Strafatti di acidi e peperonata – “Morte dei marmi” di Fabio Genovesi

Ma lo sai che un ragazzo ha acceso il sigaro a un russo e si è beccato cento euro? Ma lo sai che una russa voleva andare al bar Principe e quello che gli ha detto dov’era si è beccato cento euro? Ma lo sai che una bimba russa ha comprato una bambola con un foglio da cinquecento euro, e per darle il resto hanno dovuto rincorrerla?

Un po’ di tempo fa il mio parrucchiere mi ha raccontato di una signora russa che, accompagnata nel suo salone da una cliente abituale, al momento di pagare era rimasta tanto soddisfatta dal suo lavoro da non chiedergli neppure il conto, e da lasciare mille euro sul bancone, così, in contanti, facendolo rimanere tanto sbigottito quanto felice. All’inizio non ci avevo creduto, a questo come a tanti suoi racconti (tipo quello di quando mise l’annuncio sul giornale proponendo acconciature a domicilio, per poi ritrovarsi in camere di attempate signore reggiane in desabillé. Ma non è questo il luogo adatto… un giorno magari ve le racconto tutte, queste storie fantastiche). Comunque: io non ci credevo, alla storia della russa, fin quando ho letto Morte dei marmi di Fabio Genovesi, Laterza, collana Contromano. Avevo già scritto qui di un altro libro di questa collana, ma si tratta di due testi completamente diversi (nonostante si cerchi, un po’ forzatamente, di trovarne un sostrato comune, qui).

Lo dico subito e senza giri di parole, questo libro andrebbe letto anche solo per una ragione: è esilarante. E lo dico pur non concependo la letteratura come intrattenimento (semmai come espiazione e pratica di esercizio spirituale, nonché di sublimazione etico-morale. Ma questo, in effetti, è un problema mio). Morte dei marmi si legge in un paio d’ore, e subito viene voglia di telefonare a cinque o sei persone per dir loro “Devo assolutamente prestarti un libro, ho appena finito di leggerlo, ti farà morire dal ridere”. Niente a che vedere con i Panariello o Pieraccioni che ci hanno propinato come emblema dello humour toscano: l’ironia che percorre il libro di Genovesi è tagliente, amara, perfettamente complementare allo spirito di questa terra. Una terra il cui tipico atteggiamento nei confronti dei turisti corrisponde al noto “Se venite ci fate un favore, se non venite ce ne fate due”, un misto tra bisogno e repulsione, e il cui elemento lessicale imprescindibile, e forse inconsapevole, è il “moccolo”, diverso dalla bestemmia per la sua gratuità candida, fine a se stessa, quasi fosse un semplice intercalare:

Una mattina per esempio giocavo a pallone nella strada con mio cugino Luca. A quell’epoca non era pericoloso, passavano così poche macchine che quasi ti scordavi di dove stavi, anche se il gioco era strano perché il campo era la strada e le porte erano due cancelli, quindi correvi su e giù lungo la via ma poi dovevi fare gol su un lato. E comunque, quella mattina era domenica, e a un certo punto il nonno di Luca, Athos, si affaccia alla finestra e urla Lucaaa!
Che c’è?
Ma dùve sei?
Sono a giocà a pallone
Ma quale pallone, èn le dièci, devi andà alla messa, Dio XXX!

Morte dei marmi, che come tutti i libri Contromano si muove sul confine tra saggistica e fiction – “Alcune (pochissime) delle cose che ho scritto qui me le sono inventate” dice Genovesi, “ma sono le più verosimili” – parla di una generazione e della sua degenerazione. La generazione è quella degli anni Sessanta, di Sapore di Sale, della scoperta del turismo dei vip in questa località dalla natura inospitale che si trova a dover affrontare l’enorme contraddizione di divenire capitale del turismo, e che pur di non aprirsi al confronto, di non avviare un rapporto, preferisce ridursi in schiavitù, piegandosi completamente alle esigenze dei Signori. Ma il peggio, all’epoca, doveva ancora venire, e la frase predetta dallo zio Aldo («Ma tanto un giorno arrivano i russi, e allora stai sicuro che da queste parti cambia tutto») alla fine si realizza. Non nel senso in cui voleva lui, però. Arrivano i Russi, e non hanno né colbacco né baffoni: sembrano piuttosto degli alieni, e non si limitano a farsi servire durante la stagione estiva, ma comprano forte dei Marmi. Comprano tutto, a cominciare dalle case di chi ci stava prima, e non per abitarci: per raderle al suolo e costruire al loro posto ville enormi e di pessimo gusto.

Costruite con un’idea architettonica identica a quella di un bambino se lo mandi a comprare un gelato con cento euro in mano: stai sicuro che quando il gelataio gli chiede che gusti vuole, il bimbo con la bava alla bocca urlerà Ci voglio tutto, TUTTO! Che tradotto nel mondo definitivo e inesorabile del mattone vuol dire colonne doriche, portici dal sapore greco, mosaici con tigri in combattimento sotto pergole cariche d’uva, piscine a forma di fegato con fontane che zampillano acqua e in qualche raro caso vodka (anche se a ciclo continuo, con la stessa vodka che gira e gira. E tutto intorno archi, volte, finestroni da chiesa affiancati a oblò similmarinari, grondaie con mostri e draghi in bronzo che orlano tetti da cui spunta volentieri una torretta aggiuntiva, utilissima nell’eventualità che dal mare riprendano le scorribande dei navigatori saraceni. Aborti in muratura, incubi perversi di progettisti strafatti di acidi e peperonata, mostri dipinti di bianco, o meglio color panna o crema chantilly. Gigantesche bomboniere, clamorose torte nuziali che nessuno vorrebbe a un matrimonio, ma che sono perfette per un funerale: quello del mio paese.

I russi comprano prestazioni, servizi, comprano la gente, alla quale non pare vera la possibilità di svendersi, e su di loro fioriscono aneddoti e leggende metropolitane esilaranti. Il Genovesi – narratore sembra un po’ un giovane Holden della Versilia, e attraverso il suo sguardo sapientemente ingenuo riesce a comporre un’accuratissima satira di costume che potrebbe, questa sì – forse proprio perché non ha la pretesa di esserlo, perché riesce ad essere tragicamente universale senza staccarsi per un istante da una purissima fenomenologia locale – diventare metafora di un’intera nazione e delle sue tragiche evoluzioni. Ci mostra lo smembrarsi del tessuto sociale di un paese che da luogo diventa meta, per il quale “gentrificazione” sarebbe un eufemismo e nel quale scompaiono persino i negozi di generi di prima necessità, per lasciare il posto alle boutique. Il tutto agevolato dall’arrendevolezza – astiosa, ma pur sempre di arrendevolezza si tratta – degli autoctoni. Eppure non si riesce a non provare una simpatia tutta umana per i fortemarmini, come la commessa che scambia il calciatore Gullit per un immigrato in cerca di un tozzo di pane gratis, o la gente inferocita che grida “zoccola” e “budello” a una ragazzina della contrada rivale durante una gara canora.

Il vero disagio, invece, lo si prova di fronte a quelli che gli abitanti stessi definiscono “il Casino”: l’orda di medio-ricchi, sedicenti ricchi o semplici poveracci che invade Forte dei Marmi la domenica soltanto per inseguire Belen e Fabrizio Corona (o chi per loro), per incontrare Flavio Briatore e comunicargli finalmente di persona la propria stima, o – male che vada – per fare il giro di telefonate di rito in cui ostentare una presenza sulla quale nessuno ha richiesto informazioni («Ciao, come stai? Io sono a Forte dei Marmi, grazie») e che sicuramente oggi sta lasciando il posto alla bulimia da “Mi trovo qui” dei post, delle foto e dei tag sui social network. Una deriva che l’autore non prende in esame: del resto, a seguire questa scia si andrebbe molto, troppo lontano, mentre lui è lì, a Forte dei Marmi, e li guarda, inerme.

Nelle ultime pagine del libro, inevitabile, spunta la “nostalgia canaglia” (sic!) e si attenua per forza di cose lo humour iniziale. Con qualche caduta di stile e qualche imperdonabile banalità, come quando viene citato Edoardo Nesi: «Questa cittadina che di fantasmi campa, rivendendoti ogni giorno a caro prezzo i tuoi stessi ricordi» (la vera domanda è: D’accordo, siete amici. Ma perché hai dovuto citarlo per forza? Non bastavano i ringraziamenti? L’altra domanda è perché per la quarta di copertina sia stata scelta una citazione così insignificante. Ma su questo, qualcosa mi dice che la colpa non sia da attribuirsi all’autore).

C’è però un senso di resistenza in questa nostalgia, in questa volontà di rimanere nonostante tutto: «… chi l’ha detto che nella vita dobbiamo stare tutti lì al centro? Io mi trovo bene un po’ scostato, possibilmente fuorimano, e più fuorimano della mia Versilia d’inverno ditemi voi cosa c’è». Quello che rimane, dopo la demolizione satirica e disincantata, è uno sguardo perdutamente innamorato della propria terra ormai trasfigurata, nonostante la sua degenerazione. Che poi, c’è vero amore se non quello capace di accettare la degenerazione?

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