“Tony Manero” di Pablo Larraín.
Lo scorso 11 settembre non ricorreva solo l’anniversario dell’attentato alle Twin Towers. L’11 settembre del 1973 è la data che segna la morte del Presidente Salvador Allende, l’ascesa al potere del generale Augusto Pinochet, l’avvento della dittatura cilena, l’inizio di uno sterminio di massa.
Il regista cileno Pablo Larraín è l’autore di una trilogia ambientata durante la dittatura che ha insanguinato il suo paese per circa vent’anni. Dopo Tony Manero (2008) e Post Mortem (2010) nel 2012, al festival di Cannes è stato presentato No.
Quello che segue è un breve saggio, già apparso sul numero 12 della rivista Fata Morgana. Quadrimestrale di cinema e visioni, incentrato sul primo film della trilogia di Larraín.
Santiago del Cile, sul finire degli anni settanta. In una sala cinematografica quasi deserta, Raúl Peralta (Alfredo Castro) è rapito dalle scorrere delle immagini di La febbre del sabato sera (J. Badham, 1977). Raul ripete gesti, movenze e battute di Tony Manero (John Travolta) mentre si esibisce sulla pista del 2001 Odyssey. Una serie di campi e controcampi alterna lo schermo al primo piano del volto ipnotizzato di Raúl.
Durante tutta la sequenza, la superficie delle inquadrature non è mai interamente saturata dalle immagini del film di Badham: quando Raúl entra in sala a film già incominciato, la cornice dello schermo è presa in un totale che ancora le immagini della Febbre del sabato sera al contesto della loro fruizione cinematografica. Dal film alla sua fruizione in sala, il processo di proiezione meccanica della pellicola si traduce visivamente in un’attività di immedesimazione dello spettatore. A ciò si aggiunge un ulteriore elemento: lo spettatore che guarda Raúl appassionarsi al cinema, non sta semplicemente vedendo un film, ma è chiamato ad occupare la posizione di uno spettatore di “secondo grado”. Una struttura ad incastro la cui tenuta sembra fondarsi su quello che Morin definisce l’elemento di coinvolgimento principale del cinema: il processo di proiezione e immedesimazione [1].
Attraverso il primo piano, il volto di Raúl diviene la superficie di iscrizione delle emozioni prodotte dal film. All’espressione completamente rapita dalle immagini segue la commozione quando, sullo schermo, Frank rivela a suo fratello Tony le ragioni che lo hanno condotto a perdere la fede e ad abbandonare il sacerdozio [2].
L’immedesimazione è totale e ad essa corrisponde un fenomeno di proiezione che travalica lo spazio della sala cinematografica ed entra in contatto con altri sistemi mediatici. Infatti, il film prende le mosse da un programma della televisione cilena in cui si esibiscono i sosia dei divi hollywoodiani. L’intreccio ha una struttura circolare e, nel finale, il protagonista, replica tra le altre di Tony Manero, si esibisce durante lo show televisivo ma ne esce sconfitto. Mentre gli altri personaggi prospettano una fuga dalla periferia cittadina, Raúl vive il suo sogno di evasione al cinema, inseguendo la scalata al successo dell’italo-americano Tony Manero nei sobborghi di Brooklyn.
L’intertestualità finora analizzata non riguarda soltanto un processo di storicizzazione che dona al testo-fonte una valorizzazione “mitica”. In questo senso, le citazioni e la ripresa di intere sequenze della Febbre del sabato sera non farebbero altro che confermarne lo statuto di cult movie, consolidando un fenomeno di mercato ormai datato e, di fatto, concomitante all’uscita del film nelle sale americane. Al contrario, se il film di Larraín cita un modello mercificato della cultura americana, si pone, al contempo, l’obiettivo di mostrarne le ricadute all’interno di un universo identitario e culturale alieno rispetto al contesto di partenza. Si istituisce così un dialogismo intertestuale in cui alla “cattura” di Raúl nella finzione di celluloide, corrisponde una proiezione distorta dell’immaginario cinematografico e mediale all’interno dei campi discorsivi che costituiscono il contesto storico del film [3].
Le modalità con cui si realizzano i fenomeni imitativi e traduttivi [4] tra Tony Manero e la Febbre del sabato sera, riguardano soprattutto la messa in scena dell’esperienza filmica di Raúl, fulcro diegetico e percettivo che fa da ponte di connessione tra i due film. Le facoltà cognitive ed emotive del protagonista del film di Larraín sono imprigionate all’interno di una visione spettatoriale. Detto in altri termini, il comportamento ottico-percettivo di Raúl riproduce all’interno della quotidianità i tratti principali della sua “postura” osservativa di fronte al film.
Le modalità di costruzione e di iscrizione dello sguardo all’interno del film si rendono problematiche nella misura in cui queste entrano in relazione con un soggetto scopico per il quale, a un eccesso di sollecitazioni percettive non corrisponde una compartecipazione alla realtà sensibile né una risposta passionale agli eventi. Goyo, ballerino del gruppo, è un attivista comunista che distribuisce volantini contro Pinochet e il suo governo militare, instauratosi dopo il colpo di stato del 1973. Raúl, al contrario, si limita ad osservare, da una posizione di invisibilità, gli eventi tragici connessi alle rappresaglie.
In una delle sequenze finali del film, due poliziotti in borghese entrano nel locale per arrestare Goyo e la giovane Pauli, entrambi accusati di attività sovversive. Raúl riesce a nascondersi in un ripostiglio, nello spazio compreso tra le scale che portano alle stanze della pensione e il salone dove ha luogo l’interrogatorio. La posizione del protagonista si costruisce come spazio di osservazione all’interno del quale si colloca anche la macchina da presa.
Il dramma dell’azione viene restituito attraverso una serie di semisoggettive, spesso sfocate, che inscrivono nella stessa inquadratura il soggetto della visione e il dramma dell’azione. Se Raúl riproduce la sua postura osservativa lo fa includendo se stesso nel campo percettivo: la semi-soggettiva implica la coabitazione di soggetto e oggetto dello sguardo [5]. Pur mantenendo una posizione di invisibilità nei confronti degli altri personaggi, Raúl penetra nel suo stesso campo osservativo, realizzando uno scarto rispetto alla visione cinematografica in cui si preserva una distinzione spaziale e percettiva tra la sala e lo schermo. Attraverso una presa in carico dei dispositivi responsabili della messa in discorso degli eventi traumatici, le posture dello sguardo fanno emergere le potenzialità testimoniali di cui le immagini si fanno portatrici [6].
Attestando la disfatta del soggetto di fronte alle pratiche repressive, lo sguardo di Raúl si costituisce come macchina percettiva in grado di riattivare la memoria storica non ancora consolidata né riconciliata con il passato dittatoriale. Allo spettatore del film di Larraín viene consegnato un esercizio di memoria che riguarda le modalità con cui il passato della dittatura cilena preme sul presente e, ancor di più, il modo con cui gli eventi del nostro tempo interrogano lo stato di eccezione in cui ha esercitato quell’apparato repressivo.
Note
[1] E. Morin, Il cinema o l’uomo immaginario. Saggio di antropologia sociologica, Feltrinelli, Milano 1982.
[2] Le caratteristiche dell’esperienza filmica di Raúl sono omologabili a quelle descritte da Francesco Casetti a proposito della spettatrice Nana. «Nana non solo si concentra sul film che sta vedendo: vi si immerge. Attraverso un esplicito gioco di identificazioni e proiezioni, la protagonista di Vivre sa vie si cala nella vicenda raccontata da Dreyer fino a sentirsene parte. La conseguenza è lo scattare della catarsi. Lo vediamo nella lacrima che le riga il volto alla didascalia “mort”: nel destino di Jeanne d’Arc Nana vede il proprio destino; piange per la Pulzella e insieme piange per sé», F. Casetti, Ritorno alla madrepatria. La sala cinematografica in un’epoca post-mediatica, in “Fata Morgana. Quadrimestrale di cinema e visioni”, n. 8, maggio-agosto 2009, p. 176. L’analisi di Casetti è incentrata sul gioco di rimandi e differenze tra le esperienze filmiche di tre spettatrici, protagoniste del cortometraggio di Atom Egoyan, Artaud Double Bill: Nana, che propone una visione e un’esperienza filmica “tradizionale”, Anne e Nicole che, al contrario, moltiplicano e decentrano la loro attenzione su una pluralità di media. Il cortometraggio di Egoyan è contenuto nel film a episodi Chacun son cinéma ou Ce petit coup au coeur quand la lumière s’éteint et que le film commence (2007).
[3] Sui fenomeni di intertestualità connessi alle pratiche di citazione cinematografica e al remake si vedano, tra i molti testi pubblicati, Remix-remake. Pratiche di replicabilità, a cura di N. Dusi, L. Spaziante, Meltemi, Roma 2006; L’immagine al plurale: serialità e ripetizione nel cinema e nella televisione, a cura di F. Casetti, Marsilio, Venezia 1984.
[4] Lotman utilizza il concetto di traduzione per analizzare i fenomeni che si verificano sui confini delle semiosfere – spazi semiotici complessi e organizzati all’interno dei quali si realizzano i processi di significazione – e tra i testi ad esse appartenenti. J. M. Lotman, 1985, La Semiosfera, Marsilio, Venezia 1985.
[5] Casetti individua nelle modalità di iscrizione dello sguardo all’interno del film, ottenute attraverso la semisoggettiva in Blow Up (M. Antonioni, 1966), uno degli elementi centrali per comprendere le forme di spettatorialità moderna. F. Casetti, L’occhio del Novecento. Cinema, esperienza, modernità, Bompiani, Milano 2005, pp. 248-256.
[6] Sulle capacità testimoniali del cinema, in quanto forma estetica capace di riattivare il lavoro della memoria e di riaprire l’esperienza dell’immagine anestetizzata dal sistema mediatico al circuito dello sguardo e dell’alterità, si vedano M. Dinoi, Lo sguardo e l’evento. I media, la memoria, il cinema, Le Lettere, Firenze 2008; P. Montani, Bioestetica. Senso comune, tecnica e arte nell’età della globalizzazione, Carocci, Roma 2007.