Sopravvivere non è sufficiente X

Leggere il contemporaneo attraverso i racconti sulla fine del mondo

Sopravvivere non è sufficiente Butler Dick
La jetée, Chris Marker (1962)

 

I would spread the cloths under your feet:

But I, being poor, have only my dreams;

I have spread my dreams under your feet; 

Tread softly because you tread on my dreams.

William Butler Yates

 

 

 

I

Octavia E. Butler, La parabola dei talenti

(1998, Fanucci editore 2001, traduzione di Anna Polo)

 

Da Ricordi di altri mondi di TAYLOR FRANKLIN BANKOLE

Ho letto che il tumultuoso periodo che i giornalisti hanno cominciato a chiamare “l’Apocalisse”, o, con una definizione più diffusa e amara, “la Peste”, è durato dal 2015 al 2030, ossia quindici anni di caos. Non è vero. La Peste è stata un periodo assai più lungo.

È cominciata prima del 2015, forse anche prima del cambiamento di millennio e non è ancora finita. Ho letto anche che la Peste è stata causata da una concomitanza di crisi climatiche, economiche e sociologiche. Sarebbe più onesto affermare che è stata causata dal nostro rifiuto di affrontare gli evidenti problemi sorti in quei campi. Abbiamo causato quei problemi e poi siamo rimasti seduti a guardare, mentre assumevano proporzioni tali da sfociare in vere e proprie crisi. Ho sentito molta gente negare una simile analisi, ma io sono nato nel 1970 e ne ho viste abbastanza per sapere che le cose stanno così. Ho visto l’istruzione passare dall’essere una necessità fondamentale perché una società civile possa sopravvivere, a un privilegio per i ricchi. Ho visto la convenienza, il profitto e l’inerzia giustificare danni ambientali sempre più vasti e pericolosi, ho visto la povertà, la fame e le malattie diventare inevitabili per un numero sempre maggiore di persone. Nel complesso, la Peste ha avuto l’effetto di una terza guerra mondiale a rate. In effetti in questo periodo si sono verificati nel mondo vari piccoli conflitti, stupidi e sanguinari, dei veri e propri sprechi di vite umane e di risorse. Venivano presentati come una difesa contro malvagi nemici stranieri, ma spesso si verificavano perché dei leader inadeguati non sapevano che altro fare. Sapevano però di poter contare sulla paura, il sospetto, l’odio, il bisogno e l’avidità per suscitare un sostegno patriottico alla guerra. In qualche modo gli Stati Uniti d’America hanno subito una grande disfatta, anche se non di carattere militare. Non hanno perso alcuna guerra importante, ma non sono sopravvissuti alla Peste. Forse hanno semplicemente perso di vista quello che dovevano essere e poi hanno continuato a muoversi alla cieca, fino a esaurirsi. Ciò che ne è rimasto, ciò che sono diventati, io non lo so.

 

Taylor Franklin Bankole era mio padre. Dai suoi scritti, sembra un uomo riflessivo e un po’ formale, che ha finito per legarsi alla mia strana, ostinata madre, sebbene lei fosse così giovane da poter passare per sua nipote. Sembra che mia madre lo abbia amato e sia stata felice con lui. Si sono incontrati durante la Peste, mentre vagavano senza una casa, ma lui era un dottore di cinquantasette anni e lei una ragazza di diciotto. La Peste ha fornito loro terribili ricordi comuni. Entrambi avevano assistito alla distruzione dei loro quartieri – lui a San Diego e lei a Robledo, un sobborgo di Los Angeles. Sembra che questo sia stato sufficiente per loro.

Si sono incontrati nel 2027, si sono piaciuti e poi sposati. Leggendo tra le righe di alcuni scritti di mio padre, penso che volesse prendersi cura della strana ragazza che aveva trovato. Voleva proteggerla dal caos di quell’epoca, dalle gang, dalla droga, dalla schiavitù e dalla malattia. E naturalmente era lusingato dal fatto che lei lo desiderasse. Era umano e senza dubbio stanco della solitudine. All’epoca del loro incontro, la sua prima moglie era morta da circa due anni.

Naturalmente non è riuscito a proteggere mia madre; nessuno ci sarebbe riuscito. Lei aveva scelto la sua strada molto prima del loro incontro. Il suo errore è stato vederla come una ragazzina, mentre lei era già un missile carico e puntato.

 

 

II

Philip K. Dick, Ma gli androidi sognano pecore elettriche?

(1968; Fanucci Editore, 2000, traduzione di Riccardo Duranti)

 

All’interno di un gigantesco edificio vuoto e cadente, in cui un tempo avevano abitato migliaia di persone, un unico apparecchio televisivo gracchiava dentro una stanza deserta. Prima dell’Ultima Guerra Mondiale, questo rudere ormai senza padroni aveva goduto di cure e lavori di manutenzione. Qui un tempo sorgeva la fascia suburbana di San Francisco; dal centro era un breve tragitto sulla monorotaia del sistema di trasporto rapido; l’intera penisola gorgheggiava come un uccello canterino, piena di vita e di opinioni e dispute, ma ormai gli accorti proprietari erano tutti morti oppure emigrati su un pianeta colonizzato. Per lo più erano morti; era stata una guerra disastrosa nonostante le predizioni spavalde del Pentagono e del suo tronfio vassallo scientifico, la Rand Corporation – che, anzi, aveva sede proprio da queste parti. Come i proprietari degli appartamenti, anche quell’azienda se n’era andata, evidentemente senza intenzione di tornare.

Nessuno ne sentiva la mancanza. Inoltre, nessuno oggi si ricordava del perché ci si fosse trovati in guerra, né chi avesse vinto, ammesso che qualcuno avesse vinto. La polvere che aveva contaminato la maggior parte della superficie del pianeta non aveva avuto origine in una nazione particolare, e nessuno, nemmeno il nemico al tempo di quella guerra, l’aveva prevista. Dapprima, stranamente, erano morte le civette. A quel tempo era stato quasi buffo: gli uccelli, imbottiti nella loro lanugine chiara, giacevano stecchiti qua e là, nei giardini e lungo le strade. Dato che uscivano dal nido solo dopo il crepuscolo, secondo quelle che erano le loro abitudini prima di estinguersi, di solito le civette sfuggivano all’osservazione. Le pestilenze medievali si erano manifestate in modi simili, con morìe di moltitudini di topi. Questa epidemia, invece, era calata dall’alto. Dopo le civette, naturalmente, caddero gli altri uccelli, ma a quel punto il mistero era stato compreso e svelato. Uno stentato programma di colonizzazione era già stato avviato prima della guerra, ma ora che il Sole aveva cessato di splendere sulla Terra la colonizzazione era entrata in una nuova fase, del tutto diversa. Contemporaneamente, un’arma da guerra – il Combattente per la Libertà Sintetico – era stata modificata; in grado di funzionare su un mondo alieno, il robot umanoide – in senso stretto, l’androide organico – era divenuto il fattore trainante del programma di colonizzazione. Ai sensi di una legge dell’ONU, ogni emigrante aveva diritto al possesso di una sottospecie di androide a sua scelta e nel 1990 l’assortimento dei modelli aveva superato ogni possibile immaginazione, più o meno come nel caso delle automobili americane degli anni sessanta.

Si era trattato del massimo incentivo all’emigrazione: il servo androide era la carota, la pioggia radioattiva il bastone. L’ONU aveva incoraggiato l’emigrazione e reso difficile, se non impossibile, il rimanere. Attardarsi sulla Terra significava correre il rischio di trovarsi classificati come biologicamente inaccettabili, una minaccia per la purezza del retaggio genetico della razza. Una volta etichettato come speciale, un cittadino, anche se accettava la sterilizzazione, era espulso dalla storia. Cessava, in effetti, di far parte del genere umano. Eppure, c’era ancora, qui e là, chi si rifiutava di emigrare; e questa decisione rappresentava un atto di un’irrazionalità sconcertante perfino agli occhi delle persone coinvolte in prima persona. Da un punto di vista logico, ogni regolare sarebbe già dovuto emigrare. Forse, per quanto devastata, la Terra rimaneva un posto familiare a cui restare attaccati. Oppure, può darsi che il non-emigrante immaginasse che la coltre di polvere si sarebbe a un certo punto esaurita. Ad ogni modo, migliaia di individui erano rimasti sulla Terra, per lo più disseminati in aree urbane dove erano fisicamente in grado di vedersi, rincuorarsi con la loro reciproca presenza. Queste persone sembravano essere quelle relativamente a posto di cervello. Oltre a loro, c’era anche un altro residuo di umanità un po’ dubbia: alcuni strani esseri vagavano ancora nelle periferie praticamente abbandonate.

John Isidore, martellato dai suoni gracchianti provenienti dal televisore acceso in salotto mentre si radeva nel bagno, era uno di quelli.

Era arrivato lì mentre vagava senza meta, subito dopo la guerra. In realtà, in quel periodo così brutto nessuno sapeva più cosa stesse mai facendo. Intere popolazioni, sfibrate dalla guerra, avevano preso a vagare sbandate, e si erano insediate prima in una regione e poi in un’altra. A quell’epoca la pioggia radioattiva era sporadica e assai variabile; alcune regioni ne erano stati quasi del tutto risparmiati, altri ne erano saturi. Le masse di profughi si spostavano con lo spostarsi della polvere. La penisola a sud di San Francisco dapprima era stata risparmiata dalla polvere, e una gran massa di persone aveva deciso di sistemarsi in quella zona. Quando la polvere arrivò, alcuni erano morti, altri se n’erano andati. Isidore era rimasto.

Il televisore strillava: “…vi riporterà ai bei tempi degli Stati del Sud prima della Guerra Civile! Sia esso collaboratore domestico o instancabile bracciante, un robot umanoide personalizzato – progettato apposta PER VOI E SOLO PER VOI, per soddisfare qualsiasi esigenza particolare – vi sarà consegnato al vostro arrivo completamente gratis, accessoriato secondo quanto da voi richiesto prima della partenza dalla Terra; questo fedele compagno nella più grande, più audace avventura concepita dall’uomo nei tempi moderni, senza darvi alcun problema vi fornirà…” Andava avanti così per ore, praticamente senza fermarsi mai.

Chissà se farò tardi al lavoro, si chiese Isidore mentre si radeva. Non aveva un orologio che funzionasse; in genere si affidava al segnale orario della TV, ma oggi, evidentemente, era la Giornata degli Orizzonti Interspaziali. Ad ogni buon conto la TV sosteneva trattarsi del quinto (o sesto?) anniversario della fondazione della Nuova America, il maggiore insediamento degli USA su Marte. E il suo televisore, malfunzionante, riceveva solo il canale che era stato nazionalizzato durante la guerra e che tale era rimasto. Il governo di Washington, e il suo programma di colonizzazione spaziale, era l’unico sponsor che Isidore si ritrovava ad ascoltare per forza. “Sentiamo la signora Maggie Klugman”, suggerì l’annunciatore TV a Isidore, cui interessava solo sapere l’ora. “Da poco immigrata su Marte, ecco che cosa ci ha detto la signora Klugman in un’intervista registrata dal vivo a Nuova Nuova York. Signora Klugman, ci può fare un paragone tra la sua vita sulla Terra contaminata e la sua nuova vita in questo mondo ricco di ogni immaginabile opportunità?”

Una pausa, e poi la voce, stanca, secca, di una donna di mezza età: “Secondo me, la cosa che ha colpito più me e la mia famiglia è la dignità.”

“La dignità?” chiese l’annunciatore.

“Sì”, rispose la signora Klugman, ora cittadina di Nuova Nuova York, su Marte.

“È difficile da spiegare. Avere un servo su cui contare, in questi tempi difficili… lo trovo rassicurante.”

“In passato, sulla Terra, signora Klugman, ai vecchi tempi, era anche preoccupata di trovarsi classificata, ehm… ehm, come speciale?”

“Oh, io e mio marito avevamo una paura folle. Naturalmente, una volta emigrati, la preoccupazione – per fortuna – è svanita per sempre.”

Tra sé e sé John Isidore pensò acido: Quella è svanita anche per me, senza dover emigrare. Era uno speciale da più di un anno, e non solo per quanto riguardava i geni deformi che portava in sé. Più grave ancora era il fatto che non avesse superato l’esame per il livello minimo consentito delle facoltà mentali, il che lo rendeva – secondo il gergo popolare – un cervello di gallina. Su di lui era calato il disprezzo di tre pianeti. Comunque, nonostante tutto, sopravviveva. Aveva un lavoro – guidava il furgone che raccoglieva e consegnava gli animali finti per un’officina che li riparava: la Clinica per Animali Van Ness. Il suo principale – Hannibal Sloat, perennemente corrucciato, cupo – lo trattava come un essere umano, cosa per cui gli era molto grato. Mors certa, vita incerta, declamava di tanto in tanto il signor Sloat. Isidore, per quanto avesse sentito la citazione svariate volte, aveva solo una vaga idea di cosa significasse.

Dopotutto, se un cervello di gallina avesse capito il latino non sarebbe più stato un cervello di gallina. Quando la cosa gli venne fatta notare, il signor Sloat ne riconobbe l’intrinseca verità. E poi esistevano dei cervelli di gallina infinitamente più stupidi di Isidore, che non erano in grado di svolgere alcun lavoro e rimanevano segregati in istituzioni pittorescamente denominate Istituti Americani per le Attività Professionali Speciali. Come al solito, la parola speciale doveva in qualche modo entrarci per forza.

“…Suo marito non si sentiva in alcun modo protetto», stava dicendo l’annunciatore TV, “dal possedere e dall’indossare sempre una costosa e goffa braghetta di piombo per ripararsi dalle radiazioni, signora Klugman?”

“Mio marito…” cominciò la signora Klugman, ma a quel punto, avendo finito di radersi, Isidore entrò in salotto e spense la TV. Silenzio. Riverberava come un bagliore dalle pareti e dai pannelli di legno; lo percuoteva con una tremenda energia assoluta, come venisse generato da un’immensa turbina. Saliva dal pavimento, dalla consunta moquette grigia. Si sprigionava dagli elettrodomestici rotti o semiguasti della cucina, macchine morte che non avevano mai funzionato da quando Isidore era andato ad abitare in quella casa. Stillava dall’inutile lampadario in salotto e andava a mischiarsi a se stesso, ad altro silenzio che calava dal soffitto macchiato di mosche. Riusciva in effetti a emergere da qualsiasi oggetto vi fosse nel campo visivo di Isidore, come se il silenzio volesse sostituirsi a ogni cosa tangibile. Quindi assaliva non solo le orecchie, ma anche gli occhi; in piedi davanti al televisore inerte, Isidore percepì il silenzio visibile e, a modo suo, vivo. Vivo! Ne aveva spesso avvertito l’austero avvicinarsi in precedenza; quando arrivava gli esplodeva in casa senza alcun rispetto, evidentemente incapace di attendere. Il silenzio del mondo non riusciva a tenere a freno la propria avidità. Non poteva aspettare ancora. Non quando aveva già virtualmente vinto.

Si chiese, allora, se anche le altre persone rimaste sulla Terra percepissero il vuoto allo stesso modo. O la sua era una sensibilità particolare, propria della sua identità biologica deviata, una bizzarria generata dal suo inadeguato sistema sensoriale? Domanda interessante, pensò Isidore. Ma con chi avrebbe potuto confrontarsi o scambiare qualche impressione? Abitava da solo, in questo palazzo cieco e sempre più fatiscente, tra mille appartamenti disabitati. Un edificio che, come tutti quelli simili, cadeva, di giorno in giorno, in uno stato sempre maggiore di rovinosa entropia. Con il tempo tutto ciò che c’era nel palazzo si sarebbe fuso – una cosa nell’altra – avrebbe perso individualità sarebbe diventato identico a ogni altra cosa, un mero pasticcio di palta ammonticchiato dal pavimento al soffitto di ogni appartamento. E dopo di ciò lo stesso palazzo, senza che nessuno ne curasse la manutenzione, avrebbe raggiunto uno stadio di equilibrio informe, sepolto dall’ubiquità della polvere. Quando ciò si sarebbe verificato, naturalmente, lui sarebbe già morto da un pezzo; ecco un altro interessante argomento su cui meditare lì in piedi in quel salotto sfatto, solo con l’onnipervasiva assenza di respiro del possente silenzio del mondo.

 

 

III

Ursula K. Le Guin, I reietti dell’altro pianeta

(1974; Mondadori, 2014, traduzione di Riccardo Valla)

 

Per duecento anni, dopo quella prima discesa, Anarres venne esplorato, cartografato, studiato, ma non colonizzato. Perché trasferirsi in un deserto terribile quando c’era abbondanza di spazio nelle dolci vallate di Urras?

Tuttavia, venne scavato. Le epoche del Nono e dell’inizio del Decimo Millennio, saccheggiatrici di se stesse, avevano svuotato le riserve minerarie di Urras; con il perfezionamento dell’astronautica, divenne più economico scavare la Luna che estrarre da minerali poveri o dall’acqua del mare i metalli occorrenti.

Nell’anno urrasiano IX-738 venne fondata una colonia ai piedi dei Monti Ne Thera, sede di una miniera di mercurio, nell’antica zona di Ans Hos. Il punto venne chiamato Città Anarres. Non era però una città: non c’erano donne. Gli uomini firmavano un contratto per due o tre anni come minatori o come tecnici, poi tornavano a casa, sul mondo reale.

La Luna e le sue miniere erano sotto la giurisdizione del Consiglio dei Governi Mondiali, ma nell’altra parte della Luna, nell’emisfero orientale, la nazione di Thu aveva un piccolo segreto: una base di astronavi e una colonia di minatori, con mogli e figli. Loro abitavano veramente sulla Luna, e la cosa era nota esclusivamente al loro governo. Fu il crollo di quel governo nell’anno 771 a far nascere la proposta, nel Consiglio dei Governi Mondiali, di dare la Luna alla Società Internazionale degli Odoniani: di comprarli con un mondo, prima che minassero fatalmente l’autorità della legge e la sovranità nazionale su Urras. Città Anarres venne evacuata, e dal bel mezzo della confusione che regnava in Thu partì in fretta un’ultima coppia di razzi che dovevano raccogliere i minatori. Ma non tutti minatori decisero di ritornare. Ad alcuni di loro piaceva il deserto terribile. Per più di vent’anni le dodici astronavi assegnate ai Coloni odoniani dal Consiglio dei Governi Mondiali fecero la spola tra i due mondi, finché il milione di anime che avevano scelto la nuova vita non fu completamente trasportato al di là dell’abisso asciutto. Poi il porto venne chiuso all’immigrazione e aperto solamente ai mercantili dell’Accordo Commerciale. A quell’epoca, Città Anarres accoglieva già centomila persone ed era stata ribattezzata Abbenay, che significava, nella nuova lingua della nuova società, “La Mente”.

Il decentramento era stato un elemento essenziale nei progetti di Odo per la società che lei non poté mai vedere. Lei non aveva avuto intenzione di deurbanizzare la società. Anche se aveva suggerito che il limite naturale delle dimensioni di una comunità stava nella dipendenza dalla regione immediatamente circostante per ottenere cibo e l’energia che le erano indispensabili, lei pensava che tutte le comunità dovessero essere collegate da reti di comunicazione e di trasporto, in modo che le merci e le idee potessero accorrere dov’erano richieste, l’amministrazione potesse operare con semplicità e velocità, e tutte le comunità potessero giovarsi degli scambi reciproci. Ma la rete non doveva essere diretta dall’alto. Non ci doveva essere nessun centro di controllo, nessuna capitale, nessuna sede in cui potesse instaurarsi il meccanismo autoriproducentesi della burocrazia e potesse stabilirsi l’impulso di dominio di individui che cercassero di diventare capitani, comandanti, capi di stato.

I piani di Odo, tuttavia, si erano basati sulla terra generosa di Urras. Sull’arida Anarres le comunità dovettero distribuirsi a larghi intervalli per trovare le risorse naturali, e poche tra queste risultarono autosufficienti, indipendentemente dal limite a cui facessero retrocedere il loro concetto di ciò che è sufficiente al sostentamento. Lo ridussero in modo davvero drastico, ma raggiunsero un limite al di sotto del quale non erano disposte ad andare: non volevano regredire al tribalismo preurbano, pretecnologico. I Coloni sapevano che la loro anarchia era il prodotto di una civiltà molto sofisticata, di una cultura complessa e differenziata, di un’economia stabile e di una tecnologia altamente industrializzata che potevano mantenere una forte produzione e un rapido trasporto delle merci. Per quanto vaste fossero le distanze tra loro, gli insediamenti si attennero agli ideali dell’organicismo complesso. Costruirono per prime le strade, per seconde le case. Le risorse e le produzioni di ogni particolare regione venivano scambiate continuamente con quelle di altre regioni, in un processo complicato di equilibri: l’equilibrio di differenze che è caratteristico della vita, dell’ecologia naturale e sociale.

Ma come si diceva nel modello analogico, non si può avere un sistema nervoso senza avere almeno un ganglio, e preferibilmente un cervello. Occorreva che ci fosse un centro. I computer che coordinavano l’amministrazione, la divisione del lavoro, la distribuzione delle merci e le federative centrali dei principali gruppi di lavoro furono sistemati in Abbenay, fin dall’inizio. E fin dall’inizio i Coloni furon o consapevoli del fatto che quell’inevitabile centralizzazione costituiva una minaccia costante, che andava rintuzzata mediante una costante vigilanza.

 

O bimba Anarchia, infinita promessa,

Infinita attenzione. Io ascolto, ascolto nella notte

Accanto alla cuna profonda mentre la notte

È gentile con la bimba.

 

Pio Atean, che prese il nome pravico di Tober, scrisse questi versi nel quattordicesimo anno dell’Insediamento. I primi tentativi degli Odoniani per trasformare il loro nuovo linguaggio, il loro nuovo mondo, in poesia, furono rigidi, sgraziati, commoventi.

 

 

***

 

Ernst Bloch, The Principle of Hope (vol. I)

It is a question of learning hope. Its work does not renounce, it is in love with success rather than failure. Hope, superior to fear, is neither passive like the latter, nor locked into nothingness. The emotion of hope goes out of itself, makes people broad instead of confining them, cannot know nearly enough of what it is that makes them inwardly aimed, of what may be allied to them outwardly. The work of this emotion requires people who throw themselves actively into what is becoming, to which they themselves belong.

 

***

 

Sopravvivere non è sufficiente è una serie di uscite che raccoglie brani letterari sulla fine del mondo e la pandemia – dall’aggettivo greco πανδήμιος: “che riguarda tutti” – che costituiscono il punto di partenza di nuove riflessioni sul presente. Questa è la sua decima e ultima puntata.

Puntate precedenti: la prima con Mary Shelley, Guido Morselli e Emily St. John Mandel; la seconda, con Camille Flammarion, Joanna Russ e Jack London; la terza con Kurt Vonnegut, Colson Whitehead e Naomi Alderman; la quarta con Matthew P. Shiel e H.G.Wells; la quinta con Margaret Atwood; la sesta con Pat Murphy e Octavia E. Butler; la settima con Fredrich Brown, Fritz Leiber e Italo Calvino; l’ottava con Richard Matheson e Howard Fast; la nona con J.G. Ballard e Phyllis Dorothy James. 

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