Esplorazione indisciplinata tra Senerchia e Conza. Pubblichiamo una riflessione di Spazi@Rendere, un laboratorio di pratiche di spazio nato dai figli della ricostruzione irpina.
Non bisogna sottovalutare la nostra capacità di provare desideri complessi.
Nostalgia per i materiali della civiltà messi al bando,
per la forza bruta di vecchie industrie e vecchi conflitti
(D. DeLillo, Underworld, 1999, p. 303)
Craco, Romagnano, Roscigno, Conza, Apice, Aquilonia…
Prendete un paese del Sud italiano, svuotatelo di tutti i suoi abitanti,
guardate come diventa bello, guardate come diventa vivo.
(F. Arminio, Terracarne. Viaggio nei paesi invisibili e nei paesi giganti del Sud Italia, 2011, p. 133)
Spazi@Rendere è un blog e una pagina Facebook dedicato all’urban exploration, la scoperta e l’esplorazione di parti sconosciute dell’ambiente “urbano”, con un focus sui luoghi abbandonati o “dimenticati”. L’esperienza nasce per offrire spunti all’immaginazione geografica individuale e collettiva di estendersi a luoghi “altri” rispetto a quelli usuali. Spazi@Rendere restituisce alla collettività la percezione, la memoria e la materialità dei “vuoti di spazio” presenti sul territorio italiano: edifici e nuclei abbandonati, complessi industriali e stazioni dismesse, traditi dalla memoria, dalla natura o dal mercato. L’urban explorer è simile al flâneur che mira a recuperare la sensibilità come forma di conoscenza e analisi critica dei modelli della geografia urbana moderna e (post-)fordista.
Muovendoci in Irpinia, essendo noi figli e nipoti del terremoto del 1980 (ma anche del 1931 o del 1962), non possiamo non fare i conti con i nuclei danneggiati o distrutti, con la nuova organizzazione spaziale delle rilocalizzazioni di molti paesi e con il confronto tra le rovine e il sonnacchioso trascorrere del tempo nei nuovi insediamenti.
Osservare le rovine e camminare tra i nuovi centri aiuta infatti a capire come la storia contadina delle aree interne del Mezzogiorno, dopo una secolare stratificazione culturale, spaziale e urbanistica/architettonica, sia stata compromessa, cancellata o ridotta a museo non solo dall’evento naturale, ma anche dalle seguenti trasformazioni socio-economiche: l’emigrazione, i fallimenti dell’industrializzazione, la prepotente modernizzazione delle aree rurali e l’espandersi tentacolare di una vaga idea “urbana” di infrastrutture e fabbriche. Oltre ad infiltrarsi tra ciò che resta, cerchiamo di comprendere il presente e il futuro dei paesi delle rovine, in questo spicchio di Italia interna paradigma delle province meridiane che tanto possono dire sull’Italia di oggi e sui cambiamenti repentini delle cosiddette “società tradizionali”.
Questo è ciò che prova a fare la paesologia, quella “disciplina indisciplinata”, non insegnata e strutturata, creata dallo scrittore irpino Franco Arminio (2013), che meritevolmente utilizza il mezzo letterario per portare attenzione sui paesi dell’Italia interna; Spazi@Rendere non utilizza la paesologia nelle sue tendenze a volte ideologiche o scarsamente teorizzate, ma piuttosto fa suo lo strumento principale, la narrazione, per spostare l’attenzione sullo stato del luogo, sui sintomi e le pulsazioni di un’area marginale.
Le 19:32 del 23 novembre 1980 hanno segnato indirettamente le esistenze di chi vi scrive. Pur non essendo nati all’epoca, abbiamo vissuto, da piccoli, il corso principale di Avellino ridotto a strada bombardata, il barbiere e il calzolaio stipati nei container, le erbacce e il cemento del quartiere provvisorio smantellato. Il percorso del blog è nato così, intrinsecamente legato alle fratture della nostra terra: fratture che diventano spazi, dolori che rimestano memorie, percezioni infantili che segnano percorsi adulti. Nella pioggia irpina proviamo così a raccontare una piccola storia d’Italia, essenziale per capire il passato e il presente e per comprendere come questi influenzino il futuro politico e socio-economico dei luoghi.
Il disastro come cartina di tornasole dei territori: il Molise e L’Aquila fanno scuola con gli squarci della ricostruzione, gli sprechi, la sofferenza, la nuova geografia sociale. Vi riproponiamo pertanto qui la nostra esperienza di osservatori a Conza e a Senerchia, descritte tramite testi di riferimento, testimonianze di attori privilegiati, foto o, semplicemente, tramite le nostre sensazioni.
Conza – Archeologia di una fine
Conza della Campania è vicinissimo all’epicentro del sisma: è stato raso al suolo e ricostruito a valle. Conza è stato tra i paesi con il più alto indice di distruzione e di morti (184 su 1957 abitanti) e l’unico centro con Romagnano al Monte ad essere stato interamente delocalizzato. Il paese sorgeva inizialmente su una collina che sovrastava la valle dell’Ofanto – dove ora si trova il Parco Archeologico di Compsa di cui si parlerà a breve. Fu poi ricostruito in un’area a valle nella quale, secondo il piano regolatore dell’architetto Corrado Beguinot, il nucleo urbano doveva rispondere ai moderni criteri di sicurezza sismica. Gli assi viari principali furono organizzati sulla base di preesistenti collegamenti interpoderali e all’incrocio di essi era prevista una zona baricentrica dove ospitare negozi, mercato e officine artigianali; vicino sarebbero poi sorti i servizi (scuola, giardini, poste, cinema, chiese, municipio).
Il risultato del progetto fu però controverso, tanto che si puntò l’indice contro la progettazione di Beguinot, non destinata a una comunità locale agricola ma a un quartiere dormitorio suburbano (Ventura, 2010). Il nuovo centro portava ad avvertire una sensazione di smarrimento e solitudine. Noi, ad esempio, stentiamo a capire la sproporzione della cupola della chiesa rispetto all’intorno, smarriti in uno spazio spesso asettico rispetto al paesaggio circostante. Conza sembra essere uno dei luoghi della “decostruzione dell’identità” (Costato, 2005) della ricostruzione irpina, per cui in nome della sicurezza si è avuto lo sradicamento e la perdita di quelle relazioni che legano indissolubilmente l’uomo ai suoi luoghi. I punti di riferimento per la costruzione dell’identità comunitaria, sono andati persi insieme alla storia e alle tradizioni. La piazza, la chiesa con il campanile e le stradine tortuose che costituivano il cuore del paese hanno ceduto il posto prima all’anonimato degli insediamenti provvisori e poi a quello del nuovo insediamento.
Dopo il caffè al bar di fronte alla chiesa, in una domenica mattina con un tiepido sole autunnale, visitiamo il vecchio nucleo di Compsa, sulla collina, ora un piccolo e affascinante parco archeologico, accompagnati da una guida del posto. L’antica colonna di fianco ai transistor ossidati della cabina elettrica, le porte arrugginite del vecchio campo di calcio, le ossa ormai cementate al terreno che regge le rovine della vecchia chiesa, sono emozioni inusuali che ci spingono a far conoscere il parco, aiutati dalla testimonianza del presidente della locale Pro Loco “Compsa”, Antonia Petrozzino. L’importanza archeologica di Conza era stata ipotizzata negli anni ’20 dal professore Italo Sgobbo in base a dei rinvenimenti in alcune cantine. In seguito alla campagna di scavo effettuata dal 1981 da Werner Johannowsky è stata confermata l’esistenza di presenze archeologiche da tutelare. Con la delocalizzazione post-sisma si presentò l’occasione poter istituire un parco archeologico, inaugurato nel 2003. L’importanza del sito archeologico di Compsa deriva dalla sua storia, iniziata col Neolitico e proseguita con Sanniti, Osci, Irpini, Romani, Bizantini, Longobardi. Ad ogni sisma il paese si ricostruisce su se stesso, riutilizzando parte del materiale degli edifici crollati e consentendo quella stratificazione storico-architettonica, ancora oggi riconoscibile e peculiarità principale del parco. L’impianto urbanistico è quello tipico del borgo medievale arroccato intorno alla cattedrale e al castello, da cui partono le mura difensive e ai cui piedi si stende il centro abitato.
Anche dai materiali da costruzione è possibile osservare le stratificazioni temporali, con il frequente utilizzo di pietra, mattoni, legni, sassi e ciottoli di fiume tenuti insieme da una malta molto resistente all’umidità. L’impianto urbano del centro storico si è comunque mantenuto inalterato dopo le varie ricostruzioni post-sisma (1361, 1688, 1694, 1852, 1910). Negli anni ‘50 e ‘60 la grande emigrazione ridusse la popolazione di due terzi. Con il sisma del 1980 l’85% del patrimonio edilizio venne distrutto e il 5% gravemente danneggiato: alcune strutture furono poi abbattute per consentire il passaggio ai mezzi meccanici. Attualmente restano poche tracce della stratificazione storica del tessuto urbano, nei pochi edifici non crollati, nei resti delle strutture murarie e nei tracciati stradali. La fragilità delle strutture e la friabilità del terreno rendono pericolosi gli interventi di scavo, ma è comunque il caso di tutelare quanto emerso viste la scarsa accessibilità per i mezzi comuni e le difficoltà di manutenzione ordinaria del parco. In questo contesto le istituzioni e le soprintendenze irpine sono assenti, i progetti fermi e i bandi non finanziati, nonostante la necessità di fondi che il Comune non ha a disposizione.
Il Parco cerca di preservare la memoria storica: alcune case sventrate dal sisma del 1980 sono lì visibili, con il vissuto che rappresentano, le maioliche dei bagni e le suppellettili. Al piano terra del museo si propongono la collezione di foto pre- e post-sisma e la proiezione di un video sulla vecchia Conza, mentre al piano superiore c’è il plastico del vecchio centro. La memoria storica è quindi tutelata, anche se ben diverse sono le scelte delle istituzioni rispetto ai sentimenti individuali e collettivi dei cittadini. Buona parte delle persone è orgogliosa del parco, ma c’è chi non ha mai avuto la forza di visitarlo: comprensibilmente, visto che alcuni di noi in 90 secondi hanno perso tutto. Per i giovani il discorso è diverso: chi è oggi adolescente non ha neanche vissuto la fase dell’insediamento provvisorio né quella della nuova Conza, e per loro è tutto più semplice.
[Qui l’articolo completo su Conza]
Senerchia: l’orologio come varco per il passato
Quando un evento tragico colpisce una comunità nasce l’esigenza di “fissare” il luogo in cui esso è avvenuto. Un orologio, ad esempio, diventa il modo per fissare la scala temporale dell’evento alla scala spaziale del territorio, trasmettendo ai posteri le ragioni per cui quello spazio è tale in quel momento, magari lasciando le lancette posizionate sull’ora dell’evento. E’ ormai noto l’orologio della stazione di Bologna, fermo alle 10:25 del 2 agosto 1980, mentre in Abruzzo, a Fontecchio, il museo della memoria si trova in un complesso che ospita lo storico orologio del paese, non più funzionante perché qualcuno dovrebbe arrampicarsi frequentemente su una scala traballante per ricaricarlo. Il terremoto in Emilia è invece definito il “terremoto dei campanili”, proprio perché i paesi lungo la via Emilia si identificavano strettamente con quei campanili e quegli orologi che hanno nobilmente scandito le giornate nei campi della Bassa. Campanili come quello di Finale Emilia, mostrato a ogni piè sospinto nei telegiornali, abbattuto per pericolo crollo e ricollocato nella villa centrale in una struttura portante di acciaio. Il paese riparte dal suo orologio: essere da monito per riaccendere la speranza.
In una giornata primaverile ma climaticamente autunnale, con il mal di stomaco causa autista in modalità rally tra i campi coltivati, arriviamo a Senerchia con lo stomaco a tracolla. Beviamo pertanto un chinotto al bar, con gli anziani che giocano a carte e i giovani che scommettono sul campionato. Per visitare il vecchio nucleo distrutto dal sisma (siamo praticamente di fronte l’epicentro di Teora), bisogna attraversare il corso principale dell’attuale Senerchia.
Il vecchio e il nuovo sono separati dall’orologio che segna le 19:32, incastonato in una struttura metallica sotto la quale si leggono i nomi delle vittime. Si lascia la nuova Senerchia attraversando questo “varco”, che oltre che materiale è soggettivo e interiore, preparandoci alla visita del vecchio con il training simbolico preparatoci dall’orologio. Sembra quasi un tentativo di realizzare un’area museale a cielo aperto: alla sinistra un piccolo parco con giostrine e belvedere e, alla destra, poco in alto, 16 alberelli di un parco della memoria dedicato a 16 aviatori statunitensi, precipitati qui nel 1944. Un monumento di bronzo con i loro nomi, bandiere italiane e statunitensi che svettano affiancate. Nella vecchia Senerchia sono in corso dei lavori di ristrutturazione: alcune case sono già state riprese. La stradina principale, ora sentiero CAI, è un florilegio di tubi e impalcature, anche perché molte strutture sono in equilibrio davvero precario. Poco più avanti è stata eseguita una pavimentazione, anche se i cordoli di marmo non sembrano essere funzionali all’intorno, mentre alcune lampade sono già rotte e non funzionanti. L’area è abbastanza estesa e oltre al “centro” si continua a salire verso le abitazioni sventrate lungo il costone.
Il paese sorgeva lungo un torrente che lambiva i muri delle abitazioni. Ad alcune di esse si accede tramite piccoli ponticelli. Chissà cosa accadeva con le piene: l’ansa del fiumiciattolo passa non più di due metri sotto una piccola finestra. Si riesce ad accedere ad alcune strutture, una particolarmente bella è sulla destra, a tre piani e con belle terrazze. Sembra siano già stati effettuati alcuni lavori di manutenzione, la tinteggiatura di alcune pareti e l’allaccio del quadro elettrico. Come al solito, in queste abitazioni si trova di tutto: bottiglie, lettere, giornali, sedie scassate, letti e materassi rosi da muffa e topi, cucine, piatti sporchi, ricevute. Incontriamo un paio di persone che passeggiano e fumano. Il luogo è più vissuto del parco di Conza, prova ne è il fatto che su alcuni portoni vi sono delle insegne posticce; probabilmente si è svolta qualche festa di paese, qualche sagra di prodotti tipici in questa cornice suggestiva di legni rigonfi d’acqua, cardini arrugginiti e pavimenti sconnessi e polverosi. Continuando a salire si può svoltare verso destra come a voler tornare indietro, giungendo alla piccola chiesa di Sant’Antonio, chiusa ma certamente restaurata. Vogliamo provare a sbucare vicini al punto di ingresso, ma in realtà si può solo risalire il versante, mentre i vicoli per tornare sulla strada principale non sono percorribili. Ritorniamo indietro. Piove maledettamente, lo stomaco è sottosopra. Siamo quasi al crepuscolo, in questo lembo d’Irpinia tra Cilento e Basilicata. Passiamo nuovamente sotto l’orologio, per ricordare ancora una volta di chi siamo figli.
[Qui l’articolo completo su Senerchia]
[Giuseppe Forino è dottore di ricerca in geografia economica. Irpino, si è occupato di resilienza post-disastro nella ricostruzione all’Aquila. Con alcuni amici cura un blog di esplorazione urbana di spazi abbandonati e rovine, Spazi@Rendere]
Bibliografia
Arminio F., 2011, Terracarne. Viaggio nei paesi invisibili e nei paesi giganti del Sud Italia, Mondadori, Milano
Arminio F., 2013, Geografia commossa dell’Italia interna, Mondadori, Milano
Costato B., Ricostruzione come decostruzione dell’identità: l’Irpinia, in Mazzoleni D. Sepe M., (a cura di), 2005, Rischio sismico, paesaggio, architettura: l’Irpinia, contributi per un progetto, Centro Regionale di Competenza Analisi e Monitoraggio del Rischio Ambientale, Napoli
DeLillo D., 1999, Underworld, Rizzoli, Milano
Ventura S., 2010, I ragazzi dell’Ufficio di Piano. La ricostruzione urbanistica in Irpinia, I Frutti di Demetra, 22, 37-52
Ulteriori spunti
Calandra L.M., (a cura di), 2012, Territorio e democrazia. Un laboratorio di geografia sociale nel dopo sisma aquilano, L’Una, L’Aquila
De Falco P., Di Capua S., Forino G., Montefusco S., Spazi@Rendere: esplorazione urbana indisciplinata, poster presentato a XXVIII Rassegna INU, Salerno. Qui il link.
Dickie J., Foot J., Snowden F.M., Disastro! Disasters in Italy Since 1860: Culture, Politics, Society, Palgrave Macmillan
Nuvolati, G. (2009), Lo sguardo del flâneur, Ri-Vista ricerche per la progettazione del paesaggio, gennaio-giugno, 46-52
Tarpino A., 2012, Spaesati. Luoghi dell’Italia in abbandono tra memoria e futuro, Einaudi, Milano