Sui confini d’Europa #12

Viaggio lungo le frontiere, fisiche e immaginate, della Serbia.

Il murales è dipinto sulla parete di una scuola, una parete color ocra, che sembra assorbire il tramonto nel villaggio di Srpska Crnja, regione della Vojvodina, un luogo che è allo stesso tempo Serbia e frontiera, impigliata tra i confini con Ungheria e Romania, persa tra campi che sembrano non finire mai. Il volto riprodotto è quello di Georgije “Đura” Jakšić, pittore, poeta, narratore, drammaturgo, insegnante e bohémien. E’ l’orgoglio di Srpska Crnja, il suo cittadino più celebre. Accanto al volto, c’è scritto un suo verso: “Questa è la patria dei Serbi”.

Christian Elia – Il murales di Srpska Cranjia

I confini della Serbia sono una proiezione. Più una citazione come quella del vecchio Đura tenta di ancorarli a un luogo, tanto essi si smaterializzano, diventano il racconto collettivo di un’idea, che si è fatta tradizione. Il canto corale di una comunità immaginata.

Lo stesso Đura, nato sotto l’impero asburgico, studia prima a Timisoara, oggi Romania, poi a Szeged, oggi Ungheria. I suoi studi saranno interrotti dai moti del 1848; da buon nazionalista non è più tempo di Vienna, ma di tornare a Belgrado, a dipingere nel suo atelier in città.

Eppure attorno alla citazione di Đura ruota un mondo intero, quella del rapporto della Serbia con i suoi confini.

Quello con la Romania, al momento, è un confine di transito. Una lunga coda di tir aspetta di entrare nell’Unione Europea, dal valico di Jimbolia. Un bar-ristorante, una giovane coppia che si occupa degli avventori. Un piccolo negozio dove, dalla Romania, vengono a comprare sigarette e alcool. Una vecchia sala ricevimenti che racconta di tempi più felici di questi. Intorno chilometri e chilometri di campi, qualche albero. Questo è uno dei passaggi della BalkanRoute, quella strada materiale e immateriale allo stesso tempo. Quella strada che si srotola nel tempo e nello spazio, che si muove, costantemente, per adattarsi alle nuove regole del gioco. Il ‘game’, appunto, come i migranti chiamano quel loro andare, senza sosta, senza pietà dei loro corpi. Spietati nel consumare fino in fondo la loro risorsa, come lo è il mondo che anelano verso le sue di risorse. Loro hanno il corpo, lo utilizzano, senza un domani. Questo passaggio, dopo che l’Ungheria ha recintato la sua frontiera con la Serbia, ha visto aumentare notevolmente il flusso. Che resta risibile, perché la Serbia non è mai stata e non sarà mai un obiettivo. E’ un posto di transito, lungo la rotta, che cambia in continuazione. E quei confini, permeabili ieri come oggi, raccontano altre storie di migrazioni.

Nella cittadina di Srpska Crnja, vicino al municipio, c’è una targa. Saluta “i fratelli arrivati qui nel 1971”, in memoria di quel processi di ‘kolonizacija’ che caratterizzò la Jugoslavia, il laboratorio politico del vaccino ai confini, ma che allo stesso tempo blindava i confini con l’Albania e gli altri stati della regione, ostili verso l’eretico maresciallo Tito. Vennero mandati qui, quasi tutti serbi di Bosnia, ai confini, a sostituire i germanofoni deportati dopo la fine della Seconda guerra mondiale e da uno degli innumerevoli spostamenti di popolazione che hanno sempre raccontato di confini immaginati. Ne occuparono le case, sostituirono fisicamente una storia di identità fluida con un’altra.

Lungo il confine con la Romania sono tanti i punti dove migliaia di vite in fuga dall’Afghanistan, dalla Siria e da mille altri luoghi cercano una strada. Anche dove il confine è di acqua. Più a sud, nella zona di Smederevo, altri ancora cercano di passare, tra pullmini, auto, furgoni e – anche qui – a nuoto. E’ la zona delle Porte di ferro, una gola profonda, dove il Danubio si incunea maestoso. E’ il passaggio, fisico e mistico, tra i Carpazi e i Balcani. Porțile de Fier, in rumeno, Đerdapska klisura in serbo, in ungherese Vaskapu-szoros, in tedesco Eisernes Tor, in turco Demirkapı. Perché a volte, anche un nome solo sarebbe un confine. E come può appartenere solo a qualcuno, un confine? Qui c’è la Tabula Traiana, un’iscrizione latina dedicata all’imperatore Traiano, incisa su una parete rocciosa a strapiombo sulle Porte di Ferro. Insieme ad altre vestigia d’epoca, come la strada romana e i resti del Ponte di Traiano, è nel parco nazionale di Đerdap, nei pressi di Kladovo, in Serbia.

I Romani in marcia verso la Dacia lasciarono un segno, per segnare un confine e allo stesso tempo per ricordare a tutti che i confini si muovono, respirano, cambiano lingua e pelle, vengono attraversati nei due sensi, a seconda dei capricci della storia.

Christian Elia – Zona di confine tra Serbia e Ungheria

Più a nord, dove la Vojvodina è quella terra di confine tra Ungheria e Serbia, dove tanti ragazzi di passaporto serbo, in casa, parlano ungherese, il governo ungherese ha inviato rinforzi militari e di polizia. Anche un’unità armata di un cannone navale, sul fiume Tibisco, per tenerli fuori. Come in un grottesco film della Guerra Fredda. Alcuni migranti hanno cercato di raggiungere l’Ungheria con un gommone, qualcuno si è rovesciato nel fiume, ma non ci sono lapidi o pietre d’inciampo lungo la BalkanRoute. Si vive, e si muore, senza nome.  L’Ungheria ha costruito una recinzione di filo spinato lungo il confine con la Serbia. Un muro, uno dei muri sulla rotta dell’Europa Orientale. Uno di quei muri che – proprio nel trentesimo anniversario dell’abbattimento del muro di Berlino – ricorda a ciascuno di noi quanto un muro, un confine, non deve avere per forza un’anima di cemento armato. È stato eretto dopo la crisi del 2015, quando oltre un milione di migranti – molti dei quali rifugiati provenienti dalle zone di conflitto in Medio Oriente – hanno raggiunto l’Europa centrale.

Molti migranti, ancora oggi, si radunano all’interno del confine nella città serba di Subotica, dove un pastore protestante della minoranza ungherese serba li aiuta a stare al caldo. Un’identità senza confini ne riconosce subito un’altra. Si chiama Tibor Varga, costruisce stufe per i migranti da vecchie botti nel suo giardino. Cittadino serbo di lingua ungherese, protestante in una terra che cerca nella religione cristiano-ortodossa un altro dei suoi confini, che più tentano di fissare, più si muovono. Dal confine con l’Ungheria e la Romania, negli anni della Jugoslavia, a nuoto, in tanti tentavano di passare per raggiungere un paese dal quale si poteva andare in tutto il mondo. Perché la ex-Jugoslavia, smembrata dai nazionalismi, era la porta girevole tra due mondi. Il paese che non c’è più, era il passaporto più ambito, ma oggi è esploso in mille confini, mille passaporti. Quasi tutti inutili.

Il confine per eccellenza, in Serbia, resta quello che non c’è. Il Kosovo, che nel suo cuore tiene quella piana dei merli dove il principe serbo Lazar perse la vita assieme ai suoi commilitoni nel tentativo di fermare l’avanzata ottomana. Quei monasteri, Decani su tutti, che sono il confine dell’idea di appartenenza, finiti in un altrove che oggi è un racconto di tavole rotonde e ferite di guerra, propagande, le une contro le altre armate di vuote parole, mentre chi ha meno di trenta anni, a Pristina come a Belgrado, si lamenta delle stesse cose. Un confine irrisolto, un confine che i migranti passano più agevolmente di tutti gli altri, perché le mafie serbe e albanesi non conoscono confini. Una corsa in auto fino al confine ungherese costava 300 euro a persona. Adesso siamo a più del doppio. Si paga in anticipo. Perché se arrivano morti, lungo la rotta che non ha lapidi, le casse dei passeur non ci rimettono. I contrabbandieri transfrontalieri di Kosovo e Serbia hanno da tempo elaborato percorsi alternativi al confine serbo-ungherese, quello sbarrato. Le direttrici sono due. La prima prevede l’attraversamento della Serbia, l’ingresso in Romania e successivamente l’entrata in Ungheria dalla frontiera orientale. Questa però è meno praticabile anche a causa di alcuni passi montuosi. L’altra rotta si dirige invece verso la Croazia, via Serbia, rientrando in Ungheria o proseguendo in direzione Austria o Slovacchia. E più muri ci sono, più il viaggio è pericolo, più si arricchiscono le mafie. Ma nessuno si ferma per sempre, è solo questione di tempo, è solo questione di soldi. Il confine più duro della rotta è quello tra Croazia e Bosnia-Erzeogovina, quello delle violenza disumane sui migranti, con i croati tutti concentrati nel loro ruolo di zelanti sbirri dell’Ue. I confini della Serbia, quelli del popolo dei confini proiettati, sono invece più permeabili.

Christian Elia – Migranti in un parco di Belgrado

Dopo i fatti del confine greco – turco, il presidente serbo Aleksandar Vučić, il 3 marzo scorso, ha ordinato la chiusura dei confini del paese in caso di “minaccia alla sicurezza nazionale” da una nuova ondata di migranti e rifugiati. Per la prima volta Vučić si è guadagnato una reprimenda dell’Ue, che lo ha invitato a non usare toni così apocalittici. Proprio lui, che nel 1995 dichiarò in parlamento a Belgrado che “per ogni serbo ucciso dovevano morire cento musulmani” nei giorni di Srebrenica. Lui che è stato ministro dell’Informazione di Milosevic nei giorni roventi del Kosovo nel 1998 – 1999. Il delfino del criminale di guerra Seselj, che poi ha cambiato abito e modi, diventando moderato, europeista. Vučić è stato sempre ben accetto a Bruxelles. Quando si sono recati in visita in Serbia, i dirigenti europei, non hanno mai accennato alla libertà di stampa e a una serie di confini che i cittadini serbi hanno nella loro comunità. Quella quotidiana, non quella immaginata. E i confini, chiusi, non sono stati mai. Basta andare a Belgrado, a Savamala, nei pressi del fiume Sava. Qui i confini sono evidenti. Quelli che vengono violati ogni giorno, quelli tra il pubblico e il privato, che nel mondo di Vučić sono svaniti. La speculazione edilizia, con il mega progetto di WaterFront, le cui sagome si stagliano proprio alle spalle dei profili silenziosi dei migranti che affollano il parco. Un parco dove, dall’inizio dell’anno, hanno fatto la comparsa i gruppi di estrema destra. Per consegnare a terrorizzati ragazzi afgani e siriani un invito a svanire. E il confine tra il governo e l’estrema destra è labile, volatile, tra distanze e scabrosi abbracci, quando c’è da menare le mani contro un esponente della fragile e frammentata opposizione, o contro i rappresentanti dei movimenti civili che si sono opposti alla privatizzazione selvaggia di pezzi del paese.

Quelli della democrazia sono gli unici confini in pericolo, in Serbia. E lo sono ancora di più, come nella tradizione dei confini immaginati, perché nessuno lo urla come un Orban o un Salvini qualunque. Il partito-stato di Vučić, che controlla quasi tutti i media, che controlla 166 comuni su 170 nel paese, non strepita. Governa, tacitando il dissenso, violando ogni giorno il confine tra affari privati e interesse pubblico. Il confine più duro è quello che sentono sulla pelle i giovani serbi, preparati e ambiziosi come tanti, che si scontrano con una società che non offre sbocchi, soffoca, e se ti va bene ti paga 500 euro al mese. E lascia nell’emigrazione, nel confine da passare, con i documenti invece che senza, l’unica fuga. Oggi il confine che si stringe attorno ai serbi è quello di un futuro che racconta di una fuga di coloro che si sentono soffocati, in un paese che, come tutta la regione, vive un tracollo demografico. Siamo noi il confine che decidiamo di essere e di saltare.

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