Sui confini d’Europa #10

Nella terra di mezzo

Ali Sheikh – Uno sguardo dall’interno

Scrivere sui confini del Libano è un esercizio che richiede l’adozione di una lente d’analisi accurata e attenta: nel corso del tempo questi sono stati infatti spesso reclamati, modificati, occupati e militarizzati fino a quando, prevedibilmente, non sono stati sbarrati mettendo in luce la violenza intrinseca alle pratiche di frontiera. E come è successo anche a molti stati nordafricani, il Libano ha finito per rappresentare molto bene le procedure ad esse collegate, trasformandosi da paese di transito di mobilità (forzate) a terra di mezzo senza via d’uscita, serrato da nord a sud da frontiere in fiamme e da uno dei mari più pericolosi d’Europa. D’altronde, come ricorda Shahram Khosravi, la frontiera non agisce mai in maniera unidirezionale: se da un lato i suoi dispositivi impongono l’immobilità, dall’altro obbligano i soggetti ad una costante mobilità forzata (Khosravi 2019). Eppure, in questo contesto, i confini fisici e i dispositivi materiali rappresentano solo una minima parte di un più complesso sistema fatto di spazi che sfidano – o riproducono – l’ordine pubblico e di intrecci di soggettività subalterne spesso ignorate dai discorsi contemporanei.

Ali Sheikh – Un venditore siriano di Kaaket Jbneh durante una protesta antigovernativa a Beirut. Dal 17 Ottobre 2019, migliaia di libanesi sono scesi in piazza per chiedere la caduta del governo attuale e del sistema confessionale – elemento fondante della politica libanese – nonché la fine della corruzione e della privatizzazione selvaggia.

Quali viaggiatori?

Quando si parla di Libano, l’argomento predominante è, senza dubbio, quello relativo alla crisi dei rifugiati siriani, diventato un contenitore in cui inserire e uniformare persone con status socioeconomici, storie personali ed esperienze migratorie anche molto diverse tra loro. L’omologazione della categoria di “rifugiato” – sul campo così come nel dibattito sulle migrazioni in Europa e nel mondo – porta spesso ad offuscare quella che è la peculiarità dell’esperienza materiale e corporea del migrante, privilegiando, al contrario, discussioni monolitiche e dicotomiche sulla vulnerabilità/empowerment dei soggetti (Carpi 2018) e contribuendo a plasmare una narrazione vittimistica e «profughizzante» che porta ad universalizzare il “migrante” in quanto “tipo specifico di persona” (Khosravi 2019), piuttosto che come individuo a sé stante. L’affermazione e la continua riproduzione di una descrizione di questo tipo in un contesto come quello libanese ha favorito, tra le altre cose, un processo di «etnicizzazione dei bisogni e dei servizi» (Carpi 2018) verso determinate categorie di persone residenti in quelle aree del paese considerate più vulnerabili e bisognose. Il paradosso è che queste prestazioni sono offerte principalmente dagli stessi paesi che hanno lavorato congiuntamente per favorire lo sviluppo di uno dei più grandi esodi della storia contemporanea. Eppure, il Libano è stato rifugio o meta lavorativa, nel corso degli anni, di diversi viaggiatori illegali e non, quali sudanesi (oggi circa 6000), iracheni (oggi circa 40.000), palestinesi (oggi circa 400.000) e migranti economici (oggi circa 250.000) che vengono spesso dimenticati, invisibilizzati e marginalizzati sia a livello di dibattito pubblico che – più concretamente – a livello spaziale.

Ali Sheikh – Nabaa, periferia di Bourj Hammoud, rappresenta una delle aree più variegate di Beirut per la presenza di diverse comunità provenienti da Siria, Bangladesh, Sudan ed Etiopia. Come quasi tutte le zone periferiche della città, Nabaa è stata a lungo ignorata dalle politiche locali di sviluppo che hanno contribuito alla sua marginalizzazione a livello urbano e sociale. Nella foto, alcuni residenti di Nabaa in un momento di svago.

Quali confini?

Se prendiamo in considerazione il confine fisico e territoriale – simbolo primordiale del sistema Stato-nazione a sua volta fondato sul nesso funzionale tra un luogo e un ordine determinato, identificati rispettivamente nel “territorio” e nello “Stato” (Agamben 2000) – possiamo facilmente operare una bipartizione tra due frontiere: quella che separa il Libano dai Territori palestinesi occupati e quella che lo separa dalla Siria. Il confine meridionale, meglio conosciuto come Linea Blu, è stato determinato dalle Nazioni Unite dopo la ritirata dell’esercito israeliano nel 2000 e, come spesso accade quando si impongono dei confini artificiali, ha di fatto tagliato a metà delle aree abitate creando delle zone ancora contese tra Libano e Israele. Una delle più note è quella delle Fattorie di Shebaa, una porzione di territorio vicino alle alture del Golan, anch’esse occupate da Israele dal 1967. Nonostante il governo libanese ne reclami la proprietà, le Fattorie sono state decretate dalle Nazioni Unite territorio siriano alimentando una controversia territoriale tra i tre paesi lungi dall’essere risolta. Dopo la guerra del 2006, il confine stabilito dall’organizzazione intergovernativa è stato ulteriormente marcato e rinforzato dal governo israeliano attraverso la costruzione di un muro di cemento, molto simile a quelli eretti nella West Bank, che si estende attualmente per 11 chilometri (contro i 130 previsti dal progetto iniziale e la cui realizzazione è tutt’ora in fase di valutazione).

Il confine con la Siria è stato da sempre caratterizzato da una particolare porosità, peculiarità che ha permesso il suo attraversamento, negli anni, a centinaia di lavoratori stagionali siriani e palestinesi che spesso hanno trovato nel paese dei cedri maggiori possibilità e opportunità lavorative, soprattutto nel settore edilizio. Per qualche anno anche dopo l’inizio della guerra i due governi hanno continuato a permetterne il transito fino a quando, nel 2015, l’aggravarsi del conflitto e il copioso afflusso di rifugiati non hanno convinto il governo libanese – che aveva delegato dall’inizio la gestione della crisi siriana all’UNHCR, agenzia specializzata nella gestione dei rifugiati in contesti emergenziali – a blindare qualsiasi accesso al territorio nazionale, decisione che ha ulteriormente aggravato la situazione dei moltissimi esiliati.  

Ali Sheikh – Un’officina meccanica a Nabaa – Borj Hammoud.

In quanto paese non firmatario della Convenzione di Ginevra del 1951 – o Convenzione sullo statuto dei rifugiati –, il Libano concedeva prima del 2015 solo un permesso legale della durata di sei mesi, rinnovabile, affidando di fatto l’intera gestione delle procedure di accoglienza (abitative, sanitarie, legali ecc.) all’Alto Commissariato delle Nazioni Unite. Il documento di residenza temporaneo è stato poi rettificato dal 2015 in avanti, dando inizio al moltiplicarsi degli attraversamenti illegali, notoriamente caratterizzati da violenze, violazioni e discriminazioni legate a genere, razza e classe. L’UNHCR lavora in Libano dall’inizio del conflitto siriano attraverso un negoziato bilaterale con lo Stato libanese concorrendo – insieme alle centinaia di organizzazioni non governative presenti sul territorio – alla produzione di un umanitarismo routinizzato, in cui il senso di urgenza sembra essere ormai istituzionalizzato, accettato e normalizzato (Carpi, 2018). Come spiega Estella Carpi nella sua etnografia sul Libano, la normalizzazione dell’aiuto umanitario avviene, come in questo caso, quando l’assistenza nel lungo raggio diventa normalità, perdendo così l’eccezionalità e la temporaneità tipiche degli stati di emergenza (Carpi 2018).

Ali Sheikh – Un venditore ambulante di caffè tra le vie di Nabaa – Borj Hammoud.

Il confine nel confine

Ma i confini in Libano non sono solo linee di demarcazione territoriale istituzionalizzate nel tempo tramite accordi transnazionali. In misura forse maggiore, si ritrovano nello spazio pubblico e privato attraverso frontiere che mirano ad operare una netta separazione e distinzione con l’Altro, considerato come minaccia politica e simbolica della struttura sociale dello Stato-nazione poiché trasgressore del legame tra «natività» e nazionalità, tra uomo e cittadino (Agamben 1995; Khosravi 2019).

I dodici campi palestinesi disseminati su tutto il territorio sono una delle rappresentazioni più manifeste di come il confine non si limiti a tracciare la sovranità territoriale di uno Stato, ma sia in grado di inoltrarsi all’interno dei suoi spazi urbani, tessendo tele discriminatorie ed escludenti spesso volutamente naturalizzate. Questi agglomerati urbani si trovano in prossimità – se non all’interno – delle principali città libanesi, di cui ne condividono – essenzialmente – la struttura urbana differenziandosi dagli altri quartieri per essere, tuttavia, solo degli spazi e non dei luoghi poiché «posti al di fuori dal mondo ordinario e prevedibile» (Khosravi, 2019: 127).  

In ordine, da nord a sud troviamo: Beddawi e Nahr el-Bared (Tripoli), Wavel (Valle della Beqaa), Dbayeh, Chatila, Mar Elias e Burj el-Barajneh (Beirut), Ein el-Helweh e Mieh Mieh (Sidone), Burj el-Shemali, El Buss e Rashidieh (Tiro). Nati quasi tutti tra il 1948 e il 1949 con l’arrivo di centinaia di migliaia di esuli palestinesi cacciati dalle proprie terre dopo il riconoscimento dello Stato di Israele da parte della comunità internazionale (esodo conosciuto sotto il nome di Nakba o catastrofe), i campi palestinesi sono stati spesso al centro di eventi violenti che hanno caratterizzato la storia contemporanea libanese; dal massacro di Sabra e Chatila – compiuto dal partito delle Falangi Libanesi insieme all’Esercito del Libano del Sud con la complicità dell’Esercito Israeliano e l’indifferenza del governo autoctono – alla Guerra dei Campi del 1984-1990, fino ad arrivare a conflitti più recenti come quello tra il gruppo islamista Fatah al-Islam e l’Esercito Libanese, scoppiato nell’area di Nahr el-Bared tra maggio e settembre 2007. Negli ultimi anni, i campi palestinesi hanno ospitato centinaia di migliaia di rifugiati siriani, ma raramente hanno beneficiato di aiuti umanitari specifici (a parte quelli ordinari erogati dall’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi, UNRWA) volti a gestire il sovraffollamento di queste aree urbane e il conseguente aggravarsi delle condizioni abitative dei suoi residenti. Al contrario, il confinamento di questa parte di popolazione “indesiderata” e “anomala” – poiché incontrollabile e non incasellabile negli schemi nazionali – ne ha ulteriormente provocato la marginalizzazione e invisibilizzazione, tratti distintivi di un processo che Khosravi definisce di “profughizzazione” (Khosravi 2019: 128). I deboli tentativi di integrare a pieno titolo questi spazi all’interno del tessuto urbano cittadino – come accaduto, ad esempio, con Bourj Hammoud a Beirut, quartiere nato inizialmente come campo profughi negli anni Venti per ospitare migliaia di rifugiati armeni in fuga dalla Turchia – si sono spesso scontrati con i confini istituzionali e mentali di un paese che ha preferito nascondersi dietro l’ideologia del diritto al ritorno piuttosto che scardinare alcune pratiche di esclusione volontaria di soggetti non normati.

I campi che ospitano i migranti siriani sono subordinati alle stesse forme di esclusione ed emarginazione dei “quartieri palestinesi” ma portano con sé un elemento di rottura – l’informalità – che rende forse più palese la loro funzione stigmatizzante nei confronti di alcuni gruppi e identità “indesiderate”, poiché non integrabili nell’ordinamento dello Stato-nazione in quanto trasgressori delle sue norme (Khosravi 2019). Come già menzionato, dall’inizio della guerra in Siria il governo libanese ha delegato a terzi (UNHCR, ONG internazionali e così via) la gestione dell’emergenza rifugiati in Libano, disinteressandosi nella forma più totale rispetto alle modalità attraverso le quali essa si sarebbe sviluppata: adducendo scuse contro la creazione di campi autorizzati quali il diritto al ritorno nel paese d’origine, il problema della marginalizzazione e invisibilizzazione (!), nonché questioni di violenza pregressa nei campi palestinesi, l’esecutivo del paese dei cedri ne ha così rifiutato l’istituzionalizzazione (Carpi 2018), contrariamente a ciò che era avvenuto nel 1948-49.

Tuttavia, se prendiamo in esame il campo in quanto «forma più avanzata di un sistema globale che stigmatizza come indesiderabili alcuni gruppi e alcune identità» (Khosravi 2019: 127) producendo lui stesso il soggetto-profugo attraverso l’implementazione di una «burocrazia patologizzante» (Ibid.), quello del Libano è solo uno dei tanti esempi che possiamo considerare nella storia contemporanea degli esodi forzati per quel che riguarda l’implementazione e la riproduzione di un meta-confine all’interno di uno stesso territorio.

Ali Sheikh – Il villaggio di Marj e il campo di Jarrahieh – Valle della Beqaa

Confini invisibili

La terza e ultima pratica d’esclusione spaziale che mi preme evidenziare riguarda un confine molto difficile da identificare e gestire poiché impercettibile nel suo modo di agire sui corpi delle donne migranti in Libano. Questa frontiera invisibile – o meglio invisibilizzata, naturalizzata – porta con sé due dimensioni distinte: una strutturale e una materiale. La prima è intrinseca alla (mancata) gestione della migrazione economica femminile (e non) in Libano, fenomeno controllato dal sistema della kafalasecondo il quale i lavoratori e le lavoratrici migranti possono entrare nel paese solo in possesso di uno sponsorship che ne autorizzi l’ingresso e che si faccia carico – a livello abitativo, economico e sanitario – della sua presenza sul territorio nazionale. La maggior parte delle volte, “lo sponsorizzatore” diventa lo stesso proprietario dell’immobile in cui le donne migranti finiscono a lavorare come domestiche, e all’interno del quale subiscono abusi e violenze incontrollate.

La seconda dimensione è rintracciabile, invece, nelle modalità attraverso le quali le donne migranti vengono confinate nelle case delle famiglie libanesi: l’architettura residenziale locale ha pensato, infatti, a come integrare nello spazio privato domestico degli ambienti ad hoc per queste donne lavoratrici. Si tratta di minuscole stanze – spesso concepite al centro dell’abitazione (per operare un controllo a vista) o vicino alla cucina – che vengono esaltate senza vergogna nelle planimetrie delle agenzie immobiliari sotto la dicitura di “the maid room” o “stanza della domestica” e parzialmente ricercate da quelle famiglie terrorizzate nel veder deteriorarsi il loro status sociale agli occhi del vicinato poiché costrette a farsi carico in prima persona dei propri affari domestici.

In un contesto simile, centinaia di migliaia di donne provenienti principalmente da Etiopia, Filippine, Sri-Lanka e Bangladesh vengono quotidianamente plasmate da uno sguardo coloniale (o, come lo chiama Khosravi, «sguardo di confine») che impedisce loro di sviluppare un senso di avvicinamento o appartenenza al contesto locale e che riproduce, invece, categorie razziali e di genere (Khosravi 2019: 135 ss.). Ed è proprio tale sguardo che autorizza e giustifica, in alcuni casi, la violenza sessuale su questi “soggetti scomodi” come metodo di riproduzione di rapporti sociali gerarchici e perpetuazione di un meccanismo di controllo ormai consolidato quando si parla di confini, materiali o immateriali che siano.

Ali Sheikh – Momenti di evasione dalla quotidianità del campo: donne e bambini partecipano alla proiezione di un film

Nota conclusiva

La scelta di mettere in luce queste tre modalità attraverso le quali il “confine” si manifesta nel contesto libanese diventando, così, potenziale oggetto di studio scaturiscono da un insieme di esperienze personali, lavorative e passioni individuali vissute in modo collettivo e non hanno alcuna pretesa di esaustività sull’argomento. Lungi dal voler imporre e reiterare, attraverso queste riflessioni, l’esistenza di un confine “a tutti i costi e in qualunque contesto”, ciò che mi preme di più è invece portarlo in superficie per cercare di capirne essenza e funzionamento e contribuire, ancora di più e in maniera sempre più efficace, a quelle pratiche collettive di solidarietà che ne prevedano la decostruzione, il superamento, il rovesciamento e, infine, la totale distruzione.

Riferimenti bibliografici

Agamben Giorgio (1995), We refugees, «Symposium», 49(2): 114-119.

Agamben Giorgio (2000), Means without end. Notes on politics, University of Minnesota Press, Minneapolis [ed. it. Mezzi senza fine. Note sulla politica, Bollati Boringhieri, Torino, 1996].

Carpi Estella (2018), Specchi scomodi: etnografia delle migrazioni forzate nel Libano contemporaneo, Mimesis Edizioni, Milano.

Khosravi Shahram (2019), Io sono confine, Edizioni Elèuthera, Milano.

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