiesta di asilo. E sicuramente Moria ha ancora meno bisogno dell’assistenzialismo di cui è satura, in cui vi è un noi e un loro, dove noi sono gli internazionali e loro sono i refugees. Dove noi offre e impone servizi e loro li accetta e subisce senza mai essere interpellato. Dove noi è chi si appropria di una narrativa sbagliata per raccontare Moria e loro chi a Moria ci vive ma questa narrativa la subisce, come subisce i confini, la violenza, la mancanza di presa di responsabilità dei governi europei e pure parole che non gli appartengono, che lo descriveranno sempre con tristezza e rassegnazione. Ecco, di tutto questo Moria non ha bisogno.

Ha bisogno però che alle persone venga riconosciuto il diritto di muoversi e uscire da quella prigione a cielo aperto. Ha bisogno che in Europa ognuno si prenda le proprie responsabilità dopo aver guardato in faccia e ascoltato chi ci vive. Ha bisogno che i morti nel mare Egeo e sull’isola vengano evitati, non pianti. E che si parli della violenza dei confini, delle violenze di genere. Che i pacchi di vestiti e compassione vengano sostituiti da libertà di potersi raccontare, di poter scappare, di poter vivere, di poter uscire. Che vengano bruciati e mai dimenticati gli accordi che la fortezza-Europa ha siglato per alzare i propri confini (che arrivano ormai fino in Libia, Marocco, Turchia e Niger) ai corpi che tentano di attraversarli per farli morire lontano dagli sguardi codardi di chi sfrutta, uccide, distrugge, umilia e non ne accetta le conseguenze. Di questo Moria ha bisogno.

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