Un’enciclopedia della fine: leggere il contemporaneo attraverso i racconti sulla fine del mondo
I
H.G. Wells, La guerra dei mondi (1898; minimum fax 2016, traduzione di Vincenzo Latronico)
Pochi istanti dopo mi ero inerpicato sul terrapieno, e dalla sommità potevo vedere il fondo del cratere.
Era uno spazio smisurato pieno di macchinari giganteschi, di enormi cataste di materie prime e di strani ripari. E sparsi qua e là – chi all’interno di una macchina da guerra ribaltata, chi in un manipolatore ormai irrigidito, e altri, una dozzina almeno, stesi nudi e immobili in una lunga fila – erano i marziani, morti!, uccisi e già mezzo putrefatti dai batteri per cui i loro organismi erano totalmente impreparati, sterminati come stava per essere sterminata la felce rossa; annientati, dopo il fallimento di tutti gli sforzi umani, dalla più umile creatura che il Signore nella sua saggezza ha posto sulla Terra.
Ecco cos’era accaduto – ciò che molti di noi, me incluso, avrebbero potuto prevedere se il terrore e i disastri non ci avessero accecato la mente. I germi insidiano l’essere umano sin dalla notte dei tempi, e già agli albori della vita riscuotevano un tributo di sangue dai nostri antenati preumani. Ma in virtù della selezione naturale la nostra specie ha sviluppato una capacità di resistenza; nessun batterio può sconfiggerci senza lottare, e a molti di essi – ad esempio, quelli che causano la putrefazione dei tessuti morti – i nostri organismi vivi sono completamente immuni. Ma non ci sono batteri su Marte, e non appena gli invasori sono arrivati, non appena hanno cominciato a nutrirsi, i nostri microscopici alleati hanno cominciato a lavorare alla loro disfatta. La prima volta che li ho visti erano già spacciati, e in tutti quei loro andirivieni stavano già morendo e marcendo lentamente. Era inevitabile. La specie umana ha pagato con un miliardo di morti il diritto di cittadinanza su questo pianeta, e nessun nuovo arrivato potrà strapparglielo. Quel diritto sarebbe rimasto suo anche se i marziani fossero stati dieci volte più potenti. Perché gli esseri umani non vivono e non muoiono invano.
I mostri erano sparpagliati a destra e a sinistra, una cinquantina in tutto, in quella vasta buca che si erano scavati, sconfitti da una morte che devono aver trovato assolutamente incomprensibile. E all’epoca sembrò incomprensibile anche a me. Sapevo solo che quelle creature per noi tanto terribili adesso erano morte. Per un attimo credetti che si fosse ripetuta la distruzione biblica di Sennacherib: il Signore si era pentito e aveva mandato l’angelo della morte a sterminarli nella notte.
Restai a fissare il cratere, col cuore sempre più leggero mentre i raggi del sole nascente incendiavano di luce il mondo tutt’intorno. Sul fondo ancora buio, quei poderosi macchinari, così prodigiosi per potenza e complessità, così alieni nelle loro sagome tortuose, si ergevano sfocati e assurdi nella penombra che via via schiariva. Sentivo i versi di una moltitudine di cani che si litigava i corpi abbandonati nella profondità delle tenebre sotto di me. Sul versante opposto vidi una misteriosa forma larga e piatta – la grande macchina volante che stavano sperimentando nella maggiore densità della nostra atmosfera prima che la putrescenza li fermasse. Non sarebbe mai stato troppo presto. Il richiamo gracchiante dei corvi mi fece alzare gli occhi sulla colossale macchina da guerra che non avrebbe più conosciuto guerra, sui brandelli di carne che pendevano sgocciolando dai suoi sedili rovesciati in cima a Primrose Hill. Mi voltai per abbracciare con lo sguardo il declivio su cui, cinti da un’aureola di uccelli, si ergevano gli altri due marziani che avevo visto nella notte, proprio nel punto in cui la morte li aveva stroncati. Uno era morto cercando di richiamare i compagni: forse era l’ultimo rimasto in vita, e la sua voce aveva continuato a risuonare fino a esaurire le energie del macchinario. Ora se ne stavano là sotto immobili, innocui treppiedi di metallo scintillante alla luce del sole.
Tutt’intorno al cratere, sopravvissuta come per miracolo alla distruzione totale, si stendeva la madre di ogni città. Chi ha visto Londra solo velata dal fumo delle ciminiere può a stento immaginare lo spoglio nitore e la bellezza di quella muta distesa di case. A est, oltre le rovine annerite di Albert Terrace e il campanile schiantato della chiesa, un sole accecante splendeva nel cielo sgombro, e qua e là una tegola in quel mare di tetti specchiava un raggio rifulgendo di un’intensa luce bianca.
[…]
Ad ogni modo, nuova invasione o no, la nostra immagine del futuro dell’umanità non può che risultare profondamente trasformata da questi eventi. Abbiamo scoperto che non possiamo considerare questo pianeta un rifugio sicuro per la specie umana, non saremo mai in grado di prevedere il bene o il male invisibile che può piombarci addosso dallo spazio. È possibile che nello schema generale dell’universo questa invasione alla lunga si riveli un bene: ci ha privati di quell’ingenua fiducia nel futuro che è la più prolifica fonte di decadenza, offrendo un contributo inestimabile al nostro progresso tecnologico e promuovendo l’idea di una causa comune dell’umanità. È possibile che i marziani, oltre l’immensità dello spazio, abbiano osservato le sorti dei loro pionieri e imparato la lezione, fondando infine una colonia più sicura su Venere. Comunque stiano le cose, è certo che per molti anni la nostra scrupolosissima osservazione della superficie di Marte non conoscerà un attimo di pace, e che le stelle cadenti che ogni tanto solcano il cielo come fulgide frecce non mancheranno di suscitare un timore irresistibile nei figli dell’uomo.
È difficile esagerare la profondità dell’ampliamento dei nostri orizzonti mentali prodotto da questa invasione. Prima dell’atterraggio del cilindro era convinzione generale che nelle profondità dello spazio non esistesse vita al di fuori della superficie del nostro striminzito pianeta. ora il nostro sguardo si spinge ben al di là. Se i marziani sono stati in grado di raggiungere Venere non c’è ragione per cui non dovremmo farcela anche noi, e quando il graduale raffreddamento del Sole renderà il nostro pianeta invivibile – e prima o poi accadrà – forse il filo della vita che abbiamo cominciato a tessere qui si allontanerà dalla Terra per avvolgere nelle proprie spire il pianeta vicino.
Nella mia mente ho oggi un’immagine pallida ma prodigiosa della lenta propagazione della vita dal piccolo terreno di coltura del sistema solare a tutta la vastità inanimata dello spazio siderale. Ma è solo un sogno distante. D’altro canto, può darsi che la sconfitta dei marziani sia solo una tregua. Forse quel futuro non sarà il nostro, ma il loro.
II
Matthew P. Shiel, La nube purpurea (1901; Mondadori 2020, traduzione di Davide De Boni)
E così è finita, buon Dio.
L’indomani, il 9 [aprile], di buon mattino, quando le ho augurato il buongiorno al telefono, lei ha risposto a sua volta: “Buongiorno” e non ha aggiunto altro. Allora le ho detto di aver rotto il serbatoio del mio narghilè, e di avere intenzione di ripararlo. Non mi ha risposto.
“Ci sei?” le ho domandato.
“Sì”.
“Allora perché non mi rispondi?”
“Dove sei stato ieri?”
“Ho fatto un giro intorno alla baia” ho mentito.
Silenzio per tre minuti; dopodiché mi ha chiesto: “Qual è il problema?”.
“Problema? Nessuno!”
“Dimmelo!” ha sbottato, con una rabbia e un’intensità tali da farmi rabbrividire.
“Non c’è nulla da dire, Leda!”
“Come puoi essere così crudele con me?” ha gridato, e quanta angoscia c’era nella sua voce! “Mi nascondi qualcosa, lo so! Lo sento fin troppo bene dal tuo tono di voce!”
Allora ho pensato che il giorno seguente mi avrebbe chiamato e non avrebbe ricevuto alcuna risposta; e avrebbe richiamato ancora e ancora, per tutto il giorno; mi avrebbe richiamato per sempre, con lunghi capelli bianchi scossi dal vento e gli occhi strabuzzati di una matta, biascicando rimproveri a Dio e ricevendo in risposta soltanto un silenzio eterno dall’universo. Mosso a compassione da questo pensiero, non ho potuto fare a meno di singhiozzare: “Che Dio abbia pietà di te, donna!”.
Non so se mi abbia sentito: suppongo di sì, ma non ha risposto. Sono rimasto lì in piedi a tremare come un morto avvolto nel proprio sudario, in attesa della prossima parola che avrebbe pronunciato, temendo la sua voce e sperando di udirla, pensando che se mi avesse parlato e l’avessi sentita piangere sarei morto dov’ero, o mi sarei morso la lingua fino a mozzarmela. Quando finalmente ha riaperto bocca, però, la sua voce era perfettamente ferma e calma.
“Sei ancora lì?” mi ha chiesto.
“Sì Leda: sono ancora qui”.
“Di che colore era la nube velenosa che ha distrutto il mondo?”
“Porpora, Leda. Era una nube purpurea.”
“E odorava di mandorle e fiore di pesco, giusto?”
“Sì, proprio così.”
“Allora” ha detto lentamente, “sta arrivando di nuovo. Sento quell’odore di continuo, mi arriva a folate… E c’è un vapore purpureo a est, che arde e avanza… Prova a vedere se riesci a scorgerlo…”
Ho attraversato la stanza di corsa fino a una finestra affacciata a est e ho sollevato il vetro sudicio per guardare, ma l’unica cosa che si vedeva era la parete di mattoni di un enorme magazzino. Ho afferrato di nuovo il telefono, le ho detto di aspettare e mi sono precipitato giù per le scale, uscendo in strada e mettendomi a correre in cerca di un punto dal quale osservare l’orizzonte. Ho raggiunto il molo e mi sono spinto fino all’estremità del pontile, a corto di fiato, quindi ho lasciato spaziare lo sguardo. Il cielo mattutino era completamente sgombro, fatta eccezione per un modesto banco di nuvole a nordovest, e il sole splendeva immerso nel suo pallore azzurro. Così sono tornato indietro.
“Non riesco a vederla!” ho strillato al telefono.
“Allora non si è ancora spinta abbastanza a nordovest” ha dichiarato con convinzione.
“Devi fuggire! Tu sei mia moglie, adesso!”
“Dici davvero? Sono tua moglie, finalmente? Ma non sto per morire?”
“No! Devi fuggire! Sei la mia casa, il mio cuore! Dobbiamo stare insieme, anche solo per un’ora o due!”
“Ma come?”
“L’altra volta avanzava lentamente. Fa’ in fretta: prendi una delle imbarcazioni più piccole che trovi lungo il molo, ce n’è una sotto la gru che potrebbe fare al caso tuo… Prima, però, prendi un barile d’olio dal negozio accanto alla torre dell’orologio e versalo su tutto ciò che ti sembra arrugginito. Cerca solo di non perdere tempo: fallo per me! Per navigare dovrai usare la barra del timone e la bussola: ricordati che la ruota si gira nel senso opposto rispetto alla direzione in cui vuoi andare. Segui la rotta verso nordest, io ti verrò incontro…”
Ero pazzo di gioia. Ho pensato che finalmente l’avrei stretta fra le braccia e avrei avuto le sue lentiggini premute contro il viso, avrei sentito il sapore delle sue labbra carnose e avrei potuto piangere sul suo petto, chiamandola ‘moglie’. E anche quando ho capito che aveva lasciato il telefono, sono rimasto lì a chiamarla ancora con voce roca: “Moglie mia! Moglie mia!”.
Sono sceso di corsa al punto in cui avevo ormeggiato il battello sul quale avevo viaggiato il giorno prima. La sua velocità, sommata a quella dell’imbarcazione di Leda, avrebbe dovuto raggiungere i quaranta nodi: stando così le cose, ci saremmo dovuti incontrare nel giro di tre ore. Non temevo affatto che morisse senza riuscire a vederla, perché, lasciando da parte la lentezza con cui era avanzata la nube la prima volta, pregustavo il mio amore e avevo piena fiducia in esso, allo stesso modo in cui i santi morenti pregustavano e si fidavano della vita eterna.
Sono salito a bordo della Stettin e ho subito spinto i motori al massimo della loro capacità. Il giorno precedente, mentre navigavo, mi era sembrata davvero fin troppo probabile l’eventualità di saltare in aria in un’esplosione provocata dalle sue vecchie caldaie arrugginite; quel giorno, invece, un’idea simile non mi è mai passata per la testa perché sapevo bene che finché non l’avessi vista sarei stato immortale. Il mare non era soltanto perfettamente piatto, ma placido, come il giorno prima; solo che sembrava molto più tranquillo, e il sole pareva essere più luminoso, e nel vento c’era una leggerezza che increspava il mare in fuggevoli macchie scure, come brividi di solletico. Ho pensato che quella era una vera e propria giornata di matrimonio, e mi sono ricordato che era domenica. Alle nostre nozze non sarebbero mancati dolci effluvi di mandorla e di pesca, anche se guardando verso est non riuscivo a scorgere la minima traccia di una nube purpurea, ma soltanto stracci di chiffon appesi sotto il sole. Sarebbe stato un matrimonio eterno, perché un singolo giorno sarebbe apparso ai nostri occhi lungo quanto un migliaio di anni, e i nostri mille anni di beatitudine non sarebbero durati che un solo giorno, e al crepuscolo di tutta quell’eternità sarebbe giunta la morte a stendere con delicatezza le proprie dita su di noi per abbassare le nostre palpebre languide, e saremmo morti stanchi di tutta quella beatitudine. Passando di corsa davanti alla sala nautica per raggiungere il timone, ho visto sotto il tavolo un mucchio di vecchie bandiere arrotolate e pochi minuti dopo sventolavano tutte insieme in un lungo arco appese all’albero maestro. Il mare si sgualciva in schiuma lattea al mio passaggio, e io mi affrettavo verso casa per incontrare il mio cuore.
Ho continuato a filare verso sud per due ore, ma non ho visto nessuna nube purpurea, a mezzogiorno, però, ho intravisto attraverso la lente del cannocchiale qualcosa muoversi nella mia direzione, ed era Leda che mi veniva incontro, aria fresca per la mia anima.
Ho fatto rotta verso di lei, agitando le braccia, e ben presto l’ho vista ergersi a prua come un vecchio marinaio, accanto alla ruota del timone sul ponte, ma avvolta in un fluttuare di mussole candide, con qualcosa di piccolo e bianco tra le mani. Ci siamo avvicinati finché non ho potuto vedere la sua faccia e il suo sorriso, e in quel momento le ho urlato di fermarsi e mi sono bloccato a mia volta, facendo accostare il mio battello al suo con un debole contraccolpo; dopodiché sono sceso di corsa dalla scaletta e l’ho accompagnata a bordo. Sul ponte, senza dire una parola, sono caduto in ginocchio di fronte a lei e ho appoggiato la fronte sul pavimento con riverenza, adorandola come fosse il Paradiso.
Eravamo sposati, ora, perché anche lei si è messa in ginocchio accanto a me, sotto quel cielo azzurro e gioviale; e sotto i suoi occhi c’erano piccoli semicerchi umidi di fatica sognante e pensierosa che la facevano somigliare a una sposa. Anche Dio era in nostra compagnia e l’ha visto inginocchiarsi: perché Lui ama la ragazza.
Poi ho separato le due imbarcazioni e le ho lasciate là, divise da pochi metri di mare per tutto il giorno. Io e lei ci siamo messi nella cabina del ponte principale, che ho subito chiuso a chiave, affinché nessuno entrasse con me e il mio amore.
Le ho detto: “Fuggiremo a ovest, verso una delle miniere di carbone del Somerset, oppure verso una miniera di stagno in Cornovaglia e ci barricheremo in qualche pozzo per non essere raggiunti dalla nube, portando con noi provviste per sei mesi: dopotutto, è perfettamente fattibile, inoltre abbiamo abbastanza tempo a disposizione e non sono rimaste folle ad abbattere le barricate. Laggiù, sottoterra, vivremo dolcemente insieme finché il pericolo non sarà passato”.
Lei ha sorriso, mi ha accarezzato il viso e ha replicato: “Non hai fede nel mio Dio? Credi davvero che mi avrebbe lasciata morire?”.
Si era ormai impossessata del dio onnipotente, rivolgendosi a Lui chiamandolo ‘il mio Dio’: un’impudenza, alla luce del fatto che in genere sa quel che dice.
Mentre scrivo, a tre settimane di distanza, ci troviamo in una piccola località chiamata Château-les-Roses: non è mai arrivata nessuna nube velenosa, tantomeno alcun segno di essa. Una cosa che non riesco a capire.
Può darsi che abbia intuito che stavo per togliermi la vita, potrebbe addirittura esserne capace… ma no, non credo sia andata così, e probabilmente non glielo chiederò mai.
Ma una cosa l’ho capita: è il Bianco a comandare, qui, e nonostante abbia vinto per un pelo, ha comunque vinto.
Spero in una specie che somigli a sua Madre: acuta d’ingegno, dalla mente aperta, devota… proprio come lei, interamente umana, ambidestra, agile di pensiero… E se, come lei, parlerà trasformando tutte le “r” in “l” non mi importerà.
Saranno vegetariani, immagino, quando tutta la carne rimasta si esaurirà, ma d’altro canto non è detto che la carne faccia davvero bene all’uomo, e in ogni caso se la riterranno buona potranno pur sempre inventarla: perché saranno i suoi figli, e lei, lo giuro, è onnisciente fino all’ultimo ciclo intorno al quale la mente umana è in grado di orbitare.
Una volta c’era stato un pastore, uno scozzese di nome Macintosh, o qualcosa del genere, che aveva detto che la fine ultima dell’Uomo sarebbe avvenuta nel bene, nel massimo bene; lei afferma la stessa cosa, e dal mio punto di vista questa concordanza tra loro due rende il concetto di Verità. E a questa io dico: amen.
Sopravvivere non è sufficiente è una serie di uscite che raccoglie brani letterari sulla fine del mondo e la pandemia – dall’aggettivo greco πανδήμιος: “che riguarda tutti” – che costituiscono il punto di partenza di nuove riflessioni sul presente.
Puntate precedenti: la prima con Mary Shelley, Guido Morselli e Emily St. John Mandel; la seconda, con Camille Flammarion, Joanna Russ e Jack London; la terza con Kurt Vonnegut, Colson Whitehead e Naomi Alderman.