Sui confini d’Europa #2 – La frontiera tra Bosnia e Croazia

Questo primo intervento della serie ‘Sui confini d’Europa’ è redatto da Lorena Fornasir, psicologa e attivista in sostegno alle persone migranti lungo la rotta balcanica. Il testo parla dei dispositivi confinari che sorvegliano la porta est dell’Unione; racconta le storie di tortura dalle ultime città bosniache di frontiera, Bihać e Velika Kladuša, verso l’Italia; lascia emergere, lungo un percorso fisico e psicologico in cui si moltiplicano le violenze commesse sotto le bandiere d’Europa, le voci di chi continua, inarrestabile, a sognare la libertà oltre confine.

La Redazione di Lavoro Culturale

 


 

Violenza e tortura ai confini d’Europa

Sono ottanta chilometri di confine quelli che marcano il territorio tra la Bosnia e la Croazia. Una mappa geografica che disegna anche una mappa psichica dove tra speranza, illusione, fallimento, prende forma il “game” ossia il tentativo di entrare in Europa: se lo vinci sei vivo, se lo perdi hai fallito oppure puoi anche morire.  In quei boschi, tra mine, droni, termorilevatori, cani addestrati, cacciatori d’uomini, si consumano tragedie che vestono la forma delle sevizie e della tortura. Trattati come prede, costretti a rischiare la vita, i loro corpi in balia delle acque e di una guerra che insiste contro la loro esistenza, molti migranti trovano anche la morte.

Melissa Favaron – Flickr

Il 31 marzo scorso, Oussama, 27 anni, di Algeri, è morto proprio così: alle 3 del mattino, a 20 km da  Otočac, nella località di Plitvička jezera che le coordinate registrano con i numeri  44.927919   15.455765, è precipitato in una buca di dolina mentre scappava dai guardiani dei confini. Nessun aiuto per lui ma solo derisione e prigionia per i compagni che si erano consegnati chiedendo aiuto per il loro amico. Sull’orlo di quella fossa i poliziotti sono andati a recuperare il corpo ormai senza vita solo dopo 11 ore.  Come Oussama, anche Ahmed e tanti altri sono spariti nel nulla delle loro esistenze prive di qualsiasi valore, “non degne di vita” e neppure di morte. Altri corpi non sono stati neppure riconosciuti o ritrovati, scomparsi senza più traccia alcuna.

I boschi e i boschi della Croazia in particolare, non sono affatto innocenti. Nascondono la ferocia dei confini. Il ritratto del militare arrampicato sulla cima dell’albero che scruta la boscaglia a caccia di migranti, sparge la velenosa idea che loro, sono meno umani di noi, bestie da cacciare. Non a caso i migranti ripetono sempre “I am human, I’m not an animal”

Gabriele Proglio – Uno dei varchi di accesso – verso Velika Kladuša – alla Croazia e all’UE (Progetto ‘Mobility of memory, Memory of mobility)

Tra tutti questi pericoli, per oltrepassare la Croazia e la Slovenia dai confini di Bihać e Velika Kladuša, è necessario percorrere a piedi altri cinquecento chilometri tra montagne vorticose e discese ripidissime. Ai piedi calzari ridicoli che lessano i plantari rendendoli simili a bianche dune e  spellano la pelle con vesciche che sembrano bocche di vulcano. Sulla riva opposta del fiume o in fondo alla valle o nel grembo oscuro della notte, tra rumori sconosciuti di orsi o lupi, tra vipere e scorpioni, quando ormai la salvezza appare vicina, si palesa il guardiano d’Europa. Lo accompagna il mastino che assale lui, il migrante dal corpo inerme, lo morde, lo stritola tra le sue fauci finché tra le risa del “padrone” viene strattonato via dalla sua preda umana. È solo l’inizio.  Spesso portati in una delle tante stazioni di polizia – la più citata è un “garage” a Korenica –  vengono rinchiusi per 24 o 36 ore senza cibo né acqua, razzolanti tra i loro escrementi, donne, bambini, ragazzi, uomini.

Luca Prestia – dal progetto ‘Beyond the border. Segni di passaggi attraverso i confini d’Europa’, iniziato nel 2017 – e ancora in corso – da Federico Faloppa e Luca Prestia, diventato una mostra fotografica e un volume.

Dei video girati di nascosto, mostrano sagome di donne chiuse in tuniche nere che proteggono gli infanti nel loro grembo e tutt’intorno frammenti di feci e rigoli di  urina. “Eravamo con 8 bambini in viaggio che piangevano e urlavano – testimonia Hussein – Dopo aver camminato circa 8 giorni, 20 ore al giorno, superato 4 fiumi, sfiniti e con molte ferite, eravamo  arrivati a 5 km dall’Italia. La polizia di Slovenia ci ha catturati,  ci hanno messo le loro pistole in testa e hanno detto di mettere le mani dietro la nuca. Mi hanno colpito in faccia. Quindi la polizia della Slovenia ci ha portato con dei furgoni al confine con la Croazia e ci ha consegnati alla polizia della Croazia. Dopo ci hanno chiusi in una stanza molto piccola senza cibo e senza acqua con odore di putrefazione e le ferite sulle gambe. Siamo quasi morti soffocati  per il caldo e l’aria puzzolente.  Il giorno dopo eravamo così indeboliti che pensavamo di morire soffocati . Abbiamo battuto la porta per ore ma nessuno ha aperto la porta. Alle 3 del pomeriggio hanno aperto la porta, ci hanno picchiato, poi ci hanno messo nel box della macchina della polizia e dopo 3 ore di viaggio ci hanno lasciato a 20 km dal confine con la Bosnia. Abbiamo dovuto camminare per 7 ore per raggiungere il centro. Mentre stavamo camminando verso il confine la polizia croata ci ha seguito nelle terre bosniache, che è proibito”.

Ormai quasi tutte le testimonianze convergono sulle stesse procedure di maltrattamenti applicate ai migranti, piccoli o grandi, che vengono catturati soprattutto nei boschi della Croazia. Le tecniche di sevizia sono diventate nel tempo sempre più raffinate: dalla prigionia nei furgoni  anche per 18 ore, al sequestro delle persone in “posti” come il garage di Korenica, alla finta liberazione al grido “one by one” dove uno a uno i migranti catturati vengono fatti uscire e passare attraverso un corridoio di poliziotti che bastonano e spruzzano spray urticanti, al “viaggio” verso il confine con la Bosnia e la consegna dei migranti ad una squadra mascherata che perfeziona le violenze.

Luca Prestia – dal progetto ‘Beyond the border. Segni di passaggi attraverso i confini d’Europa’, iniziato nel 2017 – e ancora in corso – da Federico Faloppa e Luca Prestia, diventato una mostra fotografica e un volume.

L’episodio più emblematico che è un paradigma della disumanità e violenza dei confini, riguarda un giovane catturato nei boschi della Croazia. La sua storia è la storia di un respingimento sommario e di una violenza cresciuta insieme ai muri e al silenzio dall’Europa. A Trieste, dove era riuscito ad arrivare a piedi da Velika Kladuša,  viene fermato in treno senza biglietto e consegnato alla polizia Slovena. La Slovenia lo consegna alla Croazia che a sua volta lo rimanda all’inferno privandolo delle scarpe e costringendolo a ritornare indietro a piedi nudi tra la neve e il gelo. Le sue dita si congelano. Quando arriva al camp Bira di Bihać ormai sono nere, in necrosi. Era il 9 febbraio. Ridotto a “non persona” a un essere “non degno di vita”, sotto shock, si aggrappa all’unica scelta che lo difende dalla sofferenza:  nega la realtà e si consegna indirettamente alla morte rifiutando le cure. Sopravvive per mesi all’interno del container A3 del Bira camp subendo negligenze difficili da comprendere. Un giorno di aprile Alì viene gettato in una carriola. Quella immagine, quella foto di lui trattato come uno scarto umano, va al di là di ogni silenzio. Le scansioni del tempo che scorre indifferente nell’enorme contenitore umano del Bira camp si erano riversate sui confini del suo essere ma anche sui confini della nostra geografia umana e politica. Nel buco di quella carriola l’unione europea aveva perso ogni ragione e mostrato il suo volto necrofilo. Da quel giorno, Alì si trascina strisciando letteralmente il corpo sul pavimento del container di ferro. Giunto allo stremo lo incontriamo in un letto d’ospedale, mani e piedi legati alle sponde; due giorni dopo lo troviamo – stupito e attonito lui stesso – “depositato” nel viale dell’ospedale e restituito allo IOM; infine sparisce, ricompare a Sarajevo da dove, con le sue grucce rientra a Bihać. È ormai settembre. Alì, lascia il Bira camp e va verso i boschi forse in un tentativo di “game”, forse per ritrovare la sua dignità compiendo l’ultimo atto della sua fuga. L’incontro ultimo con il suo corpo è presso l’obitorio dell’ospedale di Bihać. La cella mortuaria, arrugginita, sporca e trascurata è più rabbrividente dei corpi che custodisce. Assieme ad Alì, sopra di lui, giace il corpo di un ragazzo ucciso pochi giorni prima nella discarica umana di Vucjak: due vite pietrificate nella morte che condensano il vortice di esclusione e morte provocato dai confini.

Emanuela Zampa – Campo di Bira – dalla mostra fotografica Corpi fuori posto, 2019 (Progetto ‘Mobility of memory, Memory of mobility).

Molti mesi prima, nel gelido 4 febbraio dell’inverno bosniaco, a Velika Kladuša un altro ragazzo, Abdelhamid Zebboudj, ospite del campo Miral, investito da un’automobile proprio davanti al campo gestito dallo IOM, era rimasto ad agonizzare per oltre un’ora a causa dell’indifferenza e per la mancanza di soccorso delle guardie di sicurezza. Quando finalmente la polizia, chiamata dagli amici, è arrivata sul posto e ha trasportato il ragazzo verso l’ospedale, Abdelhamid era già morto.

In tutta questa fase temporale l’Unione Europea, perseguendo la sua politica securitaria, ha stanziato 14.8 milioni alla Bosnia  Herzegovina di cui 1,8 sono destinati ai bisogni umanitari e 13 al controllo dei confini.  Frontiere che si fanno sempre più crudeli e mutuano tecniche scientifiche di tortura mirate a distruggere psicologicamente le proprie vittime. Il sentimento di vergogna che prova chi è stato torturato, fagocita lo spazio del suo intero campo psichico tanto da portarlo a negare la rabbia e nascondere il proprio stato o viverlo come un fallimento, un’impotenza, una perdita importante della stima di sé. In queste condizioni abbiamo trovato Ahmad il mercoledì pomeriggio del 25 settembre, all’altezza del confine tra Sturlic, in Bosnia, e la Croazia.

Gabriele Proglio – Cartelli, lungo il game, che indicano la presenza di mine del conflitto degli anni Novanta (Progetto ‘Mobility of memory, Memory of mobility).

Era al suo ennesimo fallimento. Agli inizi di settembre la polizia croata lo aveva già catturato assieme ad altri dieci migranti. “Quattro poliziotti hanno punito le persone insieme, prima picchiandole,  poi radendo le gambe e friggendole con una verga di ferro bollente” si legge nella testimonianza riportata da H-alter il 24 settembre. Con il marchio feroce di quella bruciatura, la gamba scorticata e la ferita esposta a qualsiasi tipo di infezione, Ahmad aveva ritentato il “game” in un gesto dall’apparente senso suicidario. Ai bordi di quella strada punteggiata da decine e decine di migranti respinti in condizioni pietose, lui era l’unico senza scarpe. Questa volta non solo era stato picchiato e torturato nuovamente con il ferro rovente, ma i poliziotti croati lo avevano minacciato pesantemente di morte e lo avevano respinto togliendoli i calzari, bruciandogli lo zaino, rompendogli il cellulare e derubandolo delle poche monete. Ahmad è stato soccorso, riportato al Bira camp di Bihać e curato ma la coazione a ripetere e forse la spinta suicidaria l’ha portato, un po’ come Alì, a ritornare di nuovo in “game”. Martedì 8 ottobre, il volto in lacrime di Ahmad, nuovamente catturato, respinto, torturato ancora una volta con il ferro incandescente e minacciato di morte, mortifica qualsiasi commento. L’attentato alla fiducia in sé e nel genere umano, perseguito come tecnica scientifica di distruzione della persona, fa da corollario alla tortura fisica e psichica che i dispositivi di controllo della polizia croata neppure più nascondo ma ormai esibiscono – sicuri della loro impunità – attraverso i corpi marchiati a fuoco respinti in Bosnia a monito dell’inviolabilità dei confini d’Europa.

In questa terra di nessuno che abitano senza poter proseguire e senza poter tornare indietro, i migranti diventano facile preda di quel buco nero della carriola in cui era stato depositato Alì.  Ma il vento non si può fermare. “Non abbiamo scelta” dicono sempre e ripartono verso il futuro  che lì, in quella terra di Bosnia, non hanno. Riemergono nelle brune mattutine dei boschi, nei sentieri che discendono i clivi verso il mare, nella Trieste sdegnosa e indifferente, figure simili ai fantasmi del nostro inconscio. I loro corpi di dolore, i loro stracci, la loro fatica e sudore, mostrano la nostra nudità. Resi sub umani, privi di valore,  rappresentano esattamente il rimosso che ci abita come la parte più oscura a cui abbiamo consegnato la nostra terra.

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