Sopravvivere non è sufficiente IX

Leggere il contemporaneo attraverso i racconti sulla fine del mondo

Sopravvivere non è sufficiente
La jetée, Chris Marker (1962)

 

I

 

J.G. Ballard, Il mondo sommerso/Deserto d’acqua (1962; Feltrinelli 2005, traduzione di Stefano Massaron)

Forse era l’assenza di ricordi che rendeva Kerans indifferente allo spettacolo di quella civiltà semisommersa. Era nato e cresciuto entro quello che una volta era noto come il Circolo Polare Artico, ora trasformato in una zona subtropicale, con una temperatura media annua di venticinque gradi, ed era andato a sud, per la prima volta, al seguito di una spedizione di ricerca ecologica, quando aveva già più di trent’anni. Le vaste paludi e le giungle erano state un laboratorio fantastico, le città sommerse poco più che piedistalli elaborati.

Tranne poche persone di una certa età, come Bodkin, non c’era nessuno che ricordasse di avervi abitato. Anche durante l’infanzia di Bodkin le città erano state simili a rocche assediate, rinchiuse entro enormi dighe e sgretolate dal panico e dalla disperazione, come mille Venezie riluttanti al matrimonio col mare. Il fascino e la bellezza era tutto nella loro desolazione, nello strano incontro di due estremi in natura, come una corona buttata via e ricoperta di orchidee selvagge.

La successione di giganteschi sommovimenti geofisici che avevano trasformato il clima della Terra aveva avuto inizio sessanta o settant’anni prima. Una serie di violente tempeste solari durate parecchi anni, provocate da una improvvisa instabilità del sole, aveva allargato le cinture di Van Alien e aveva diminuito l’attrazione gravitazionale della Terra sugli strati esterni della ionosfera. Man mano che questi svanivano nello spazio, assottigliando la barriera della Terra contro le radiazioni solari, la temperatura aveva cominciato a salire regolarmente; l’atmosfera riscaldata si espandeva all’esterno, nella ionosfera, dove il ciclo si completava.

In tutto il mondo, la temperatura media aumentava di qualche grado ogni anno. La maggior parte della fascia tropicale era diventata rapidamente inabitabile, e interi popoli avevano cominciato a emigrare a nord o a sud per sfuggire temperature di cinquanta o cinquantacinque gradi. Zone una volta temperate, erano diventate tropicali. L’Europa e il Nord America erano oppressi da continue ondate di caldo, mentre la temperatura raramente scendeva sotto i trentacinque gradi. Sotto la direzione delle Nazioni Unite, si era incominciato a colonizzare l’Antartico e le coste settentrionali del Canada e della Russia.

Durante questo periodo iniziale di vent’anni, si era verificato un graduale adattamento per resistere alle trasformazioni climatiche. Il ritmo della vita inevitabilmente si era rallentato e rimaneva ben poca energia per combattere l’avanzata della giungla nelle regioni equatoriali. Non solo la crescita di tutte le forme vegetali era accelerata, ma il più alto livello di radioattività aumentava il ritmo a cui avvenivano le mutazioni. Erano apparse le prime strane forme botaniche, che richiamavano le gigantesche felci arboree del periodo Carbonifero, e si era determinato un eccezionale progresso di tutte le forme inferiori di vita vegetale e animale.

L’apparizione di questi sintomi era stata seguita da un secondo sconvolgimento geofisico. Il riscaldamento continuo dell’atmosfera aveva provocato la fusione delle calotte polari. I mari di ghiaccio dell’Antartico si erano spezzati e sciolti: decine di migliaia di ghiacciai intorno al circolo Artico, in Groenlandia e nel Nord Europa, in Russia e nel Nord America, si erano riversati nel mare, mentre un milione di metri cubi di ghiacci perenni si erano liquefatti in fiumi giganteschi.

In realtà l’aumento del livello dell’acqua in tutto il globo sarebbe stato di pochi metri, ma i giganteschi torrenti di disgelo avevano portato con sé miliardi di tonnellate di sedimenti. Enormi delta si erano formati al loro sbocco, estendendo la costa dei continenti e creando dighe intorno agli oceani. L’effettiva estensione di questi si ridusse da due terzi della superficie totale a poco più della metà.

Spingendo avanti i sedimenti sommersi, i nuovi mari avevano completamente cambiato la forma e i contorni dei continenti. Il Mediterraneo si era ridotto a un sistema di laghi interni, la Gran Bretagna si era di nuovo unita alla Francia settentrionale. Il centro degli Stati Uniti, riempito dal Mississippi che trascinava a valle i fianchi delle Montagne Rocciose, era diventato un enorme golfo che si apriva sulla baia di Hudson, mentre il mare dei Caraibi si era trasformato in un deserto di sale. L’Europa era diventata un sistema di gigantesche lagune che avevano sommerso le principali città di pianura, divise tra loro da argini formati da sedimenti trasportati a valle dai fiumi in espansione.

Durante i trent’anni successivi era continuata l’emigrazione dei popoli verso i poli. Poche città avevano sfidato l’aumentato livello dell’acqua e l’avanzata della giungla, costruendo elaborati muraglioni contro il mare intorno al loro perimetro, ma uno alla volta, anche i muraglioni avevano ceduto. Solo entro i circoli Artico e Antartico la vita era tollerabile. L’inclinazione dei raggi del sole su queste zone aveva costituito uno schermo contro le radiazioni più potenti. Le città che sorgevano sulle montagne equatoriali erano state abbandonate nonostante la loro temperatura più fresca, a causa della minore protezione atmosferica.

Era stato quest’ultimo fenomeno a fornire la soluzione al problema di sistemare le popolazioni migranti della nuova terra. La continua decadenza della fertilità dei mammiferi e l’aumento costante delle forme di vita anfibia e dei rettili, più adatti alla vita acquatica nelle lagune e nelle paludi, aveva invertito l’equilibrio ecologico, e al tempo della nascita di Kerans a Camp Byrd, una città di diecimila abitanti nella Groenlandia settentrionale, si calcolava che sulle calotte polari vivessero ormai solo poco più di cinque milioni di uomini.

La nascita di un bambino era diventata una rarità, e solo una coppia su dieci aveva un figlio. Come notava talvolta Kerans, l’albero genealogico della vita umana si stava sistematicamente potando da solo, spostandosi all’indietro nel tempo. Alla fine, sarebbe venuto il momento in cui un secondo Adamo e una seconda Eva si sarebbero trovati soli in un nuovo Paradiso Terrestre.

Riggs vide Kerans sorridere fra sé a quest’idea.

“Che cosa vi diverte, Robert? Un altro dei vostri scherzi incomprensibili?”

“Mi stavo solo impersonando in un nuovo ruolo.” Kerans guardò, oltre la ringhiera, gli edifici che sfilavano a sei metri di distanza, mentre le onde della prua si rompevano contro le finestre aperte sul pelo dell’acqua. L’odore pungente del fango umido contrastava con i profumi troppo dolci della vegetazione. Macready aveva diretto la barca all’ombra di un palazzo, e la temperatura era molto più sopportabile.

Dall’altro lato della laguna si vedeva la figura imponente del dottor Bodkin, sulla prua del laboratorio, a torso nudo e con addosso un paio di calzoncini e una visiera di celluloide verde, fissata sulla fronte, che lo faceva sembrare un battelliere del Mississippi in vacanza. Stava raccogliendo bacche grosse come arance dalle felci che sporgevano sul battello, e le gettava in alto, a uno stuolo di scimmie chiassose appese ai rami, eccitandole con grida e fischi. Venti metri più in là, su un cornicione, tre iguane osservavano con fredda disapprovazione, muovendo impazienti la coda a destra e a sinistra.

Macready girò il timone, e il battello scartò a destra, alzando un ventaglio di schiuma. L’imbarcazione si fermò al riparo di un alto edificio bianco che emergeva per venti piani. Il tetto di un edificio vicino, più basso, serviva da pontone, e a questo era attraccato un motoscafo arrugginito dalla chiglia bianca. Il parabrezza del battello era tutto screpolato e macchiato, e dai tubi di scappamento colava nell’acqua olio sporco.

Mentre il motoscafo guidato dalla mano esperta di Macready si accostava al barcone, Kerans e Riggs si arrampicarono fino alla porta di rete metallica, saltarono sul pontone e traversarono la stretta passerella di metallo che conduceva nel grattacielo. Le pareti del corridoio erano viscide di umidità, con grandi macchie di muffa abbarbicate allo stucco, ma l’ascensore funzionava ancora grazie a un motore Diesel di emergenza. I due salirono lentamente verso il tetto e si fermarono all’altezza dell’attico, quindi si mossero lungo un corridoio che portava al terrazzo.

Al piano di sotto c’era una piccola piscina in mezzo a un patio; alcune sedie a sdraio dai colori brillanti erano disposte all’ombra, vicino al trampolino. Tende alla veneziana gialle proteggevano le finestre su tre lati della piscina, ma, attraverso le fessure, si poteva vedere la fresca penombra del salotto e lo scintillio dei cristalli intagliati e dell’argenteria sui tavolini. Nella mezza luce sotto la tenda a strisce blu in fondo al portico, appariva un lungo banco cromato, invitante come un bar con l’aria condizionata visto da una strada polverosa; bicchieri e caraffe si riflettevano in uno specchio a rombi. In quel paradiso privato, ogni cosa sembrava pulita e discreta, migliaia di chilometri lontano dalla vegetazione piena di insetti e dall’acqua tiepida della laguna, un mondo che in realtà era venti piani più in basso.

Oltre il lato opposto della piscina, schermata da una ringhiera ornamentale, si stendeva un ampio panorama di laguna, con la città che emergeva dalla giungla, mentre distese di acqua argentea si perdevano nella nebbia verdastra dell’orizzonte. Quasi a pelo dell’acqua, apparivano i dorsi dei banchi di sedimenti, ricoperti da una peluria giallastra che indicava il primo apparire delle macchie di bambù giganti.

L’elicottero si alzò dalla piattaforma sul tetto della base e si diresse verso di loro, muovendo la coda a seconda dei cambiamenti di direzione, passò sulle loro teste con un rombo, mentre due uomini nella carlinga aperta esaminavano i tetti degli edifici con i binocoli.

Beatrice Dahl era distesa su una sedia a sdraio. Con il corpo snello spalmato di crema, lucido nell’ombra, sembrava un pitone addormentato. Le dita di una mano con le unghie dipinte toccavano leggermente un bicchiere pieno di ghiaccio, appoggiato sulla tavola accanto a lei, mentre l’altra mano sfogliava le pagine di una rivista. Grandi occhiali da sole le nascondevano il volto morbido, ma Kerans notò l’espressione caparbia del labbro inferiore. Probabilmente Riggs l’aveva seccata, cercando di imporle la logica dei suoi argomenti.

Il colonnello si fermò e si appoggiò alla ringhiera. Guardò il corpo bellissimo con palese approvazione. Accortasi della sua presenza, Beatrice si tolse gli occhiali e si riannodò il reggiseno dietro le spalle. I suoi occhi ebbero un lieve bagliore.

“Avanti, voi due. Non è uno spettacolo di spogliarello.”

Riggs ridacchiò e scese la scaletta di metallo, mentre Kerans lo seguiva chiedendosi come avrebbe fatto a persuadere Beatrice a lasciare il suo santuario privato.

“Mia cara signorina Dhal, dovreste essere onorata del fatto che io continui a venirvi a trovare” le disse Riggs, sollevando la tenda e sedendo su una sedia. “Inoltre, in qualità di governatore militare di questa zona” a questo punto ammirò scherzosamente a Kerans “ho delle responsabilità nei vostri confronti. E viceversa.”

Beatrice gli rivolse una breve occhiata, poi allungò la mano per alzare il volume della radio. “Santo cielo…” borbottò qualche altra imprecazione meno educata, e alzò gli occhi verso Kerans.

“E tu, Robert? Come mai sei qui così presto?”

Kerans si strinse nelle spalle sorridendole amabilmente. “Mi mancavi.”

“Bravo. Avevo pensato che forse il nostro aguzzino ti avesse spaventato con una delle sue storie terrificanti.”

“E infatti c’è riuscito.” Kerans prese la rivista appoggiata al ginocchio di Beatrice e la sfogliò distrattamente. Era un numero di Vogue, vecchio di quarant’anni a guardare dalla pagine fredde, tenute in un locale refrigerato. Lo lasciò cadere sul pavimento di piastrelle verdi.

 

 

II

Phyllis Dorothy James, I figli degli uomini (1992; Mondadori 2001, traduzione di Annamaria Biavasco e Valentina Guani) 

 

Venerdì 1 gennaio 2021

Oggi, 1 gennaio 2021, tre minuti dopo mezzanotte, l’ultimo essere umano nato sulla terra è rimasto ucciso in una rissa in un bar di un sobborgo di Buenos Aires. Aveva venticinque anni, due mesi e dodici giorni. Stando alle prime notizie trapelate sull’incidente, Joseph Ricardo è morto come era vissuto. La particolarità, se così la si può chiamare, di essere stato l’ultimo uomo che risulta nato all’anagrafe, pur prescindendo da qualsiasi virtù o dote personale, rappresentò sempre una difficoltà per lui. Ora è morto. La notizia è stata diffusa qui in Gran Bretagna al giornale radio delle nove e io l’ho sentita per caso. Mi apprestavo a iniziare questo diario della seconda metà della mia vita quando, accorgendomi dell’ora, pensai che tanto valeva ascoltare i titoli del giornale radio delle nove. La morte di Ricardo è stata annunciata per ultima e solo di sfuggita, poche frasi pronunciate senza enfasi dalla voce volutamente piatta del giornalista. Quando l’ho sentita, mi è parso un piccolo motivo in più per iniziare il diario proprio oggi, Capodanno e mio cinquantesimo compleanno. Da bambino questa particolarità mi piaceva, nonostante il fatto che, data la vicinanza tra il mio compleanno e Natale, ricevessi un unico regalo, che non sembrava mai molto più grande di quello che avrei ricevuto in ogni caso.

Mi chiedo se questi tre eventi (il Capodanno, il mio cinquantesimo compleanno e la morte di Ricardo), bastino a giustificare l’inaugurazione di un quaderno nuovo di zecca. Ma voglio essere perseverante, per opporre un’ulteriore piccola difesa personale contro l’accidia. Se non ci sarà nulla da dire, descriverò il nulla e poi, raggiunta la vecchiaia come la maggior parte di noi si aspetta, dal momento che siamo diventati molto abili nel prolungare la vita aprirò una delle tante scatole di fiammiferi della dispensa e accenderò il mio piccolo falò delle vanità. Non ho intenzione di lasciare questo diario a testimonianza degli ultimi anni di un uomo. Anche nei momenti di più acceso egocentrismo, non mi illudo al punto di credere che il diario di Theodore Faron, dottore in filosofia, docente al Merton College dell’Università di Oxford, studioso della storia del periodo vittoriano, divorziato, senza figli, solitario, degno di nota solo in quanto cugino di Xan Lyppiatt, dittatore e Governatore d’Inghilterra, possa essere di qualche interesse. Non c’è nessun bisogno di altri cenni personali. Gli Stati di tutto il mondo stanno preparando la loro testimonianza per posteri della cui possibile esistenza cerchiamo ancora occasionalmente di illuderci e per creature di altri pianeti che si trovino per qualche eventualità ad atterrare in questa landa verde e si domandino quale specie di vita senziente vi abbia un tempo abitato. Conserviamo libri e manoscritti, grandi dipinti, musica, strumenti e opere d’arte. Le più grandi biblioteche del mondo verranno oscurate e chiuse per sempre nel giro di quarant’anni al massimo. Gli edifici che saranno rimasti in piedi parleranno da sé. È poco probabile che la fragile pietra di Oxford sopravviva per più di un secolo o due. L’università sta già discutendo se valga o meno la pena di ristrutturare il fatiscente Sheldonian. Ma mi piace pensare che le mitiche creature atterreranno in piazza San Pietro ed entreranno nella basilica, silenziosa e riecheggiante sotto secoli di polvere. Si accorgeranno di trovarsi in quello che una volta era il più grande dei templi eretti dall’umanità a uno dei suoi tanti dei? Rimarranno incuriositi da quella divinità venerata con tanta pompa e splendore, si chiederanno il significato del suo simbolo onnipresente, al tempo stesso tanto semplice, composto da due bastoni incrociati, e coperto d’oro, tempestato di pietre preziose e di ornamenti? O forse i loro valori e i loro processi mentali saranno talmente diversi dai nostri che né timore né meraviglia li sfioreranno? Ma nonostante la scoperta nel 1997, mi pare che fosse di un pianeta in cui gli astronomi ritenevano possibile l’esistenza di qualche forma di vita, pochi di noi credono davvero alla loro venuta. Da qualche parte devono essere: non ha senso ritenere che nell’immensità dell’universo solo questa piccola stella sia in grado di ospitare e sviluppare forme di vita intelligente, ma noi non andremo da loro né essi verranno a noi.

Vent’anni or sono, quando il mondo si era già parzialmente convinto che la nostra specie avesse perduto per sempre il potere di riprodursi, la ricerca dell’ultima nascita nota nella specie umana divenne un’ossessione universale, motivo di orgoglio nazionale, competizione internazionale acerrima e crudele quanto inutile. Per essere valida, la nascita doveva essere stata registrata ufficialmente, con tanto di giorno e ora. Questo escludeva gran parte dell’umanità, di cui era noto il giorno, ma non l’ora; si ammetteva, pur senza sottolinearlo, che il risultato non sarebbe stato scientificamente esatto. Quasi certamente, infatti, in qualche giungla lontana, in qualche capanna primitiva, l’ultimo essere umano era furtivamente venuto alla luce in un mondo indifferente. Dopo mesi di ripetuti controlli, tuttavia, fu ufficialmente dichiarato ultimo nato della specie umana Joseph Ricardo, di razza mista, nato illegittimo in un ospedale di Buenos Aires il 19 ottobre 1995, alle tre e zero due. Una volta proclamato il risultato, egli rimase libero di sfruttare la propria celebrità quanto meglio gli riuscì, mentre il mondo, come rendendosi improvvisamente conto della futilità della cosa, rivolse altrove la propria attenzione. Ora che è morto, dubito che qualcuno vorrà riscattare dall’oblio gli altri candidati.

L’incombente estinzione della nostra specie e l’impossibilità di evitarla ci offendono e demoralizzano meno della nostra incapacità di scoprirne la causa. La scienza e la medicina occidentali non ci hanno preparati all’enormità e all’umiliazione di questo smacco. Vi sono state malattie difficili sia da diagnosticare sia da curare, una delle quali ha quasi spopolato due continenti prima di essere debellata, ma alla fine siamo sempre riusciti a spiegarne le cause. Abbiamo dato un nome ai virus e ai germi che tuttora ci affliggono, con grande mortificazione da parte nostra, dal momento che sembra un affronto personale che ci debbano colpire ancora oggi, come antichi nemici che tengono viva la battaglia e di tanto in tanto uccidono anche quando la loro vittoria è ormai assicurata. La scienza occidentale è stata il nostro dio. Dotata di molteplici poteri, ci ha preservato, confortato, curato, accudito, cibato e divertito e noi ci siamo sentiti liberi di criticarla e occasionalmente di rifiutarla, come da sempre l’uomo ha fatto con gli dei, ben sapendo che, nonostante l’apostasia, questa divinità, creatura nostra e nostra schiava, avrebbe continuato a prendersi cura di noi con anestetici contro il dolore, trapianti di cuori e polmoni, antibiotici, cinema e cinematica. La luce si accende sempre quando premiamo l’interruttore e, se non funziona, sappiamo sempre spiegare perché. La scienza non è mai stata il mio pane: ne capivo poco a scuola e continuo a capirne poco adesso che ho cinquant’anni. Ma è stata un dio anche per me, che pure non ne ho mai compreso appieno le conquiste, e provo anch’io la disillusione universale di chi assiste alla morte del proprio dio. Ricordo bene il tono sicuro di un biologo quando fu definitivamente accertato che non esisteva una sola donna incinta in tutto il mondo: «Ci vorrà del tempo per scoprire la causa di questa apparente sterilità universale». Sono trascorsi venticinque anni e nessuno ci crede più. Come libertini improvvisamente scopertisi impotenti, proviamo un’umiliazione profonda, abbiamo perso fiducia in noi stessi. Con tutta la nostra sapienza, intelligenza e potenza, non sappiamo più fare quel che gli animali fanno senza pensare. Non c’è da sorprendersi dunque che li adoriamo e li odiamo al tempo stesso.

Il 1995 divenne noto come l’Anno Omega, termine ormai universale. Alla fine degli anni Novanta tutti si chiedevano se il Paese che fosse riuscito a trovare un rimedio contro la sterilità universale l’avrebbe condiviso con le altre nazioni e su quali basi. Si convenne che, trattandosi di un disastro globale, il mondo doveva essere unito nell’affrontarlo. Alla fine degli anni Novanta si parlava ancora di Omega come di una malattia, una disfunzione che con il tempo sarebbe stata diagnosticata e corretta, così come era stata trovata la cura per la tubercolosi, la difterite, la polio e perfino, anche se troppo tardi, per l’Aids. Con il passare degli anni, dato che gli sforzi condotti sotto l’egida delle Nazioni Unite non sortivano alcun risultato, la decisione di mantenere un’apertura totale venne meno, la ricerca proseguì segretamente e gli sforzi dei diversi Stati vennero seguiti con profondo e sospettoso interesse. La Comunità Europea si muoveva di concerto, mettendo insieme strutture e ricercatori. Il Centro Europeo per la Fertilità Umana appena fuori Parigi era tra i più prestigiosi del mondo. Cooperava, almeno ufficialmente, con gli Stati Uniti, dove l’impegno era forse ancora maggiore, ma non c’era collaborazione fra le diverse razze: la posta in palio era troppo alta. Sui termini per l’eventuale divulgazione del segreto si scatenò un acceso dibattito e si formularono diverse teorie. Era opinione comune che, se si fosse trovata una cura, essa sarebbe stata divulgata: si sarebbe infatti trattato di una scoperta scientifica che nessuna razza doveva né poteva tenere per sé per un tempo illimitato. Tuttavia ci si guardava con sospetto ossessivo da un continente all’altro, oltre i confini fra nazioni e fra razze, prestando fede a ipotesi e voci. Tornò in auge la vecchia arte dello spionaggio e i vecchi agenti segreti uscirono dai confortevoli gusci nei quali si erano ritirati a Weybridge e Cheltenham per trasmettere alle nuove leve il loro mestiere. Lo spionaggio naturalmente non era mai cessato del tutto, neppure dopo la fine ufficiale della Guerra Fredda nel 1991. L’uomo è troppo assuefatto a questa affascinante miscela di pirateria adolescenziale e di matura perfidia per abbandonarla del tutto. Sul finire degli anni Novanta la burocrazia dello spionaggio rifiorì come non succedeva dalla fine della Guerra Fredda, generando nuovi eroi, nuovi nemici e nuovi miti. L’attenzione era rivolta in particolare al Giappone, nel timore che quel popolo tecnicamente tanto avanzato potesse essere sulla buona strada.

A distanza di anni l’attenzione è sempre viva, ma l’ansia si è placata ed è svanita ogni speranza. Si continua a spiare, ma ormai sono trascorsi venticinque anni dall’ultima nascita e sono pochi a credere ancora che sul nostro pianeta risuonerà mai più il pianto di un neonato. Il sesso ci interessa sempre meno. L’amore romantico e platonico ha preso il sopravvento sul bieco appagamento dei sensi, nonostante gli sforzi del Governatore d’Inghilterra per mantenere vivi gli appetiti sempre più languidi della gente con i pornoshop statali. Abbiamo i nostri surrogati, passati a tutti i cittadini dal servizio sanitario nazionale. I nostri corpi segnati dagli anni vengono stimolati, massaggiati, accarezzati, stirati, cosparsi di unguenti profumati: veniamo misurati, pesati, sottoposti a manicure e pedicure. Lady Margaret Hall è diventato il centro massaggi di Oxford e ogni martedì pomeriggio anch’io vado a sdraiarmi su un lettino e guardo i giardini tuttora ben curati all’esterno, mentre mi godo l’ora di misurate attenzioni sensuali che mi passa lo Stato. Con quale assiduità, con quale impegno ossessivo ci sforziamo di mantenere viva l’illusione, se non di gioventù, almeno di spumeggiante mezza età. Il golf è diventato lo sport nazionale. Prima di Omega, gli ambientalisti avrebbero protestato per i vasti appezzamenti di terreno, tra i più belli che ci circondano, che sono stati trasformati e modificati al fine di ottenere campi più movimentati. Sono tutti gratuiti, fanno parte dei piaceri promessi dal Governatore. Alcuni sono esclusivi e rifiutano di ammettere soci indesiderati, non attraverso proibizioni che sarebbero illegali, ma grazie a quei sotterranei messaggi discriminanti che anche gli inglesi più insensibili imparano a recepire sin dalla primissima infanzia. Abbiamo bisogno di un certo snobismo: quello dell’eguaglianza è un principio della teoria politica che non trova applicazione pratica neppure nella Gran Bretagna egualitaria di Xan. Ho provato a giocare a golf una volta, ma l’ho trovato subito decisamente poco interessante, forse a causa della mia tendenza a sollevare zolle di terra invece della pallina. Preferisco la corsa. Ogni giorno macino chilometri a Port Meadow o lungo i sentieri solitari di Wytham Wood, misurando poi battito cardiaco, perdita di peso e resistenza. Ho voglia di vivere come tutti e, come tutti, controllo ossessivamente le funzioni del mio corpo.

Questi atteggiamenti risalgono per lo più all’inizio degli anni Novanta, con l’interesse per la medicina alternativa, gli olì profumati, i massaggi e gli unguenti, il sesso senza penetrazione. La pornografia e la violenza sessuale al cinema, alla televisione, nei libri e nella vita aumentavano e diventavano più espliciti, ma in Occidente la gente faceva sempre meno l’amore e sempre meno bambini. All’inizio tale tendenza fu bene accolta in un mondo altamente sovrappopolato. Come storico, faccio risalire a quel periodo l’inizio della fine.

Avremmo dovuto captare i primi segni d’allarme all’inizio degli anni Novanta. Già nel 1991 un rapporto della Comunità Europea segnalava un forte calo della natalità in Europa: 8,2 milioni di nati nel 1990, con picchi negativi nei Paesi di religione cattolica. Pensavamo di conoscerne le ragioni, credevamo che fosse un calo volontario, frutto di una maggiore apertura verso contraccezione e aborto, della scelta da parte delle donne di rimandare la maternità per motivi professionali e del desiderio da parte delle famiglie di innalzare il proprio standard di vita. Il calo demografico era inoltre aggravato dalla diffusione dell’Aids, soprattutto in Africa. Alcuni Paesi europei iniziarono a promuovere campagne capillari per l’aumento della natalità, ma la maggior parte di noi riteneva tale calo auspicabile, se non addirittura necessario. Eravamo in troppi: stavamo inquinando il pianeta e la diminuzione delle nascite era un fatto positivo. La preoccupazione non nasceva tanto dal calo demografico in sé e per sé, quanto dal desiderio di ogni Paese di salvaguardare la propria popolazione, la propria cultura, la propria razza, di avere un ricambio generazionale sufficiente per mantenere il controllo delle proprie strutture economiche. Ma, per quanto ricordo, nessuno avanzò mai l’ipotesi che la fertilità dell’uomo si stesse irrimediabilmente modificando. Omega giunse di colpo, e fu accolto con profonda incredulità. Sembrò che la razza umana avesse perso il potere di riprodursi da un giorno all’altro. La scoperta, avvenuta nel luglio del 1994, che perfino lo sperma umano congelato per esperimenti e inseminazione artificiale aveva perso ogni efficacia, suscitò un profondo orrore e conferì a Omega un’aura di superstizioso terrore, di incantesimo, di intervento divino. Gli dei dell’antichità erano riapparsi in tutta la loro terrificante potenza.

Il mondo non perse le speranze fino a quando la generazione nata nel 1995 non giunse alla maturità sessuale. Ma al termine dei controlli, accertato che nessuno di quei giovani era in grado di produrre sperma fertile, capimmo che si trattava davvero della fine dell’Homo sapiens. Fu in quell’anno, il 2008, che si registrò un’impennata nel numero dei suicidi. Non fra gli anziani, ma fra le persone di mezza età, della mia generazione, la generazione destinata a sopportare le esigenze umilianti ma inevitabili di una società sempre più vecchia e decrepita. Xan, che a quel tempo era già Governatore d’Inghilterra, tentò di porre un freno a quella che era ormai un’epidemia, imponendo una multa ai parenti più prossimi sopravvissuti, così come ora il Consiglio paga cospicue pensioni ai parenti degli anziani non più autosufficienti che si suicidano. La manovra sortì gli effetti sperati e il numero dei suicidi scese rispetto alle cifre record registrate in altre parti del mondo e soprattutto nei Paesi la cui religione si basava sul culto degli antenati e sulla continuazione della stirpe. I superstiti tuttavia si lasciarono andare a un negativismo universale, a ciò che i francesi chiamano ennui universel. Ci assalì insidioso come una malattia, perché in realtà di malattia si trattava, con sintomi che presto divennero familiari: stanchezza, depressione, malessere indefinito, tendenza a contrarre piccole infezioni, cefalea persistente e invalidante. La combattei, come molti altri. Alcuni, e Xan è fra questi, non ne sono mai stati afflitti, protetti forse dalla mancanza d’immaginazione o, nel caso specifico di mio cugino, da un egocentrismo così forte da risultare impermeabile a qualsiasi catastrofe esterna. Ogni tanto mi capita ancora di doverla combattere, ma la temo di meno. Le armi cui faccio ricorso sono anche le mie consolazioni: i libri, la musica, la buona cucina, il vino, la natura.

Queste soddisfazioni, questi palliativi, mi ricordano con un misto di amarezza e di piacere la precarietà dell’umana gioia; quando mai è stata duratura? Mi da ancora piacere, più intellettuale che sensuale, la primavera di Oxford in tutto il suo splendore: i fiori di Belbroughton Road che sembrano più belli ogni anno che passa, la luce del sole sui muri di pietra, gli ippocastani in fiore che ondeggiano nel vento, l’odore di un campo di fagioli, i primi fiocchi di neve, la fragile compattezza di un tulipano. Il piacere non è necessariamente meno intenso per il fatto che ci saranno centinaia di primavere sui cui fiori non si poseranno gli occhi di nessun uomo, in cui i muri crolleranno a poco a poco, gli alberi moriranno e marciranno, i giardini si riempiranno di erbacce, perché la bellezza sopravvivrà all’intelligenza umana che la descrive, la apprezza e la celebra.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sopravvivere non è sufficiente è una serie di uscite che raccoglie brani letterari sulla fine del mondo e la pandemia – dall’aggettivo greco πανδήμιος: “che riguarda tutti” – che costituiscono il punto di partenza di nuove riflessioni sul presente.

Puntate precedenti: la prima con Mary Shelley, Guido Morselli e Emily St. John Mandel; la seconda, con Camille Flammarion, Joanna Russ e Jack London; la terza con Kurt Vonnegut, Colson Whitehead e Naomi Alderman; la quarta con Matthew P. Shiel e H.G.Wells; la quinta con Margaret Atwood; la sesta con Pat Murphy e Octavia E. Butler; la settima con Fredrich Brown, Fritz Leiber e Italo Calvino e l’ottava con Richard Matheson e Howard Fast.

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