Ventimiglia, specchietto retrovisore
Le frontiere, i luoghi di confine tra stati, sono densi e fortemente rappresentativi: Ventimiglia non fa eccezione. Da sempre, ma in particolare dal giugno 2015, ovvero da quando la Francia, inizialmente in base agli Accordi di Chambery e poi per motivi di sicurezza a seguito degli attentati subiti, ha, di fatto, sospeso gli accordi Schengen e reintrodotto controlli sistematici al confine italo-francese, creando un tappo che vorrebbe bloccare i flussi migratori che attraversano l’Italia e che sono diretti principalmente verso il Nord Europa.
La situazione é ormai più che nota e negli anni ha trasceso lo stato di emergenza diventando cronica e sistematica.
La gestione degli arrivi, inizialmente affrontata solo da solidali e attivisti, é stata perlopiù affidata all’amministrazione locale, nello specifico al sindaco Enrico Ioculano, allora in carica con il PD da solo un anno. Una situazione tutt’altro che semplice, fatta di un flusso costante ed inarrestabile di migliaia di esseri umani che, disperati, sopravvissuti ad un viaggio estenuante attraverso il deserto ed il mare, o attraverso le foreste dei Balcani, ormai arrivati nell’Europa dei diritti umani, nell’Europa senza confini, si trovavano di nuovo bloccati davanti ad un muro.
Ventimiglia da allora é diventata pian piano un incredibile specchietto retrovisore di come la cultura italiana sia cambiata negli ultimi anni, di come accoglienza e solidarietà siano passati dall’essere pregi da ammirare, ad oggetto di disprezzo e criminalizzazione.
Questo processo si é attuato anche grazie a pratiche repressive e ordinanze ad hoc che si sono poi rivelate efficaci e così replicabili in altri territori, rendendo questo confine anche una sorta di luogo adatto alla sperimentazione sociale di questo tipo di pratiche. Tali azioni si sono concretizzate, ad esempio, nelle ordinanze che vietavano di distribuire cibo alle persone che vivevano per strada, indipendentemente dal fatto che fossero migranti o meno, mascherando dietro la tutela del decoro e l’attenzione all’igiene pubblica la volontà di emarginare e criminalizzare la povertà.
La società civile é stata la prima a rispondere all’emergenza, di fatto sostenendo la nota occupazione degli scogli dei Balzi Rossi. E’ qui che la repressione si é fatta sentire maggiormente, segnando fin da subito ed indelebilmente il rapporto tra mondo solidale ed istituzioni sul territorio, tramite l’uso, reiterato, dei fogli di via. Questi, non sono altro che provvedimenti amministrativi emanati dal prefetto che determinano l’allontanamento immediato dal territorio di un soggetto considerato pericoloso, per un periodo che varia dai sei mesi a tre anni. Le motivazioni possono essere totalmente discrezionali, non essendoci la sentenza di un giudice: ad esempio fotografare degli agenti é costato ad alcune attiviste le accuse di resistenza, interruzione di pubblico servizio, oltraggio aggravato e il foglio di via obbligatorio da Ventimiglia per tre anni.
Si é creato così non solo un fattore deterrente alla solidarietà dei volontari, attivisti e professionisti che da subito si erano mossi per supportare dal punto di vista politico e pratico i migranti in transito bloccati, ma anche una profonda spaccatura tra chi sta con i migranti e chi, fondamentalmente, contro.
Un sistema a matrioska che crea ulteriori confini dentro la frontiera.
A Ventimiglia infatti non c’é solo il confine di stato, ma anche un confine invisibile, fortemente percepibile, tra i locali ed i solidali. Una delle particolarità della situazione, infatti, é la scarsissima risposta solidale da parte dei locali, contro una forte mobilitazione internazionale. Questi due gruppi sono divisi da una frontiera quasi impermeabile che si sovrappone a quella tra migranti e non. Un terribile isolamento: i solidali sono considerati e raccontati dai media come i “pericolosi no border” che creano disordini.
E’ stato ciò che più mi ha colpito durante il primo sopralluogo, nell’autunno del 2017, quando, davanti al cimitero, in Via Tenda, ho guardato per la prima volta quello che é stato l’ultimo campo informale, sgomberato senza alcuna alternativa nella primavera del 2018. Ne ho osservato il viavai di migranti, volontari e personale delle ONG, il fumo dei fuochi, le tende storte. Ed il confine era lì, perfettamente visibile eppure immateriale: migranti e solidali da un lato, il resto del mondo dall’altra parte della strada.
Ed é stato solo grazie alla grande organizzazione e collaborazione tra gli attori solidali presenti che ho potuto attraversare quel confine.
Le frontiere a Ventimiglia si attraversano costantemente, in un senso e nell’altro: si é sempre in transito emotivamente, tra i luoghi delle persone migranti, quelle che erano sotto al ponte, in stazione, all’info point gestito dal Progetto 20K; e la propria realtà, la casa, la famiglia, il lavoro. Questa é un’altra frontiera, un dispositivo che regola le nostre vite e le rende idonee a passare la frontiera dell’avere un luogo dove tentare di vivere liberi di determinarci, mentre tutti gli altri restano indietro, nei campi informali o in quelli gestiti da istituzioni, come quello della Croce Rossa a Roverino, una frazione di Ventimiglia. Oltrepassare questa frontiera può far maturare la consapevolezza del privilegio di essere nati da questa parte di mondo, di rappresentare, tramite le nostre vite, una frontiera. Decidere cosa fare di questo privilegio, una volta consapevoli, é un imperativo tanto personale quanto politico.
Nonostante la criminalizzazione e l’isolamento che la solidarietà ha e continua a subire, sul territorio non é mai mancata la presenza solidale. Essa é formata da svariati gruppi e singoli attori che hanno compreso l’importanza della collaborazione come principale forma di resistenza. Ci sono i gruppi più istituzionali come la Caritas e le organizzazioni religiose; quelli più strutturati come le varie ONG che negli anni hanno portato avanti numerosi progetti di supporto legale e medico; ed i gruppi auto-organizzati come il già citato Progetto 20K che si basa sulla costante collaborazione tra volontari e attivisti provenienti principalmente da Genova, Milano e Bergamo. Ci sono, inoltre, molti altri progetti di volontariato che, negli anni, hanno dato un supporto materiale ai migranti in transito ed hanno realizzato una costante attività di monitoraggio di ciò che accadeva su questa frontiera che tutti vorrebbero dimenticare.
Ed é infatti un’oblio mediatico ed istituzionale quello che ormai é calato su Ventimiglia.
L’ultimo campo informale, completamente autogestito, ha visto i migranti occupare lo spazio sotto al ponte autostradale, sulle rive del fiume Roja. Era una jungle violenta e in condizioni igieniche non sostenibili, con le persone migranti che si lavavano e bevevano l’acqua del fiume – una delle azioni repressive istituzionali é infatti stata la limitazione dell’accesso ad acqua e servizi igienici. Questo campo veniva preferito dai migranti al campo istituzionale della Croce Rossa, lontano dal centro, dalla vita, e da ogni possibile forma di relazione, in un contesto dove la vita era controllata dalla polizia. Poi il campo venne sgomberato dalle istituzioni. Adesso, chi passa da Ventimiglia per sconfinare verso nord non ha altre alternative che stare in strada, in stazione o nella boscaglia sulle rive del fiume: più lontano, più nascosti e consapevoli di non essere graditi, allo stesso tempo più vulnerabili ed in pericolo.
Dall’inizio dell’anno, infatti, la repressione, la tensione e la violenza nei confronti dei migranti ha continuato ad alzarsi, e da quando anche l’Infopoint del Progetto 20k ha dovuto chiudere, senza trovare un luogo alternativo, entrare in contatto con la presenza migrante é diventato sempre più difficile.
A ridosso della frontiera, un gruppo di solidali continua a resistere. Presidiano, osservano i movimenti della polizia, e danno un po’ di sollievo dalla fatica del viaggio, informazioni e assistenza a chi ne ha bisogno. Offrono la colazione a chi ha passato la notte nei container francesi e torna indietro affranto e respinto.
Un piccolo gesto di enorme importanza. Da quando infatti la presenza migrante é quasi completamente invisibile, la vita della cittadina di frontiera é tornata ad essere quella di una località di riviera, e se non ci fossero questi preziosi sistemi di osservazione e resistenza, nessun testimone potrebbe registrare la violenza delle forze dell’ordine francesi che continuano i respingimenti.
I numeri sono in forte aumento: tra le 20 e le 100 persone respinte in media al giorno. Spesso sono trattenute ben oltre 4 ore in container promiscui, incandescenti d’estate e freddissimi d’inverno. Queste persone sono riconsegnate come pacchi dalla gendarmeria francese alle forze dell’ordine italiane, con in mano un refus d’entrée ed un pò di speranza in meno.
Lo stesso trattamento “da pacchi” viene reiterato durante le deportazioni di alleggerimento della frontiera: sistema in base al quale, a cadenza settimanale, un numero variabile di migranti viene prelevato dai luoghi più frequentati di Ventimiglia. Queste persone vengono portate negli hotspot in sud Italia, dove sono nuovamente identificate e rilasciate. E’ questo un perverso gioco dell’oca che tiene i migranti in costante mobilità, nella condizione psicologica del reietto non voluto e, al tempo stesso, del soggetto a cui viene impedito di fuggire.
Questa marginalizzazione ed invisibilizzazione é un processo voluto, generato da quell’impianto di norme, azioni e narrative che rappresentano la frontiera, sia essa materiale o meno. E’ questo un sistema che permette la diffusione dei discorsi d’odio che vediamo attecchire in ogni contesto sociale. Odio contro persone che hanno la sola colpa di essere nate dalla parte “sbagliata” del mondo e che fuggono da guerre e carestie in gran parte causate dalla parte “giusta” del mondo; e ancora odio verso chi, seppur nato nella parte “giusta”, decide di schierarsi con gli oppressi.
Tutto questo succede nella piccola cittadina di Ventimiglia, alla civilissima frontiera fra Italia e Francia, sullo sfondo della riviera dei fiori, in un paesaggio di bellezza e sole, tra turisti e villeggianti, nell’Europa dei diritti umani che sotto la facciata di tolleranza e benessere nasconde un mostro di indifferenza, disumanità e razzismo.