La solidarietà ai tempi delle migrazioni.
Specchi scomodi: etnografia delle migrazioni forzate nel Libano contemporaneo (edito da Mimesis) dell’antropologa sociale Estella Carpi crea uno spazio nuovo per guardare al fenomeno delle migrazioni forzate: uno spazio che non risponde alla xenofobia con il pietismo verso i migranti. Sullo sfondo del discorso pubblico europeo e mediorientale polarizzato tra la paura delle migrazioni e, nel campo opposto, il ritratto dei migranti come vittime impotenti da salvare, Carpi fa spazio al tema della solidarietà.
Solidarietà che nasce dal prendere atto che le migrazioni degli altri non fanno altro che creare degli specchi – scomodi, appunto – in cui possiamo vedere noi stessi, e il nostro reclamare diritti, non importa se siamo tra quelli che si muovono o tra quelli che restano: tutti vogliamo i diritti che ci spettano. Gli specchi scomodi vengono presentati, in Libano, da quattro donne che sono state obbligate da diverse circostanze a migrare o a ricevere assistenza umanitaria, e che rappresentano quattro processi storici della regione: Souhà, cittadina libanese residente nella periferia meridionale di Beirut, attaccata nel 2006 dai bombardamenti israeliani; Iman, palestinese e quindi ancora beneficiaria del supporto dell’UNRWA, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi; ‘Alia, rifugiata irachena; e infine Amal, rifugiata siriana che si è stabilita nell’Akkar, la regione più a nord del Libano, a malapena raggiunta dai principali servizi statali e dagli aiuti internazionali prima della crisi siriana.
Le loro storie illuminano gli effetti delle politiche di assistenza umanitaria sulle vite delle persone che ne beneficiano o ne sono escluse: quando chi è costretto a migrare ottiene aiuti umanitari in un contesto di limitazione dei diritti, spesso deve diventare dipendente da chi offre questi aiuti. Un esempio emblematico dell’inclusione/esclusione è quello delle cosiddette “comunità ospitanti” (dei migranti), che sono entrate nello spazio umanitario relativamente di recente, a seguito della constatazione che escludere queste comunità dall’assistenza umanitaria mentre venivano inclusi i nuovi residenti delle stesse aree creava dei forti problemi di diseguaglianza. Proprio per la dipendenza che crea, l’assistenza umanitaria da sola non è sostenibile nel lungo periodo: Specchi scomodi mostra come l’organizzazione di questo tipo di assistenza tenda per natura a dimenticare precedenti “beneficiari” (come si dice nel gergo del settore) quando nuove crisi spostano l’attenzione. E di crisi ne sono scoppiate, in Libano, negli ultimi decenni: solo per citarne alcune, i bombardamenti israeliani, la mancata integrazione socio-economica dei rifugiati palestinesi, l’arrivo di Iracheni e Sudanesi in fuga dai propri Paesi, e infine la guerra in Siria.
Carpi chiama la tendenza del settore umanitario a dimenticare i precedenti beneficiari a favore dei nuovi, senza che ai vecchi beneficiari siano ancora garantiti i diritti socio-economici che permetterebbero loro di supportarsi nel costo della vita, “etnicizzazione dell’aiuto”. L’etnicizzazione dell’aiuto si intromette nelle dinamiche di coesistenza tra comunità che rischiano già tensioni a causa della competizione per risorse scarse. Questa competizione viene accentuata a causa dell’appartenenza o meno a gruppi che, in un determinato momento storico, vengono supportati da aiuti internazionali – o nazionali. L’analisi di Carpi, infatti, tocca anche le dinamiche di assistenza libanesi, e in particolare di Hezbollah, mostrando come la contestazione dei criteri di inclusione in ed esclusione da particolari interventi di assistenza sia una costante di ogni tipo di assistenza emergenziale, laddove non esiste un equo accesso ai servizi. Quando diciamo che in Libano sono scoppiate delle crisi, però, cosa intendiamo? Prima ancora dell’appartenenza o meno a un gruppo incluso negli aiuti nazionali o internazionali, i criteri di inclusione ed esclusione sono altamente influenzati dalla definizione di “crisi”, che rende visibili certi gruppi all’assistenza umanitaria, nascondendone altri solo perché non rientrano nella definizione. Così, il quartiere beirutino di Hay al-Gharbe, escluso dai piani di rinnovo dopo i bombardamenti israeliani poiché non definito “in crisi”, continua a condurre un’esistenza invisibile agli attori nazionali e internazionali, ma in disastrose condizioni di salute e povertà cronica. Intanto, quartieri circostanti beneficiano della ricostruzione urbana e gli abitanti del vicino campo di Shatila, poiché palestinesi, possono ricevere il supporto socio-economico dell’UNRWA. Rania, amica dell’autrice, esprime chiaramente come la definizione di crisi, su cui l’assistenza che ne consegue si basa, sia una definizione esterna applicata a persone che spesso hanno idee differenti su quali avvenimenti o fenomeni abbiano causato delle crisi nelle loro esistenze: «Le ONG che offrivano servizi sanitari nella guerra del 2006 trattavano le nostre paure psicologiche e i nostri disturbi quotidiani come se fosse semplicemente una bomba che facesse la differenza nella vita miserabile che conducevano nel Sud del Libano fino al 2000» lamenta Rania, sottolineando come la miseria non era considerata una crisi, ma le bombe sì. Allo stesso modo, la situazione in Akkar viene considerata una crisi – quindi idonea a finanziamenti internazionali per ridurre la povertà – a causa delle migrazioni forzate dei Siriani, mentre precedentemente la regione non era ritenuta bisognosa di assistenza internazionale nonostante la difficile situazione economica degli stessi residenti libanesi.
Quando si tratta di migrazioni forzate, le crisi che gli attori umanitari definiscono tali hanno tre modi per essere risolte secondo UNHCR, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati: l’integrazione locale, il trasferimento in un Paese terzo o il rimpatrio volontario. Su questo tema, la conclusione del libro fa un passo oltre: le soluzioni si devono trovare per i problemi politici che portano alle migrazioni forzate, e per la restrizione dei diritti nei Paesi d’arrivo delle persone che sono obbligate a spostarsi, ma non per il movimento in sé: il movimento di persone non è necessariamente un problema. La violazione dei diritti sia di chi si muove che di chi sta fermo lo è – e questo è un tema universale, in cui tutte le società si rispecchiano. Sta a noi decidere se la scomodità dello specchiarsi diventi xenofobia perché non vogliamo vedere, o solidarietà con altre storie umane.
Questo è dunque un libro sul Libano, ma che va oltre al Libano: il forte invito dell’autrice è quello alla solidarietà informata in ogni luogo e situazione: l’ascolto delle storie – qualsiasi esse siano – e, tramite queste, lo sviluppo di un occhio critico verso l’industria umanitaria, dovunque essa sia. Questo invito si riflette nel libro: il lettore viene, infatti, a contatto con i grandi avvenimenti storici tramite quattro storie personali di cui, prima di tutto, risaltano l’emotività, le opinioni e la complessità di ciascuna. Piano piano, poi, queste storie mettono in luce le discrepanze tra i bisogni dei singoli e l’organizzazione degli aiuti umanitari, incoraggiando i lettori a guardare al micro tramite gli effetti che il macro – il settore umanitario – ha sulle singole vite. La solidarietà informata, però, non riguarda solo il modo in cui ascoltiamo l’altro, ma anche la consapevolezza della nostra posizione all’interno di dinamiche politiche, economiche e sociali: in Specchi scomodi, il chiaro coinvolgimento personale dell’autrice e l’esplicita analisi della sua posizione politica e dei suoi rapporti con le quattro interlocutrici mostra come il lavoro di auto-consapevolezza sia necessario per comprendere le motivazioni dell’altro anche al di fuori della ricerca sociale. L’esempio del Libano è quindi un caso di studio di grande rilevanza anche per una riflessione sul contesto italiano: su cosa sia considerata una crisi, da chi, in relazione a quali movimenti di persone. E su come venga organizzata l’assistenza umanitaria nel contesto di migrazioni forzate, a favore dell’espansione dei diritti dei singoli o a favore di altre logiche emergenziali ma protratte nel tempo che poco hanno a che fare con politiche volte a espandere le possibilità di miglioramento delle condizioni di vita.