Sopravvivere non è sufficiente VIII

Un’enciclopedia della fine: leggere il contemporaneo attraverso i racconti sulla fine del mondo

Sopravvivere non è sufficiente 8
La jetée, Chris Marker (1962)

 

I

Richard Matheson, Io sono leggenda (1954; Fanucci, 2007, traduzione di Simona Fefè)

 

Nei giorni come quello, in cui il cielo era coperto di nuvole, Robert Neville non era mai sicuro di quanto mancava al tramonto e a volte li trovava già nelle strade, prima di riuscire a rientrare in casa.

Se non avesse avuto tanta avversione per la matematica, avrebbe potuto calcolare l’ora approssimativa del loro arrivo; invece, si atteneva ancora all’antica abitudine di regolarsi sul colore del cielo per stabilire la fine del giorno, e, nei pomeriggi senza sole, quel sistema non funzionava. Perciò, quando il cielo era grigio, non osava allontanarsi troppo dalla sua abitazione. Fece il giro della villetta nel cupo grigiore del pomeriggio; dall’angolo delle labbra gli penzolava una sigaretta, che si lasciava dietro una sottile scia di fumo. Controllò ogni finestra per vedere se qualcuna delle tavole era staccata. Dopo gli assalti più violenti, molte assi rimanevano scheggiate o danneggiate in altro modo e bisognava sostituirle. Un lavoro che odiava. Ma quel giorno ne trovò solo una traballante. Davvero una bella fortuna, si disse.

Terminato l’esame della facciata, andò in cortile per dare un’occhiata alla serra e alla cisterna dell’acqua. A volte cercavano di danneggiare la struttura di sostegno della cisterna o di piegare e rompere i tubi che venivano dalla pompa. A volte lanciavano sassi al di sopra dell’alta recinzione che circondava la serra e di tanto in tanto riuscivano a sfondare la rete che la proteggeva in alto; allora Neville era costretto a sostituire qualche pannello di vetro. Ma la cisterna e la serra, quel giorno, non apparivano danneggiate. Rientrò in casa per prendere il martello e i chiodi e, nell’aprire l’uscio, scorse la propria immagine nello specchio che aveva inchiodato sul pannello, un mese prima. L’immagine era distorta, lo specchio era incrinato. Al primo attacco, le taglienti schegge di vetro argentato sarebbero cadute a terra. “Cadano pure” si disse Neville. “È l’ultimo specchio che inchiodo qui fuori. Non servono a niente, gli specchi. Meglio appendere una collana d’aglio. L’aglio è sempre efficace”. Scivolò lentamente nel denso silenzio del salotto, si diresse a sinistra per imboccare il breve corridoio e poi ancora a sinistra per entrare nella camera da letto.

Un tempo, l’arredamento di quella stanza era allegro e confortevole, ma a quell’epoca le cose erano molto diverse. Adesso, l’aspetto era funzionale e basta. Poiché il letto e l’armadio occupavano pochissimo spazio, Neville aveva trasformato in laboratorio l’altra estremità della stanza. La parete era quasi interamente occupata da un bancone con il ripiano di legno grezzo ingombro di una grossa sega a nastro, di un tornio da falegname, di una mola a smeriglio e di una morsa. Al di sopra, sulla parete, c’era una mensola occupata da una distesa disordinata degli attrezzi usati da Robert Neville. Prese un martello dal bancone e prese alcuni chiodi da uno dei barattoli, tra quella baraonda. Quindi tornò fuori e inchiodò saldamente l’asse all’imposta. I chiodi inutilizzati li gettò tra il pietrisco vicino alla porta.

Per un poco ristette sul prato osservando da un lato all’altro, per tutta la sua lunghezza, la silenziosa Cimarron Street. Era un uomo alto, Neville, sui trentasei anni, di tipo prettamente anglosassone, dai lineamenti comuni, a eccezione della bocca larga dal taglio deciso e dell’azzurro intenso degli occhi che scrutavano ora le rovine carbonizzate delle villette ai due lati della sua. Le aveva bruciate lui, per impedire a loro di saltare sul suo tetto da quelli adiacenti. Dopo qualche minuto, trasse un lungo e lento respiro e rientrò in casa. Gettò il martello sul divano del soggiorno, poi accese un’altra sigaretta e bevve il primo sorso d’alcool della giornata. Più tardi si costrinse ad andare in cucina per gettare nel tritarifiuti dell’acquaio gli avanzi di cinque giorni. Sapeva che avrebbe anche dovuto bruciare i piatti di carta e le posate, spolverare i mobili e pulire i lavandini, la vasca da bagno e il gabinetto, cambiare le lenzuola e la federa del letto; ma non se la sentiva. Perché era un uomo ed era solo e cose come quelle non avevano importanza per lui.

Era quasi mezzogiorno. Robert Neville si trovava nella serra a raccogliere un cesto di aglio. All’inizio, l’odore di una tale quantità di aglio gli dava la nausea; il suo stomaco si era trovato in un continuo stato di rivolta. Ora quell’odore permeava la casa e i suoi abiti: a volte pensava di averlo perfino nella carne. Non lo notava quasi più. Quando ebbe raccolto una quantità sufficiente di teste, rientrò in casa e le ammassò sul ripiano dell’acquaio. Come fece scattare l’interruttore sulla parete, la luce tremolò, poi si accese normalmente. Un sibilo di fastidio gli uscì dai denti. Il generatore faceva di nuovo i capricci. Avrebbe dovuto ancora tirare fuori quel maledetto manuale e verificare i conduttori. E, se fosse stato troppo complicato ripararlo, avrebbe dovuto installare un nuovo generatore. Furibondo, scaraventò un alto sgabello vicino all’acquaio, prese un coltello e sedette con un brontolìo di stanchezza. Dapprima divise i bulbi in piccoli spicchi lunati. Quindi tagliò ogni spicchio rosato e membranaceo a metà, scoprendo i bulbi all’interno. L’aria si riempì dell’odore pungente e muschiato. Quando diventò troppo penetrante, accese il ventilatore e l’aspirazione ne diminuì l’intensità. Allungò una mano verso lo scaffale per prendere un punteruolo. Fece dei fori in ciascuno dei mezzi spicchi, poi li legò tutti insieme con del filo metallico fino a confezionarne venticinque collane. All’inizio, aveva appeso quelle collane alle finestre. Però, rimanendo a distanza, essi le avevano prese a sassate finché Robert era stato costretto a coprire i vetri rotti con pezzi di compensato. Infine un giorno aveva tolto il compensato, inchiodandovi invece file regolari di assi. In tal modo aveva reso la casa un lugubre sepolcro, ma era meglio che vedersi volare i sassi nelle stanze tra una pioggia di frammenti di vetro. E dopo aver installato i tre ventilatori, non stava poi troppo male. Un uomo poteva abituarsi a tutto, se vi era costretto. Quando ebbe finito di legare le collane di aglio, uscì e le inchiodò sopra gli stipiti delle finestre, togliendo quelle vecchie, che avevano perduto gran parte del loro potente odore. Doveva compiere quel lavoro due volte ogni settimana. Fino a che non avesse trovato qualcosa di meglio, quella era la sua prima linea di difesa.

“Difesa?” pensava spesso. “Per che cosa?” Preparò paletti di legno per tutto il pomeriggio. Li ricavava al tornio, da grossi picchetti cilindrici, segati in pezzi di una ventina di centimetri. Li lavorava con la mola finché non diventavano aguzzi come pugnali. Era un lavoro faticoso e monotono: l’aria si saturava di polvere di legno dall’odore di bruciaticcio che gli riempiva i pori della pelle e i polmoni, facendolo tossire. Eppure, non gli sembrava di fare molti progressi. Per quanti paletti facesse, finivano sempre in brevissimo tempo. Le aste cilindriche di legno diventavano via via più difficili da trovare. Alla fine avrebbe dovuto passare al tornio stecche rettangolari. “Buffo, vero?” pensò irritato. Era tutto molto deprimente e ciò lo convinse che doveva trovare un miglior sistema di procedere. Ma come poteva trovarlo, dal momento che essi non gli davano mai la possibilità di fermarsi e pensare? Mentre torniva i paletti, ascoltava dei dischi attraverso l’altoparlante che aveva installato nella stanza da letto… la Terza, la Settima e la Nona Sin-fonia di Beethoven. Era lieto di avere imparato molto presto, grazie a sua madre, ad apprezzare quel tipo di musica. Lo aiutava a colmare il terribile vuoto delle ore. Dalle quattro in poi, il suo sguardo corse costantemente all’orologio appeso alla parete. Lavorava in silenzio, le labbra strette in una linea dura, la sigaretta all’angolo della bocca, gli occhi fissi sulla punta tagliente che staccava il truciolo, riempiendo di polvere farinosa il pavimento. Quattro e un quarto. Quattro e mezzo. Un quarto alle cinque.

Entro un’ora sarebbero stati di nuovo intorno alla casa, quei luridi bastardi. Appena la luce fosse calata. Ritto dinanzi al gigantesco congelatore, Robert scelse la cena. I suoi occhi affaticati scorrevano dal mucchio delle carni alle verdure surgelate, dal pane alla pasticceria, dalla frutta ai gelati. Si decise per due cotolette d’agnello, fagiolini e un barattolo di succo d’arancia. Tolse le scatolette dal congelatore e chiuse lo sportello con una spinta del gomito. Andò poi verso le pile irregolari di barattoli ammucchiati fino al soffitto. Ne prese uno di succo di pomodoro, poi uscì dalla stanza che un tempo era stata di Kathy e che adesso era soltanto del suo stomaco. Attraversò lentamente il soggiorno, osservando la parete ricoperta per intero da una stampa. Raffigurava l’orlo di una scogliera, puntata verso un oceano verde, le cui onde tumultuavano e si frangevano sopra neri scogli. Lontano, nel cielo limpido, bianchi gabbiani planavano con il vento, mentre sulla destra un albero nodoso si sporgeva sul precipizio, i rami scuri stagliati contro il cielo. Neville entrò nella cucina e gettò i cibi sopra la tavola: lo sguardo gli corse all’orologio. Venti minuti alle sei. Mancava poco. Versò un po’ d’acqua in un pentolino e lo sbatté sopra il fornello. Quindi scongelò le braciole e le mise sulla graticola. A quel punto l’acqua già bolliva e vi gettò i fagiolini surgelati, poi li coprì pensando che doveva essere il fornello elettrico a sovraccaricare il generatore. Tornato al tavolo, si tagliò due fette di pane e si versò un bicchiere di succo di pomodoro. Sedette e osservò la lancetta rossa dei secondi che si muoveva lentamente sul quadrante dell’orologio. Quei bastardi sarebbero arrivati presto. Dopo che ebbe finito il succo di pomodoro, si avviò alla porta d’ingresso e uscì sotto il portico, scese sul prato e lo attraversò fino al marciapiede. Il cielo si stava oscurando e l’aria si faceva più fresca. Guardò dai due lati di Cimarron Street, mentre la brezza pungente gli scompigliava i capelli biondi. Ecco ciò che non andava in quei giorni di nuvolo: non potevi mai sapere quando sarebbero arrivati. Oh, be’, in fondo erano meglio delle vecchie tempeste di polvere. Con un’alzata di spalle, tornò indietro attraverso il giardino ed entrò in casa, chiudendo la porta a chiave e con il catenaccio e inserendo anche la pesante spranga. Quindi ritornò in cucina, girò le braciole e spense il fuoco sotto i fagiolini. Stava per mettere il cibo sul piatto quando si fermò; i suoi occhi si volsero velocemente verso l’orologio. Sei e venticinque, oggi. Ben Cortman stava gridando: «Vieni fuori, Neville!»

Robert Neville sedette con un sospiro e cominciò a mangiare.

 

[…]

 

La volta seguente, non tornò a casa finché non ebbe trovato uno strumento decente: tre obiettivi, sottopiano per condensatore e polarizzatore, base stabile, movimento scorrevole, diaframma a iride, obiettivi ottimi. “È soltanto un esempio in più” si disse “della stupidità di partire con il piede sbagliato. Bravo, bravo, bravo”, si rispose seccato. Si costrinse a esercitarsi a lungo per familiarizzare con lo strumento. Si divertì con lo specchio finché riuscì a dirigere il raggio luminoso sull’oggetto in pochi secondi. S’impratichì dell’uso degli obiettivi, variandone la focale da 9 centimetri a 2 millimetri e mezzo. Nel secondo caso, imparò a mettere sul vetrino una goccia di olio di cedro, poi ad avvicinarsi fino a quando l’obiettivo toccava l’olio. In questo modo, ruppe tredici vetrini. In tre giorni di studio continuo, riuscì a manovrare le viti micrometriche con rapidità, a controllare il diaframma a iride e il condensatore per ottenere sul vetrino l’esatta luminosità, e presto arrivò a una ben definita messa a fuoco con i vetrini già pronti che si era procurato. Non avrebbe mai supposto che una pulce fosse tanto mostruosa. Poi venne la preparazione degli strisci, un processo assai più difficile, come scoprì presto. Per quanto provasse, sembrava che non riuscisse a tener lontane le particelle di polvere dallo striscio. Quando li osservava al microscopio, gli sembrava di stare esaminando dei macigni. Era particolarmente difficile a causa delle tempeste di polvere che ancora si verificavano con una media di una ogni quattro giorni. Infine, fu costretto a erigere una tenda sopra il bancone.

Imparò anche a essere più ordinato durante gli esperimenti con gli strisci. Scoprì che dover cercare di continuo le cose, lasciava molto più tempo alla polvere per accumularsi sui vetrini. A malincuore, ma quasi divertito, dovette dare un posto a ogni cosa. I vetrini, i coprioggetti, le pipette, i vetrini a incavo, le pinze, i contenitori per la gelatina di coltura, gli aghi, i reagenti chimici: erano tutti allineati sistematicamente. Scoprì, con sorpresa, che in realtà traeva piacere dall’avere ogni cosa in ordine. “Credo di avere in me il sangue del vecchio Fritz, in fondo” pensò una volta con divertimento. Poi si procurò un campione di sangue, da una donna. Gli ci vollero giorni per preparare nel modo giusto alcune gocce di sangue nei vetrini a incavo giustamente centrati sul piatto. Arrivò perfino a pensare che non gli sarebbe mai riuscito. Ma poi giunse il mattino in cui, semplicemente, come fosse cosa di poca importanza, pose sotto l’obiettivo il trentasettesimo vetrino di sangue, accese la luce, regolò il tubo ottico e lo specchio, regolò il diaframma e il condensatore. A ogni secondo, gli sembrava che il cuore aumentasse i battiti, come se in un certo modo sapesse che era giunto il momento. Il momento arrivò; Neville trattenne il respiro. Non era un virus, allora, non puoi vederlo un virus. E là, che vibrava delicatamente sul vetrino, c’era un germe.

“Io ti battezzo vampiris.” Le parole gli traversarono la mente, mentre l’osservava attraverso l’oculare. Consultando uno dei testi di batteriologia, scoprì che il batterio cilindrico che vedeva era un bacillo, un minuscolo frammento di protoplasma che si muoveva nel sangue per mezzo di sottili flagelli che si estendevano dall’involucro della cellula. Quei flagelli capillari remigavano rigorosamente in mezzo al liquido e facevano muovere il bacillo. Rimase a guardare a lungo nel microscopio, incapace di pensare o di continuare la ricerca. Tutto quello che riusciva a pensare era che là, sul vetrino, c’era la causa del vampirismo. Tutti i secoli di paurosa superstizione erano stati annullati nel momento in cui aveva visto il germe. Gli scienziati avevano avuto ragione, quindi; i batteri erano in causa. C’era voluto lui, Robert Neville, trentasei anni, superstite, per completare l’indagine e scovare l’assassino: il germe all’interno del vampiro. D’un tratto il peso di una massiccia disperazione gli ricadde addosso. Era un colpo superiore alle sue forze: aveva avuto la risposta quando era ormai troppo tardi. Cercò disperatamente di combattere l’avvilimento, ma senza riuscirvi. Non sapeva da dove cominciare, si sentiva del tutto impotente di fronte a quel problema. Come poteva sperare di curare coloro che ancora vivevano? Ignorava tutto dei batteri. “Bene, imparerò!” si disse furente. E si costrinse a studiare. Certe varietà di bacilli, quando le condizioni di vita diventano sfavorevoli, sono capaci di creare in modo autonomo dei corpi detti spore.

Quello che fanno è di condensare il loro contenuto cellulare in un corpo ovale protetto da una spessa parete. Questo corpo, una volta completato, si distacca dal bacillo e diventa una spora libera, di eccezionale resistenza ai mutamenti fisici e chimici. In seguito, quando le condizioni diventano più favorevoli per la sopravvivenza, la spora germina, riportando in vita tutte le qualità del bacillo originale. Robert Neville stava in piedi davanti all’acquaio, gli occhi chiusi, le mani strette sul bordo. “Dev’essere lì, la spiegazione” si disse con insistenza, dev’essere lì. Ma qual è?  “Supponi, argomentò, che il vampiro non abbia sangue. Allora le condizioni per il bacillo vampiris sarebbero sfavorevoli.”

“Per proteggersi, il germe sporula; il vampiro cade in coma. Poi, quando le condizioni tornano a essere favorevoli, il vampiro riprende a camminare con il corpo immutato.” Ma come poteva sapere il germe quando c’era del sangue? Picchiò con furia un pugno sull’acquaio. Riprese a leggere. Doveva esserci una spiegazione; lo sentiva. I batteri, non opportunamente alimentati, hanno un metabolismo anormale e producono batteriofagi (proteine inanimate, autoriproducentisi). Questi batteriofagi distruggono i batteri. Quando il sangue fosse venuto a mancare, il bacillo avrebbe avuto un metabolismo anormale, avrebbe assorbito acqua e si sarebbe gonfiato per poi esplodere e distruggere tutte le cellule. Di nuovo la sporulazione; doveva entrarci. “D’accordo, supponi che il vampiro non vada in coma. Supponi che il suo corpo si decomponga senza sangue. Il germe potrebbe ancora sporulare e… “Sì! le tempeste di polvere!” Le spore liberate sarebbero state trasportate dalle tempeste. Avrebbero potuto fermarsi in minuscole abrasioni della pelle causate dalle incrostazioni di polvere. Una volta nella pelle, la spora avrebbe potuto germinare e moltiplicarsi, scindendosi. Mentre questo processo progrediva, i tessuti contaminati sarebbero stati distrutti e i canali ostruiti dai bacilli. La distruzione dei tessuti cellulari e dei bacilli avrebbe liberato corpi velenosi e decomposti nei tessuti sani circostanti. Finalmente i veleni avrebbero raggiunto la circolazione sanguigna. Processo completo. E tutto questo senza vampiri dagli occhi sanguinei incombenti sui letti delle eroine. Tutto questo senza pipistrelli che aleggiano contro le finestre dei castelli, tutto questo senza soprannaturale.

Il vampiro era reale. Soltanto che la sua vera storia non era mai stata raccontata. Considerando questo, Neville rievocò le epidemie storiche. Ripensò alla peste di Atene. Era stata molto simile all’epidemia del 1975. Prima che fosse possibile far qualcosa, la città era caduta. Gli storici avevano parlato di peste bubbonica. Robert Neville era incline a credere che la causa fosse invece il vampiro. No, non il vampiro. Finora, a quel che sembrava, quello spettro astuto e furtivo non era altro che uno strumento del germe, così come i vivi innocenti che erano stati originariamente infettati. Il malvagio era il germe. Il germe che si nascondeva dietro oscuri veli di leggenda e superstizione, spargendo la sua peste mentre la gente arretrava di fronte alle proprie paure. E che dire della peste nera, quell’orribile flagello che aveva percorso l’Europa medievale, lasciandosi dietro un tributo pari a tre quarti della popolazione? Vampiri?

Alle dieci di quella sera, la testa gli doleva e si sentiva gli occhi come calde masse di gelatina. Scoprì di avere una gran fame. Prese una bistecca dal congelatore e, mentre questa cuoceva, fece una rapida doccia. Trasalì quando un sasso colpì la villetta. Poi fece un sorriso storto. Era stato così assorto per tutto il giorno che aveva dimenticato il branco che si aggirava intorno a casa sua.

 

 

II

Howard Fast, L’uovo (1972; Arnoldo Mondadori editore, 1974, “Urania” n. 649, traduzione di Beata della Frattina)

 

 

Due settimane dopo Souvan parlò dagli schermi televisivi. Al mondo, alla gente, senza distinzione di razze, lingue e nazioni che erano scomparse nell’olocausto atomico di tremila anni prima. I pochi sopravvissuti si erano raccolti insieme, si erano sposati tra loro, e dall’insieme delle diverse lingue se ne era formata una sola; poi, col tempo, i discendenti si erano sparsi sui cinque continenti. Adesso erano saliti a un miliardo. C’erano di nuovo i campi di grano, le foreste e gli orti, e i pesci nel mare, ma non si sentivano canti di uccelli né versi di animali terrestri, perché nessuno di questi animali era sopravvissuto.

“Tuttavia sappiamo qualcosa degli uccelli” disse Souvan un po’ intimorito, trovandosi per la prima volta in vita sua a parlare a tutta la popolazione terrestre. Aveva già parlato dei suoi calcoli, delle ricerche, degli scavi e della scoperta che aveva fatto. “Non molto, purtroppo, perché nessuna immagine o riproduzione di uccelli è sopravvissuta al fuoco atomico. Pure, in qualche libro abbiamo trovato accenni e descrizioni. Sappiamo che l’habitat degli uccelli era l’aria, dove si libravano reggendosi sulle ali spiegate, volando non come i nostri aeroplani grazie alla spinta dei reattori atomici, ma come nuotano i pesci, con scioltezza, grazia e bellezza. Sappiamo che alcuni erano piccoli, altri piuttosto grandi e che erano coperti di cose morbide che si chiamavano piume. Ma non sappiamo esattamente cosa fosse un uccello o un’ala o una penna… solo gli artisti li hanno descritti nei loro quadri o nelle poesie così come li ha ricostruiti la loro fantasia.

Ora, nell’ultimo locale delle rovine che abbiamo visitato, c’era una cella refrigerante ancora funzionante entro cui abbiamo trovato un oggetto ovale che crediamo sia l’uovo di un uccello. Come sapete, ci sono state molte discussioni fra i naturalisti sul fatto se un essere a sangue caldo si possa riprodurre attraverso le uova, come fanno i pesci e gli uccelli, e la controversia non è stata ancora risolta. Molti scienziati di larga fama sono del parere che l’uovo degli uccelli fosse semplicemente un simbolo. Altri sostengono con altrettanta sicurezza che la deposizione delle uova era il sistema di riproduzione degli uccelli. Forse questa disputa sta per essere risolta. Comunque, ora vi mostro l’immagine dell’uovo”.

Sui teleschermi apparve un oggettino bianco, lungo poco più di due centimetri, e tutta la popolazione della terra lo guardò.

“Questo è l’uovo. Abbiamo preso tutte le precauzioni possibili nel toglierlo dal refrigeratore, e adesso l’abbiamo sistemato in un’incubatrice appositamente fabbricata”. Abbiamo analizzato tutti i fattori che potessero rivelarci qual è il grado di calore più adatto, e dopo aver fatto tutto quanto era nelle nostre possibilità, ora non ci resta che aspettare. Non abbiamo idea di quanto durerà il periodo di incubazione. La macchina costruita per congelarlo e mantenerlo in stato d’ibernazione fu probabilmente la prima del genere, e forse l’unica, e i suoi creatori avevano intenzione di far durare poco il periodo d’ibernazione, fatta probabilmente allo scopo di collaudare la macchina. Il fatto he sussista ancora a un briciolo di vita oggi, dopo che sono passati tremila anni, non è che una speranza.”

Ma per Souvan era qualcosa di più di una speranza. L’uovo era stato consegnato a una commissione di naturalisti e biologi, ma, sfruttando il privilegio dello scopritore, Souvan ebbe il permesso di restare sulla scena. I suoi amici, la sua stessa famiglia non lo vedevano mai; stava sempre nel laboratorio dove mangiava e dormiva su una brandina che era stata sistemata apposta per lui. Le telecamere, puntate sull’oggettino bianco chiuso nell’incubatrice di vetro, tenevano aggiornato il pubblico di ora in ora, ma Souvan, come del resto il gruppo di scienziati, non riusciva a staccarsene un attimo. Si svegliava più volte tutte le notti per andare a guardare l’uovo. E quando dormiva, lo sognava. Esaminava le immagini degli uccelli create dalla fantasia degli artisti e ricordava le antiche leggende che parlavano di esseri chiamati angeli, domandandosi se non discendessero da qualche specie di uccelli.

Non era solo, nella sua fanatica attesa. In un mondo privo di confini, guerre, malattie, e, in generale, privo di odio, a memoria d’uomo non era mai successo niente di tanto eccitante come la scoperta dell’uovo. Milioni e milioni di telespettatori osservavano l’uovo sui teleschermi, milioni di loro cercavano di immaginare in che cosa si sarebbe trasformato. E poi accadde. Erano passati quattordici giorni, quando Souvan fu svegliato da uno degli assistenti di laboratorio.

“Sta nascendo!” gridò costui. “Venite, Souvan, sta nascendo.”

Senza prendersi la briga di vestirsi, Souvan si precipiò nella stanza dell’incubatrice, dove si trovavano già i naturalisti e i biologi. Al di sopra del vocio concitato si sentivano le suppliche dei cameramen che volevano avere la possibilità di riprendere l’evento. Ma Souvan li ignorò, facendosi avanti a gomitate per vedere.

Il guscio dell’uovo era già incrinato, e mentre lui guardava, un becco minuscolo si aprì la strada verso la libertà, seguito da un batuffolo di morbide piume gialle. La prima reazione di Souvan fu di delusione: era proprio quello un uccello? Quella minuscola pallina viva che si reggeva su due zampettine secche, capace appena di muoversi e non certo di volare? La logica e la preparazione scientifica cercarono di rassicurarlo rammentandogli che una creatura appena nata non assomiglia necessariamente all’adulto, e che il semplice fatto che un essere vivo fosse uscito da un uovo congelato da tremila anni era un miracolo mai avvenuto prima.

Poi entrarono in azione biologi e naturalisti. Avevano già deciso, riunendo tutte le informazioni di cui erano in possesso e servendosi inoltre della loro intelligenza, che la dieta degli uccelli consisteva in genere di granaglie e insetti, e avevano già preparato tutti i mangimi possibili in modo da poter scoprire rapidamente qual era il più congeniale al batuffolo giallo. Per fortuna riuscirono a trovare una dieta adatta all’uccellino, prima che questo morisse d’indigestione.

Nelle settimane successive, il mondo e Souvan seguirono l’evento più meraviglioso cui avessero mai assistito: la crescita di un graziosissimo uccello canterino. Tolto dall’incubatrice, fu messo in una gabbia, poi in un’altra più grande e un giorno allargò le ali e tentò per la prima volta di volare. Quasi mezzo miliardo di persone salutò con entusiasmo l’avvenimento, ma l’uccello non lo sapeva. Cantò, dapprima un po’ incerto, poi con crescente forza e sicurezza. Cantava la canzoncina fatta di trilli, e il mondo l’ascoltava con un interesse e un entusiasmo che non aveva mai dedicato alle migliori orchestre sinfoniche.  

Costruirono una gabbia più grande, alta dieci metri, lunga e larga venti, e la sistemarono al centro di un parco; e l’uccello volava e cantava e attraversava sfrecciando la gabbia come un batuffolo di luce. Milioni di persone andarono nel parco per ammirare coi propri occhi l’uccello. Attraversarono mari e continenti per poterlo vedere.

E forse la vita di qualcuno di loro cambiò, com’era cambiata quella di Souvan, che viveva adesso di sogni e di ricordi del mondo come era stato una volta, un mondo dove quei meravigliosi esseri alati erano comuni; dove il cielo era pieno dello sfrecciare delle loro ali. Come doveva essere stato bello vivere allora! Che gioia guardarli, sentire i loro trilli da mattina a sera! Souvan andava spesso al parco, talmente spesso che il suo lavoro ne risentiva. Si faceva strada lentamente attraverso la folla, finché non arrivava abbastanza vicino alla gabbia da riuscire a vedere la minuscola palla di luce danzante, tornata al mondo dai secoli passati. E un giorno, mentre era là, alzò gli occhi all’azzurra immensità del cielo e capì quello che doveva fare.

Ormai era una persona nota in tutto il mondo, per cui non gli fu difficile farsi ricevere dal Consiglio. Si presentò davanti all’augusto consesso formato da cento uomini e donne che dirigevano gli affari terrestri, e il presidente, un venerando vecchio dalla barba bianca, che aveva più di novant’anni, disse: “Siamo disposti ad ascoltarti, Souvan”.

Lui era nervoso (e chi non lo sarebbe stato al suo posto?) ma sapeva quel che doveva dire e si costrinse a dirlo.

“L’uccello deve essere liberato” disse.

Seguì un lungo silenzio prima che una donna si alzasse e gli chiedesse, non senza gentilezza: “Perché dici questo, Souvan?”

“Forse perché, senza voler essere egoista, sento di poter vantare un rapporto speciale con l’uccello. E, comunque, è diventato parte della mia vita e mi ha dato qualcosa che non avevo prima.”

“Forse questo è accaduto a noi tutti, Souvan”.

“È probabile, e in tal caso capirete quello che provo. È passato più di un anno da che l’uccello vive in mezzo a noi. Ne ho parlato con i naturalisti, partendo dal presupposto che una creatura così piccola non può vivere molto a lungo. La nostra vita è improntata all’amore e alla fratellanza. Noi diamo quel che riceviamo. L’uccello ci ha dato uno dei doni più preziosi, un nuovo senso di ammirazione per la vita. Tutto quel che possiamo dargli in cambio è il cielo azzurro per cui fu creato. Per questo propongo che gli sia data la libetà.”

Souvan si congedò e i membri del consiglio si consultarono. Il giorno dopo fu annunziata al mondo la loro decisione. L’uccello sarebbe stato liberato. Diedero una spiegazione semplice, ricorrendo alle stesse parole dette a Souvan.

Venne così, poco tempo dopo, il giorno in cui mezzo milione di persone riempirono le colline e le vallate del parco dov’era sistemata la gabbia, e un altro mezzo miliardo seguì l’avvenimento sui teleschermi.

Souvan si trovava vicino alla gabbia; non gli serviva, come a moltissimi altri spettatori, un binocolo. Guardò il tetto della gabbia che veniva sollevato, e poi guardò l’uccello, che stava ritto sul trespolo mentre un torrente di note gli usciva dalla piccola gola. Poi, chissà come, si accorse che poteva essere libero. Si mise a volare, prima dentro alla gabbia, in cerchio, salendo sempre più in alto, in alto, finché non si trasformò in un puntino luminoso e poi scomparve.

“Forse tornerà” mormorò qualcuno vicino a Souvan.

Ma, per quanto strano possa sembrare, Souvan si augurò che non tornasse. Aveva gli occhi pieni di lacrime, ma provava un senso di gioia e di compiutezza che non aveva mai provato prima.                  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sopravvivere non è sufficiente è una serie di uscite che raccoglie brani letterari sulla fine del mondo e la pandemia – dall’aggettivo greco πανδήμιος: “che riguarda tutti” – che costituiscono il punto di partenza di nuove riflessioni sul presente.

Puntate precedenti: la prima con Mary Shelley, Guido Morselli e Emily St. John Mandel; la seconda, con Camille Flammarion, Joanna Russ e Jack London; la terza con Kurt Vonnegut, Colson Whitehead e Naomi Alderman; la quarta con Matthew P. Shiel e H.G.Wells; la quinta con Margaret Atwood; la sesta con Pat Murphy e Octavia E. Butler e la settima con Fredrich Brown, Fritz Leiber e Italo Calvino.

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