di Silvia Jop
Due giorni fa mi è capitata sotto gli occhi la pagina facebook di Fùtbologia e subito dopo il link al sito (bellissimo peraltro) che, con un certo senso di partecipazione ed emozione, mi sono messa a “sfogliare”. Una tre giorni bolognese per ripensare il calcio, a ottobre. Il sito ruota mentre ti trasporta tra le maglie di un appuntamento che oltre a fare gola (o che fa goal?) convince: visto e considerato che “il livello del discorso sul calcio in Italia è molto basso. E il sistema del business globale del calcio è nella merda fin sopra i capelli.” si è deciso di dar luogo a “un convegno su un altro calcio. Da una prospettiva storica, comparatista e contemporanea”. Non fa una piega, mi son detta. Poi però sono tornata indietro e l’ho ripercorso. E ripercorrendo, assieme alla ritrovata qualità, ho raccolto anche una serie di perplessità. In tempo reale, ho aperto la mia casella di posta e ho cominciato a scrivere a due amici, colleghi, compagni di viaggio, che lavorano attivamente alla realizzazione di questo festival autunnale, per sottoporgliele. Dopo poco più di mezz’ora avevo tra le mani una matassa di riflessioni incastonate in un canovaccio molto personale, autobiografico. Glie l’ho inviato. Entrambi mi hanno suggerito di pubblicare la lettera ma per una sorta di timidezza e di diffidenza verso articoli in cui il proprio io sconfina e divora gli argini, ho accantonato la possibilità di farlo.
All’indomani, Adrianaa e Eve Blisset hanno pubblicato due post sullo stesso appuntamento e stimolata dalle loro parole ho deciso di pubblicare le riflessioni che avevo sviluppato con alcune integrazioni.
Erano i tempi dell’asilo, mio padre rientrava a Venezia un fine settimana ogni due e il nostro appuntamento sacro era in calle, sotto casa, con un pallone tra i piedi. Eravamo io e lui oppure io, lui e altri bambini e bambine che abitavano lì vicino. In quel caso lui in porta e noi in due squadre. Ogni tanto, soprattutto durante l’estate, il nostro piccolo stadio si spostava e andavamo in campo S. Maria Formosa o in campo S. Agnese. S. Maria formosa era il campo in cui ero bambina io, era lo spazio in cui trovavo i miei compagni di asilo prima e delle elementari poi; S. Agnese invece era il campo in cui era stato bambino lui. Mi portava lì e mi raccontava, tenendomi per mano entrando nell’istituto in cui aveva fatto le scuole, di quando aveva imparato a giocare a calcio. Quando ci spostavamo nel cortile interno poi, mi indicava la stessa finestra e ridendo ricordava di tutte le volte in cui era andata in frantumi a forza di esser colpita dai rimbalzi. Sua mamma, ogni due mesi, veniva convocata dai preti per rispondere di tante finestre rotte da suo figlio che calciava il pallone troppo forte o quando non doveva. Finito il racconto, uscivamo in campo e ci mettevamo a giocare. E io mi arrabbiavo perché non mi faceva vincere mai. Mi impegnavo tantissimo, rincorrevo con i piedi quella palla più grande di me e gli istanti in cui riuscivo a controllarla erano istanti che ricordo ancora con gloria.
Poi le elementari e la ricreazione post pranzo. Non avendo un cortile a disposizione, il tempo di gioco finiva per spalmarsi lungo il corridoio su cui si affacciava la nostra classe. Quando invece c’era il sole potevamo scorrazzare nell’enorme terrazza (o per lo meno, a distanza di tanti anni così la ricordo…) che circondava un lato della scuola: quelle volte sembrava di stare a S.Siro. Prendevamo delle pagine di giornale, tante, le accartocciavamo in un unico mucchio e lo ricoprivamo di scotch da pacchi, quello marrone. Ne usciva una grossa noce di cocco, pronta a farsi palla per i nostri piedi. Ma prima di giocare, bisognava passare attraverso l’umiliantissimo momento del “fare le squadre”. Oltre a me c’erano anche altre bambine che volevano giocare. Ovviamente parliamo di un numero esiguo rispetto ai giocatori. Inutile dire che in ultima, come scarto implicito, restavamo noi bambine affianco ai due bambini più scarsi (come si può essere crudeli nella prima infanzia ognuno di noi lo sa…). A quel punto cominciava la gara vera: riuscire ad essere scelte almeno prima dei peggio giocatori maschi. Qualcuna di noi ce l’ha fatta ed è stata scelta prima degli ultimi ultimi, addirittura dopo i primi bravi bravi. E quelle sì che eran soddisfazioni… Il dazio da pagare, una volta superato il muro della selezione, era o che qualche bambino se ne approfittava per metterti le mani addosso oppure che venivi additata come maschiaccio a vita. Ma io continuavo a giocare perché giocare a pallone mi piaceva tantissimo.
Poi sono arrivate le scuole medie e assieme a qualche anno in più anche i primi bacetti, i primi fidanzatini. Lì tutto si è fatto chiaro: giocare a pallone non era cosa da “femmine”. Giocare a pallone era cosa da “maschi” e questa constatazione lampante andava accettata senza se e senza ma, altrimenti si sarebbe sicuramente persa l’attenzione del ragazzino per cui si era presa la sbandata di turno. Così, un po’ per volta, ho abbandonato completamente quella che fin dai primi anni era per me una vera passione, per dedicarmi a una passione altrettanto gioiosa ma evidentemente più escludente.
Poi è stato il tempo del liceo e con il liceo un po’ si cresce e un altro po’ si è ancora sufficientemente piccoli per potersi dedicare al gioco – spazio all’interno del quale, se hai a che fare con persone che cominciano ad essere sensate, ti consenti di vivere con più leggerezza. Restava comunque il simulacro del muro del pianto: la “selezione” per le squadre che manteneva i suoi aspetti di criticità anche se con meno dolore. Un po’ perché a suon di sentirti in un certo modo in certi contesti ci fai l’abitudine – per cui alla fine l’importante era giocare – un altro po’ perché effettivamente il livello del gioco si era alzato – i ragazzi avevano coltivato negli anni la passione con costanza, pratica, dedizione, e erano tutti tendenzialmente bravi – paradossalmente assieme al fatto che, essendo a un liceo classico (…), i bravi bravi erano in minoranza. Insomma, ogni tanto giocavo. Era una via di mezzo rispetto alla possibilità di poter condividere l’intero universo che si era sviluppato, per chi aveva 16, 17 anni, attorno al mondo del calcio, ma mi bastava. Vedere le partite, per un motivo o per un altro, non mi aveva mai innamorata. Giusto i mondiali o gli europei. Ma più per il senso di branco che si portavano appresso.
Ricordo con simpatia e un pizzico di amarezza i miei esami di maturità che si sono svolti nel corso dei mondiali di non ricordo quale anno (una decina di anni fa). Era un giorno caldo, torrido, di giugno. Usciti da scuola i ragazzi sarebbero andati tutti assieme nella stessa casa a vedere la partita dell’Italia rifiutandosi di dare ospitalità anche a noi. Così noi – ragazze – decidemmo di dirottarci verso un’altra casa, ferite nell’orgoglio ma certamente non meno fiere. E mentre facevamo il ponte per poi girare l’angolo siamo state raggiunte dalla voce di uno dei nostri amici che ha tuonato ridendo “ragazze!!! ricordatevi che dovete tifare per quelli con le maglie azzurre!!!!” (tuonò in dialetto ma riporto la raccomandazione, per semplicità, in italiano). A quel punto, mandandoli a quel paese, siamo scoppiate tutte a ridere e abbiamo proseguito per la nostra direzione. Rido tutt’ora ricordandolo. Ma resta ugualmente un’immagine che sintetizza, assieme a molte altre, il nocciolo di una questione tanto presente quanto rimossa: un giorno nell’ironia, un altro in un’alzata di spalle, un altro ancora in una minimizzazione, e via così.
Gli anni hanno continuato a trascorrere e la vita ha cominciato a farsi fitta fitta tanto che ho dimenticato il filo che mi legava a questa passione soffocata. Succede spesso che il crescere, portando con sé nuovi desideri, nuovi interessi, nuovi incontri, nuovi orizzonti, scavalchi, per questioni fisiologiche, desideri, interessi, orizzonti passati. In tanti anni di università mi è capitato di rigiocare qualche volta con gli amici di vita adulta. Senza più badare al peso conclamato di un qualche cosa che ti fa sentire fuori posto. È successo così raramente che il ’fuori-posto’ non ha nemmeno avuto il tempo di “porsi”. Se non una volta, dopo la quale non ho proprio più toccato pallone. Ci siamo ritrovati in un campetto: tutti ragazzi più due ragazze (una delle quali io). Fatte le squadre (nemmeno a ripetere la tiritera senza età della selezione… che poi te ne rendi conto che ormai, non avendo mai più giocato – per tutte le ragioni ormai ovvie – è evidente che non sei più una giocatrice ’appetibile’ ed è quindi pure legittimo che non vieni scelta ma vieni “accettata”) abbiamo cominciato a giocare. “Una femmina a squadra”, come a spartirsi un peso per l’andamento del gioco. E mentre rincorrevamo la palla ho sentito a più riprese come l’istinto, anche dei miei amici più cari, fosse completamente permeato, colonizzato, da questa cultura che nel calcio ha trovato la sua sintesi più compiuta. Anche se sotto porta, anche se in posizione favorevole, anche se smarcate, i passaggi propendevano sempre e perennemente verso il giocatore –maschio – più vicino. Indipendentemente dal fatto che magari rispetto a me o all’altra giocatrice si trovasse in un punto meno felice rispetto all’area avversaria. A fine primo tempo entrambe abbiamo sentito la necessità di fermarci e uscire dal gioco. La fonte di tristezza maggiore era realizzare che gli stessi uomini con cui parlavamo, pensavamo, ragionavamo da anni – i nostri compagni di pensiero e vita – condividevano istintivamente la stessa cultura maschilista che, tutti assieme, in un esercizio di confronto quotidiano e collettivo, pensavamo di superare. E invece no. Quindi, per non dover più fare i conti con questa triste constatazione – gli uomini che ami, gli uomini con cui ami pensare il mondo che vorresti, sono anch’essi marchiati a vita dalla cultura che vorremmo (e dicono di voler) superare –, ho lasciato scivolare il ricordo di questa piccola passione trascurata.
Inciampare in Fùtbologia, oggi ha fatto sì che mi ritrovassi a rispolverare questa storia tanto passata quando preziosa, nel bene e nel male. Perché se da un lato rivendica la qualità di un gioco tanto armonioso quanto intelligente, dall’altro lo fa riproponendone una narrazione monca, raccontata attraverso un unico sguardo. Il festival infatti si dedica alla riqualificazione del corpo di una passione fortemente condivisa ma a partire da alcuni punti dati per assodati: il calcio è uomo, è gioco per uomini, è passione maschile. Ad ora infatti (lo dico con la fiducia che nutro verso un progetto tanto prezioso, nonostante l’approccio critico che gli sto riservando) Fùtbologia, oltre ad essere uno straordinario appuntamento che si ripropone di restituire la dignità ad uno sport e alla cultura che vi si è sviluppata attorno, è un progetto che non esce dalla parola maschile, che prevede interventi di soli uomini, che presenta riferimenti bibliografici solo maschili e che si rifà ad un immaginario fortemente maschile. È dunque sintesi di una semantica complessiva che finisce per essere implicitamente escludente a meno che non se ne diventi partecipi maschilmente. Ahimè, fùtbologia dimostra dunque come nel linguaggio si nasconda la sostanza prima delle cose, palesando come il neutro universale sia in realtà diretta traduzione del finito maschile. Si fa quindi diretta espressione di quella cultura che costringe bambine di ogni generazione a dover abbandonare il pallone per non perdere il primo amore, oppure che le vincola alla “schiavitù dei giocattoli”, oppure ancora che le obbliga a “subire la segregazione” imposta dall’insegnante di ginnastica che si aspetta che giochino solo a pallavolo.
La stesura delle mie riflessioni e la lettura dei due contributi pubblicati da Adrianaaa e da Eve Blissett ha reso ai miei occhi la cosa ancora più chiara. Non è un caso infatti che tre donne su tre, stimolate da un progetto che nasce con il desiderio di restituire qualità a una passione tanto condivisa, si siano istintivamente esposte raccontando un pezzo di sé. Escluse dalla narrazione neutra che parla solo “uomo” – le slides del sito ne sono esempio compiuto –, le donne ripartono da sé rendendo la diversità e la particolarità della propria esperienza fonte di confronto e condivisione. Se nel frattempo sono venuta a sapere che una parte dell’equipe di organizzatori (e organizzatrici?) sta lavorando alla possibilità di sviluppare una sezione dei laboratori che si svolgeranno a Bologna sul rapporto tra femminismo e calcio, tra genere e sport, mi trovo ugualmente decisa a sollevare la questione. Credo infatti che la soluzione non possa esaurirsi in uno spazio confinato in cui discutere il rapporto tra le donne e il calcio. Perché va sradicato il dato per scontato che il calcio è uno sport maschile, che di tanto in tanto praticano anche alcune donne. Penso infatti che un evento di questa portata potrebbe, oltre che dovrebbe, essere in grado di farsi promotore di una risemantizzazione della narrazione complessiva e dell’universo calcistico. Se riqualificazione deve essere, che sia a partire dalla matrice: rimbalziamo assieme.