Sui confini d’Europa #11

Nel cimitero dei barconi di Lampedusa: il sublime come metodo

Negli ultimi due anni, ogni volta che sono atterrato a Lampedusa – per una ricerca etnografica in corso e che verte sulla gestione medica e sanitaria delle frontiere europee – la prima cosa che ho fatto, appena lasciato il bagaglio in camera, è stata puntualmente andare al cosiddetto cimitero dei barconi, dove vengono ammassate le imbarcazioni dei migranti che tentano la traversata del Mediterraneo. La prima e immediata tappa era sempre quella, come fosse un parente permaloso da andare a salutare senza perdere tempo. Ma perché? Una volta può capitare, certo, ma alla seconda e terza volta che lo fai, e che lo fai senza averlo deciso prima, è spia di una volontà involontaria, o dell’esistenza di qualcosa che spinge a farlo. Ma cosa?

Ho una risposta imbarazzante: la constatazione che ciò che provavo in quel luogo, insieme alla cupa tristezza di quei relitti e l’angoscia per l’incerto destino di chi li aveva utilizzati, era un certo senso di bellezza. E la constatazione che fossero sensazioni profondamente e problematicamente inestricabili. E, nell’ansia di dare un volto a quell’imbarazzante garbuglio emotivo, il codice che il mio immaginario mi offriva per dare un nome a quel molteplice sentire era quello del “sublime” dei Romantici.

Certo, il dubbio immediatamente successivo era se quella del sublime fosse una chiave d’interpretazione di quei sentimenti o se ne fosse piuttosto la fonte. Ma, al di là di questo interrogativo in stile uovo e gallina, certo è che quei miei pensieri mi mettevano a disagio. Quel senso di sublime era imbarazzante a più livelli: ammiccava pericolosamente a una certa “romanticizzazione” della questione migratoria, risultava in uno spostamento solipsistico dell’attenzione di un ricercatore che si stava occupando di soggetti reali in situazione di precarietà reale, contribuiva involontariamente a un certo approccio quasi turistico-accademico – se non voyeuristico – alla ricerca su questi temi, e così via.

L’unico rimedio a quel disagio era chiedermi incessantemente: come trasformare tutto quel senso di sublime in strumento di ricerca sui confini e in un vero e proprio principio euristico? Come far sì che quei sentimenti provati di fronte a una delle tante piccole schegge della questione migratoria e della gestione delle frontiere, come quel cimitero, si trasformassero in una forma d’indagine sui loro stessi contenuti contemporanei?

Sono oltretutto interrogativi che, posti da una zona di confine come Lampedusa, assumono una densità che, pur nella loro dimensione ingannevolmente metaforica (o forse proprio in ragione di quella), mostrano una forma e un’urgenza specifiche. Metafora per metafora, vale allora la pena concedersi d’immaginare – rimuginando sulla suggestione di Francesco Zucconi in Displacing Caravaggio – che il protagonista del quadro di Caspar Friedrich Monaco in riva al mare (1808-1810) stia osservando quel mare assorto non solo nei pensieri cari ai Romantici, ma tenendo a mente che si tratta anche di un confine politico. Ad angosciarlo e insieme affascinarlo sarebbero allora non solo la sua sconfinatezza e la sua ingovernabilità di elemento naturale, ma anche come vettore di migrazione.

Fosse comuni di barconi

A Lampedusa, di depositi di barche utilizzate dai migranti ce sono più di uno. Il cimitero dei barconi dove andavo con regolarità si trova vicino alla punta occidentale dell’isola. Ci si arriva percorrendo la Strada di Ponente e dopo aver superato un paio di cancelli in teoria invalicabili, perché lì si trovano dei radar militari. Ma sono aperti e a controllare non c’è nessuno, e tutto invita a farsi coraggio e a passare.

Si tratta di un luogo dove vengono portate le barche confiscate dopo i salvataggi in mare, gli sbarchi autonomi o i naufragi. Su ognuna c’è scritta, con una bomboletta spray, la data del salvataggio e altri numeri per riconoscerla. Sono di tutte le dimensioni, la maggior parte di colore azzurro. Su alcune ci sono delle scritte in arabo sulle fiancate, verosimilmente il nome. Intorno si vedono sparsi giubbotti di salvataggio abbandonati, t-shirt scolorite, ciabatte scompagnate, taniche di benzina vuote. La vegetazione vi s’infila per far propri quei relitti. Qua e là, insetti e i loro nidi. Ci andavo per lo più verso il tramonto, quando la luce che si poggia sull’isola accresceva la dimensione problematicamente suggestiva di quel luogo, dove si sente solo il rumore del vento e, al massimo, quello del vicino radar che gira su stesso. Lì, si è circondati dal mare in tutte le direzioni tranne una, quella della strada da cui si è arrivati.

In Comune si parla della costituzione di una sorta di parco della memoria composto da tutti quei barconi, ma al momento non pare un progetto in vista di concretizzazione. Ma, a suo modo, un parco della memoria lo è già: un memoriale per tutti coloro che, visitandolo o vedendolo da lontano, lo vogliano intendere tale, volontariamente o meno.

I relitti di navi, le tempeste in mare e i naufragi furono fra i temi prediletti dei pittori romantici, ma anche di poeti e filosofi dello stesso periodo. Fu un chiodo fisso almeno la seconda metà del Settecento e praticamente tutto l’Ottocento. Sono anni in cui il sublime, scrive Esperanza Guillén in Naufragi. Immagini romantiche della disperazione, «si assocerà all’estetica come nuova disciplina incaricata di indagare le reazioni sensibili ed emozionali che gli oggetti e i fenomeni, artistici o naturali, provocano nell’individuo». L’obiettivo di quelle scelte di pittori e poeti era rappresentare elegiacamente i sentimenti dell’uomo di fronte, in particolare, agli eventi naturali più estremi e alle loro conseguenze sulle vite umane, quali i naufragi durante le tempeste. Kant identifica nel sentimento del sublime sia l’impotenza dell’individuo rispetto alla realtà ostile sia una dinamica di godimento estetico, in combinazione con un sentimento di superiorità morale. È, in fondo, un tentativo di prendere la misura del caos che regola le nostre vite e il cosmo tutto.

Ma, a camminare lì nel cimitero dei barconi, l’esaltazione dei naufragi da parte di certi Romantici appare persino osceno, un insulto non controbilanciato dal chiedersi – con preoccupazione o pietà nel migliore dei casi, con curiosità morbosa o esaltazione nel peggiore – quale fosse stato il destino delle persone che li hanno usati per attraversare il mare. Del resto, il sublime è tale quando è a distanza: quel sentimento ci è ispirato solo da situazioni che non ci mettono in pericolo. Se invece fossimo in pericolo, a prenderne il posto sarebbe il sentimento di terrore, che tiene lontano ogni possibile vagheggiamento emotivo e godimento estetico. Scrive Hans Blumenberg in Naufragio con spettatore (il cui primo capitolo s’intitola, significativamente e beffardamente, La navigazione come violazione dei confini): «Lo spettatore sta al sicuro sulla salda riva perché è capace di questa distanza, sopravvive grazie a una delle sue qualità inutili: poter essere spettatore».

Il tentativo di trasformare quei sentimenti e quei pensieri in strumenti di ricerca – e di traslarli da categoria estetica a categoria scientifica – al servizio di una comprensione più approfondita di un fenomeno così complesso come quello delle migrazioni nel mondo contemporaneo può sfociare, mi sembra, in due possibili approcci: il primo mira ad approfittarne per aprire una nuova pista d’intellegibilità, mentre il secondo si vuole un paradossale promemoria di carattere etico e politico.

Il sublime come pista d’intellegibilità

Il primo approccio risulta, più che un accorgimento metodologico, in un contributo alla costruzione dell’oggetto di ricerca di turno, sempre che le due cose siano separabili.

Il senso di sublime suggerisce sgomento di fronte allo sconfinato e all’ingovernabile: questo il dato di partenza. Quali sono le conseguenze di tale duplice idea di sconfinato e ingovernabile quando quel sentimento riguarda l’ambito delle migrazioni?

Se, per i Romantici, il senso di sublime era innescato dal confronto con il potere sovrastante della natura, nel caso del cimitero dei barconi di Lampedusa quella forza incommensurabile era di ordine umano, troppo umano: le migrazioni e le conseguenze della loro gestione. Lo sgomento che un pittore romantico provava di fronte a una tempesta e al naufragio che ha provocato, lo si può provare di fronte a tutte quelle forze che per alcuni rendono il fenomeno migratorio così potenzialmente sfuggente e angosciante. Da questo presupposto deriva una possibile conseguenza: la depoliticizzazione del tema delle migrazioni (una depoliticizzazione che, peraltro, potrebbe inversamente essere essa stessa la spinta dietro quei pensieri in termini di sublime). Se è di sconfinato e ingovernabile che si sta parlando, in questa prospettiva il rischio è quello di collocarsi e collocare gli altri in un oltre-politico in cui a dominare è l’impotenza di alcuni – quelli che non vorrebbero lasciare la presa di una possibile gestione che non perda di vista i diritti di base, pur con tutte le precauzioni del caso – e lo strapotere di altri: coloro che, di fronte allo sconfinato e all’ingovernabile, non vedono altro rimedio che sostenere politiche di barricamento e costruire la figura del migrante come un Altro deumanizzabile e, in sostanza, per lo più odiabile e respingibile.

Dagli elementi universali dell’immaginario condiviso del sublime arriva allora un suggerimento di costruzione dell’oggetto di ricerca: interessarsi a quei sentimenti di sconfinato e ingovernabile e indagare i modi in cui gli individui coinvolti a vario titolo nella ricerca etnografica di turno elaborino quella stessa idea di sconfinatezza e d’ingovernabilità e la distillino nell’orizzonte che soggiace e dà senso alle loro convinzioni, ai loro modi di agire, alle sembianze della loro angoscia, rabbia, pietà. Si tratta dunque di cogliere la riflessione indotta dal cimitero dei barconi di Lampedusa non certo per attribuire nessun senso del sublime alle persone con cui interagisco nel campo, ma per intravedere e aprirsi una nuova pista d’intelligibilità: oggettivare, rendere osservabile e osservare lo spazio critico, emotivo e politico che si apre agli individui di fronte alle idee di sconfinatezza e ingovernabilità del fenomeno migratorio, e analizzare le credenze e le pratiche che derivano da quegli orizzonti di senso individuali.

Il sublime come bussola inaffidabile

In molti quadri romantici, la catastrofe arriva proprio vicino alla riva, quando i naviganti pensano di essere ormai salvi. Del resto, la riva è il luogo dove gli elementi paiono in contrasto fra loro: terra (le spiagge, le scogliere), l’aria (il cielo, il vento, le nuvole) e l’acqua (il mare, la pioggia delle tempeste). Ma un conto è fare questa considerazione di fronte a un quadro in un museo, e un altro è farlo lì al cimitero dei barconi, ovvero a solo qualche centinaio di metri dal punto in cui, per esempio, il 3 ottobre 2013 almeno 368 persone sono morte in un naufragio a pochissime centinaia di metri dalla riva.

I naufragi raffigurati e decantati dai Romantici sono episodi che per eccellenza ricordano il carattere transitorio e caduco delle cose del mondo, ma anche la nostra appartenenza a un tutto che ci supera, qualcosa più grande di noi: il sublime racchiude in sé l’idea d’illimitatezza. È forse questa la principale fonte d’angoscia rispetto ai movimenti migratori contemporanei. E si tratta di un’angoscia che può cogliere anche il ricercatore o la ricercatrice che si occupa di confini, orientando il suo approccio conoscitivo in direzioni talvolta ambigue. Serve allora un’operazione concettuale personale di tipo controintuitivo: ciò che tutto ci spinge a pensare sconfinato e ingovernabile, spesso non lo è. È invece osservabile, misurabile, analizzabile, razionalizzabile. La possibile dimensione politicamente paralizzante di quello “sconfinato migratorio” non deve diventare paralizzante anche sul piano analitico.

Rischio metaforico e rischio reale

Quando parla della battaglia di Jena del 1806 fra l’esercito di Napoleone e quello prussiano, Goethe giustifica e difende il ruolo dello spettatore sfiorato ma non investito dalla tragedia: come ci suggerisce di nuovo Blumenberg, rivendica il diritto del singolo a tener separata la propria storia personale dalla Storia del mondo. Ma allora viene in mente anche l’obiezione di José Ortega y Gasset: «Mostrateci un Goethe naufrago e perduto nella propria esistenza, che in nessun momento sa cosa sarà di lui».

In questo senso, quei barconi stanno lì a simboleggiare qualcosa? Forse, per alcuni, il senso di colpa di noi spettatori occidentali di fronte alle disuguaglianze che spingono le persone a migrare e a correre quei pericoli. La fragilità umana allora non si manifesta più di fronte agli elementi naturali, ma di fronte ad altri umani, i responsabili di quel pericolo. Ma quei barconi sono prima di tutto i precari sostegni materiali su cui delle persone hanno rischiato – o perso – la vita per cercare un futuro migliore.

Ma viene da chiedersi se affidarsi a quella suggestione e chiamare quei sentimenti “sublime” escluda qualcosa. Se, da una parte, la metafora del sublime dà un impulso alla riflessione sull’uso di quei sentimenti, dall’altra, c’è il rischio che limiti o metta in secondo piano alcune altre piste d’intelligibilità, altre immaginazioni antropologiche. In questo senso, il rapporto su cui riflettere incessantemente è quello fra rischio metaforico e rischio reale. E il primo può divenire parte di uno sforzo di comprensione e correzione del secondo.

In questo sforzo di ricorso al sublime come una sorta di promemoria al contrario, vale la pena ricordarsi che, se preso esclusivamente come oggetto del pensiero, un barcone è una metafora fatta di metafore, e le metafore non sono solo operazioni di catalizzazione di astrazioni né semplice cristallizzazioni di un concetto: sono piuttosto modi di colmare alcune lacune e sfasature della nostra comprensione e di dare senso alla realtà, alle relazioni, al dicibile e all’indicibile, con una smisurata potenza di orientare il nostro pensare e il nostro agire. Un serbatoio di metafore come quello rappresentato dal cimitero dei barconi di Lampedusa acquista legittimità etica ed efficacia euristica solo nel momento in cui diventa un richiamo al possibile. È allora il caso di tenere bene a mente, come un monito severo e gioioso insieme, questo verso del poeta palestinese Mahmoud Darwish: «Mentre liberi te stesso attraverso la metafora, pensa agli altri».

 

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