Note su Siena e il suo doppio.
Percorsi nel passato e letture del presente a San Niccolò Città dei Matti.
Nel recente L’Armata dei sonnambuli, il collettivo di scrittori Wu Ming si cimenta nel racconto della Rivoluzione francese. Sotto l’esplicita egida foucaultiana, il romanzo allestisce la voce plurale di un popolo in preda all’ebbrezza della scoperta che il potere non è naturale, che non c’è una legge necessaria e ineluttabile a monte delle miserie, le umiliazioni e le costrizioni vissute fino al giorno prima come naturali e incontrovertibili.
Squarcio esplosivo delle maglie del potere e apertura al possibile, lo spazio della sragione aperto dall’evento rivoluzionario è anche il terreno in cui si consuma il passaggio dal potere sovrano alle società disciplinari.
È in primo luogo una storia di corpi, di processi di soggettivazione e assoggettamento che si consumano su, attraverso e per mezzo dei corpi: laddove la Rivoluzione esalta, collega, riassegna alla dimensione politica i limiti e i vincoli dei singoli, nuove tecnologie di separazione e controllo degli individui si addestrano all’ombra dei tumulti che agitano le strade parigine.
Nelle lande sperdute della provincia, licantropi, streghe, e altre figure della follia magica sono oggetto di una duplice ratio, che prefigura la microfisica del potere dispiegata dalla disciplina.
D’Amblanc, borghese illuminato, sfrega, massaggia, preme, si avvale di familiari e compaesani per ripristinare l’equilibrio fisiologico dei flussi e le spinte della carne e riassegnare i soggetti all’ordine sociale. Mesmer, cospiratore reazionario, non tocca ma guarda e parla, isola il soggetto nel buio e nel segreto, ricerca la conformazione definitiva della coscienza a una verità che ne pervade e annichilisce ogni possibilità di auto-costituzione.
Dal corpo e i suoi umori all’anima e gli “incorporei” – psiche, personalità, soggettività – che faranno presto ingresso nell’ambito di pertinenza della giurisdizione. Passaggio sottile e continuo, il cui epicentro è il manicomio di Bicêtre: se la Rivoluzione ne minaccia la logica punitiva – poca è la differenza fra i popolani dai nasi lividi e le membra cancrenose che si accalcano nelle strade di Parigi a festeggiare la caduta di Luigino e i dementi e sifilitici che dietro le inferriate mimano il gesto del boia – nelle sue segrete maturano tecnologie del controllo più sottili e sofisticate, emanazione di una profonda trasformazione epistemica che farà delle numerose ed eterogenee categorie di soggetti che ne affollano i ricoveri non più criminali da punire ma malati da curare o gestire.
I personaggi dei due medici figurano, da questo punto di vista, i poli di quello che Mario Galzigna ha efficacemente definito l’ossimoro costitutivo della cura psichica, al contempo mezzo per affrontare le patologie e garanzia di controllo, terreno in cui i saperi scientifici si intrecciano fatalmente agli assetti di potere e ai rapporti di forza che normano il sociale.
L’ambizione dell’esperimento di Siena e il suo doppio. Percorsi nel passato e letture del presente a San Niccolò città dei Matti, seminario interdisciplinare di teoria e critica della cultura nato in occasione del quarantennale della prima edizione di Sorvegliare e punire. Nascita della prigione di Michel Foucault, è stata in primo luogo quella di interrogare il coacervo di questioni che si affastellano attorno a quell’ossimoro e alle forme che ha assunto nella contemporaneità.
Il progetto, che ha coinvolto una rete di soggetti accademici, gruppi di ricerca e associazioni culturali cittadine, muove da una duplice esigenza intellettuale e politica: maturare una riflessione pubblica e collettiva sui concetti di normalità e devianza a partire dall’eredità storica e memoriale dell’ospedale psichiatrico di Siena e più in generale delle ex-strutture di contenzione; interrogare il ruolo e la funzione dei saperi universitari all’interno del più ampio orizzonte sociale e politico in cui si inscrivono.
Negli ultimi decenni, la “città dei pazzi” di Siena è stata oggetto di un ingente lavoro d’archivio. Le ricerche di Francesca Vannozzi, Gino Civitelli, Martina Starnini, dei collettivi di antropologi C.R.E.A. e sPAZZI (quest’ultimo confluito nel focus Reparto Agitati de il lavoro culturale), fra gli altri, hanno messo in luce le tante storie, locali e internazionali, stratificate nei centocinquanta anni di vita del manicomio: le guerre, le lotte sociali, la storia della medicina e della psichiatria, dell’architettura e del costume, sono solo alcuni degli aspetti del nostro recente passato che la struttura ha riflesso e riverberato.
Siena e il suo doppio ha cercato, da questo punto di vista, di disegnare un piano generale di comparazione e divulgazione mirante a scardinare l’effetto algido e specialistico che aleggia attorno ai tanti saperi implicati dalle strutture di contenzione, al fine di farne materiale per pensare il controllo, l’alterità, la devianza non come valori astratti ma calati nei dispositivi, nelle pratiche, nelle leggi, negli stereotipi e nelle narrazioni a cui siamo costantemente esposti.
Da quasi vent’anni, i manicomi civili sono stati chiusi, e quelli criminali dovrebbero concludere la dismissione (prevista per il 2013) entro il 2015: la celebre legge 180, vittoria tonda e schiacciante che non ha precedenti negli altri ambiti del diritto, costituisce uno snodo cruciale della nostra cultura che sbaglieremmo a considerare semplicemente come lieto fine della rivoluzione innescata dall’anti-psichiatria e legata alla figura di Franco Basaglia.
Il plesso fondante della contenzione, infatti, non è affatto rimosso, ma anzi implicitato fino a divenire pericolosamente invisibile, appannaggio esclusivo dell’anima e delle sue emanazioni. L’individuo suo malgrado “socialmente pericoloso”, colui i cui crimini non discendono dalla volontà morale ma da tare indipendenti dal libero arbitrio e finanche dalla coscienza, apre una voragine all’interno del diritto che la contemporaneità è lungi dall’aver superato. Il suo stesso statuto di individuo che vede sospesi non solo i diritti civili, ma la propria legittimità in quanto soggetto di parola, costituisce un paradosso che gli né gli sviluppi della scienza medica né quelli della giurisprudenza hanno sanato.
Sarebbe sciocco e irresponsabile, evidentemente, non salutare come una vittoria la condanna definitiva della contenzione hard: questo non ci esime, però, dal continuare a interrogare le condizioni in cui qualcosa di talmente complesso e stratificato come il comportamento umano smette di essere considerato l’espressione di un’intenzionalità, di un progetto eventualmente diverso dal quadro di aspettative entro cui viene accolto e giudicato, per divenire oggetto di diagnosi clinica.
Urgenza tanto più impellente nella misura in cui il redivivo scientismo conosciuto dall’odierno assetto dei saperi medico-psichiatrici tende ad escludere ulteriormente tali condizioni dal controllo inter-soggettivo e dal terreno di negoziazione del senso comune.
In Storia della follia nell’età classica, Foucault riporta alcuni stralci dei registri del manicomio di Bicêtre datati 1650, ben prima che la follia divenisse a tutti gli effetti una malattia: “dissoluto”, “imbecille”, “prodigo”, “infermo”, “cervello alterato”, “libertino”, “figlio ingrato”, “padre dissipatore”, “prostituta”, “insensato”, sono alcune delle categorie alle quali vengono ascritti i diversi internati.
Se scorriamo le voci delle diverse edizioni conosciute dal DSM, manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali che vanta basi a-teoriche e meramente nosologiche, non molto è cambiato a livello di eterogeneità e commistione di criteri pragmatici, scientifici, morali.
Il fatto che solo nel 1972, alla settima ristampa del DSM II, l’omosessualità sia stata espulsa dalla classificazione psicopatologica, offre un indice più che significativo del grado di implicitazione delle più diverse norme sociali sotto l’egida della scienza esatta. Chi è legittimato a stabilire i criteri di osservazione e diagnosi? Quale genere di saperi convocano o dovrebbero convocare? Quali pericoli di prevaricazione e sopraffazione dell’alterità si celano nel giudizio di conformità alla norma, in un quadro che espunge dall’orizzonte scientifico, come non pertinente, la possibilità di discutere e valutare quelle stesse norme che fungono da criterio? Queste domande, che scaturiscono direttamente dalla posizione limite del reo-folle, affettano più in generale le forme contemporanee di normalizzazione e conservazione dello status quo.
Il tanto (giustamente) criticato immobilismo dell’accademia, l’inefficacia della “teoria” a fronte dei problemi e dei conflitti del sociale, dipende molto meno dalle cattive volontà dei singoli che da un effetto sistemico: mai come oggi le politiche della ricerca nazionale e internazionale hanno mostrato attenzione verso la “cultural heritage”, il “knowledge sharing”, la partecipazione orizzontale, leitmotiv che campeggiano nella maggior parte dei bandi ministeriali ed europei dedicati ai beni culturali.
È relativamente facile trovare finanziamenti per creare archivi, per raccogliere e conservare dati e renderli accessibili: ciò che sta sparendo dall’orizzonte delle agende universitarie è invece un tempo per interrogarli, per esplorarli, per trovare relazioni che ci erano sfuggite, per riorganizzarli attivamente a partire dalle domande che premono sul presente.
Incentrati fondamentalmente sulle scienze forti di diretto impatto industriale o commerciale, i bandi specificano l’esigenza di integrare la ricerca tecnologica con l’apporto delle scienze umane e sociali. Non è chiaro, però, quale sarebbe il ruolo delle “humanities” al di fuori del rituale sterile del “parere consultivo”, in un quadro che contempla l’interdisciplinarità come giustapposizione di competenze le cui aree di pertinenza e funzioni sono rigidamente decise in anticipo.
A questo proposito, la scelta di tornare, a quarant’anni dalla prima edizione, sul testo in cui Michel Foucault affronta la nascita delle società disciplinari è stata in primo luogo tattica. A latere del dibattito storico e filosofico attorno al metodo foucaultiano, il seminario ha tentato di riattivarne la pratica di pensiero antagonista, in grado e in condizione di interrogare gli automatismi dettati dalla logica della produzione e prestazione continua che tagliano trasversalmente la macchina culturale e investono direttamente la riflessione sul destino e la riqualifica delle ex-strutture di contenzione.
In occasione della tavola rotonda che ha concluso questa prima edizione, Mauro Bertani ha provocatoriamente intitolato il suo intervento “Contro i musei”: a fronte della logica, ormai strutturale, dell’emergenza economica, che rischia di abbandonare gli archivi e gli edifici storici del San Niccolò all’obsolescenza e il degrado irreversibili (primo passo verso la speculazione edilizia), è altrettanto perniciosa, secondo il filosofo e secondo noi, la retorica della monumentalizzazione, che tende a congelare il patrimonio storico in una teca estetizzante da contemplare a distanza, reperto di un passato lontano.
Quel passato non è affatto passato, e ciò che fa delle strutture di contenzione un bene comune è il fatto di mantenere viva e visibile la coscienza delle aporie, i paradossi e i conflitti di cui la contemporaneità è erede. E il modo più efficace per riassegnare quella memoria al presente è avviare la conversione degli antichi luoghi dell’esclusione in una fucina di pensiero e pratica della differenza, che della follia conservi entrambe le facce: quella del potere, che impone di vigilare sulle forme di coercizione vecchie e nuove, e quella del soggetto folle, il cui punto di vista, instabile e mutevole, sfugge alle maglie di un controllo di cui disconosce la ratio.
Quest’ultima, forse, è stata la mira più ambiziosa dell’esperimento, e il punto di partenza per pensarne sviluppi futuri: ricercare fra gli archivi del San Niccolò e di strutture affini, nelle personalità protagoniste della rivoluzione interna alla stessa storia della psichiatria, nelle prese di parola della follia stessa e delle sue figure, la possibilità di conoscere e riconoscere l’Altro, di capire per trasformarsi e trasformarsi per capire a partire dalle potenzialità che quell’incontro dischiude.
Convertire la carica utopica inscritta in un progetto incentrato sulla valorizzazione dell’alterità in una soluzione concreta e sostenibile di riqualifica è un processo lungo e negoziale: non ci sono soluzioni preconfezionate all’orizzonte, proprio perché parte dal presupposto che trasformare l’esistente necessita di uno spazio e un tempo collettivi d’arresto e (s)ragione.
Stasera Siena e il suo doppio è ospite di Nottilucente: Giacomo Tagliani e Cristina Lunedì parlano del diritto alla sragione con gli artisti e gli ospiti del salotto mobile. A partire dalle 18.30, in Piazza delle Erbe (San Gimignano).