Un’enciclopedia della fine: leggere il contemporaneo attraverso i racconti sulla fine del mondo
I
Fredrich Brown, Immaginatevi
(1955; Einaudi 1961, Il secondo libro della fantascienza, traduzione di Franco Lucentini)
Immaginatevi fantasmi, dèi, diavoli.
Immaginatevi inferni e paradisi, città galleggianti nell’aria o nel fondo dei mari.
Unicorni e centauri. Streghe, gnomi e lupimannari.
Angeli e arpie, fatture e incantesimi, spiriti dell’aria e della terra, spiriti del fuoco.
Facile da immaginare, tutta questa roba. L’umanità è venuta immaginandola da migliaia di anni.
Immaginatevi astronavi e tempi futuri.
Facile da immaginare: il futuro è già cominciato, e dentro ci sono le astronavi.
Non c’è niente, dunque, che sia difficile immaginare?
Certo che c’è.
Immaginatevi cento o duecento libbre di materia, con voi stessi dentro che pensate, e sapete che ci siete, e sapete far muovere la materia in cui siete: farla star sveglia o dormire, farle fare all’amore, portarla a passeggio in collina.
Immaginatevi un universo – infinito o no, a piacere vostro – con dentro milioni di bilioni di trilioni di Soli.
Immaginatevi un grumo di fango che gira e gira turbinoso intorno a uno di questi Soli.
E immaginate voi stessi su questo grumo, a girare anche voi, a girare turbinosamente nel tempo e nello spazio, verso una meta ignota.
Immaginatevi.
II
Fritz Leiber, Un secchio d’aria
(1951; Mondadori, L’ombra del 2000, traduzione di Hilia Brinis)
Pa’ mi aveva mandato fuori a prendere un secchio d’aria di scorta. Avevo appena finito di riempirlo, e dalle mie dita era già sfuggito quasi tutto il calore, quando… vidi una cosa!
Sul momento pensai che fosse una ragazza. Sì, una faccia di bella ragazza che splendeva nel buio, e mi fissava dal quinto piano della casa di fronte. Nelle case qui attorno, il quinto piano resta subito al di sopra della bianca coltre di aria ghiacciata spessa quattro piani. Non avevo mai visto una ragazza in vita mia, salvo nelle vecchie riviste – Sis è appena una bambina e Ma’ è piuttosto sofferente e malandata – e mi venne un accidente tale che lasciai cadere il secchio. A chi non sarebbe venuto, sapendo che sulla Terra erano morti tutti salvo Pa’, Ma’, Sis e me?
Con tutto questo non avevo nessuna ragione di meravigliarmi tanto. Tutti noi vediamo delle cose, di tanto in tanto. Ma’ deve vederne di bruttissime, a giudicare da come sbarra gli occhi fissando il vuoto e urla, urla e si rannicchia contro le coperte appese attorno al Nido. Pa’ dice che è più che naturale se, di tanto in tanto, abbiamo di queste visioni.
Dopo che ebbi raccolto il secchio, e potei guardare di nuovo l’appartamento di fronte, mi feci un’idea di quello che Ma’ doveva provare in quei momenti: mi accorsi, infatti, che non si trattava di una ragazza, ma soltanto di una luce: una piccola luce che si spostava continuamente da una finestra all’altra, proprio come se una stella cattiva fosse scesa giù dal cielo senz’aria a cercar di scoprire perché mai la Terra si fosse allontanata dal Sole, e magari a dar la caccia a qualcosa da tormentare o da atterrire, ora che la Terra non aveva più la protezione del Sole.
Quel pensiero, ve l’assicuro, mi fece accapponare la pelle. Stavo là, tutto tremante; per poco non mi si congelavano i piedi, e nell’interno del casco si stava formando una crosta di ghiaccio così solida che, se anche la luce fosse uscita da una delle finestre per venire a prendermi, non me ne sarei accorto. Finalmente, ebbi il buon senso di rientrare.
Ben presto mi trovai a percorrere il solito cammino tra la trentina di coperte, tappeti e grandi fogli di plastica che Pa’ è riuscito ad appendere e fissare tutt’intorno al Nido, per impedire la fuga dell’aria. La paura cominciava a passare. Sentivo già il ticchettio degli orologi del Nido e capivo che stavo ritornando dove c’era aria, perché all’esterno, nel vuoto, i rumori naturalmente non si sentono. Ma la mia mente era ancora confusa e sconvolta, mentre mi facevo strada attraverso le ultime coperte – quelle che Pa’ aveva foderato con fogli di alluminio per trattenere il calore – ed entravo nel Nido.
Lasciate che vi parli del Nido. È basso e intimo, c’è giusto lo spazio per noi quattro e per la nostra roba. Il pavimento è ricoperto da folti tappeti di lana. Tre lati sono formati di coperte, e le altre coperte che fanno da soffitto sfiorano la testa di Pa’. Lui dice che il Nido si trova dentro una stanza molto più grande, ma io non ho mai visto le pareti vere, né il soffitto.
Contro una delle coperte-pareti c’è un grosso scaffale, con utensili, libri, e altra roba, e in cima allo scaffale un’intera fila di orologi. Pa’ tiene molto a quegli orologi, guai se non li carica! Dice che non dobbiamo mai dimenticare il tempo che passa, e che senza sole né luna si farebbe presto a non sapere più che ora è.
La quarta parete ha coperte dappertutto salvo che intorno al caminetto, nel quale arde un fuoco che non deve mai spegnersi. Dev’esserci sempre uno di noi a guardia del fuoco. Alcuni degli orologi sono sveglie, e possiamo servirci di quelle per ricordarci quand’è il nostro turno. Nei primi tempi c’era solo Ma’ a fare i turni con Pa’ – cerco di pensare a questo, quando lei diventa proprio intrattabile – ma ora ci sono anch’io per dare una mano, e anche la mia sorellina.
È Pa’, però, il guardiano principale del fuoco. Se penso a lui, penso sempre così: un uomo alto che siede a gambe incrociate davanti al fuoco, a fissare la fiamma con faccia seria e ansiosa, e che di tanto in tanto prende un pezzo di carbone dal grosso mucchio accanto al focolare e lo posa con cura sulla brace. Pa’ racconta che una volta, nei tempi proprio antichissimi, c’erano le custodi del fuoco – vestali, le chiama lui – sebbene, allora, ci fosse aria dappertutto e perfino un sole, e quindi del fuoco si potesse anche fare a meno.
Era seduto proprio in quel modo, quando rientrai, ma naturalmente si affrettò ad alzarsi per togliermi il secchio di mano e darmi una lavata di capo perché ero rimasto fuori troppo tempo: gli era bastata un’occhiata per accorgersi che avevo il casco incrostato di ghiaccio. Ma’ immediatamente si scosse e si unì a lui per dargli man forte. Pa’ spiega che, per lei, tutte le scuse sono buone pur di scaricare un poco i nervi, e anche quella volta si affrettò a farla smettere. Sis, per non essere da meno, mandò anche lei un paio di strilli senza senso.
Pa’ maneggiava il secchio proteggendosi le mani con un pezzo di panno ben ripiegato. Ora che il secchio era nell’interno del Nido, si poteva veramente constatare fino a che punto era freddo. Sembrava succhiar via il calore da ogni cosa. Perfino le fiamme si ritrassero contraendosi quando Pa’ lo posò accanto al fuoco.
Eppure, quella sostanza d’un bianco-azzurro luccicante è quella che ci mantiene in vita. Si scioglie lentamente, evapora e così facendo rinfresca il Nido e alimenta il fuoco. Le coperte servono a impedire che la sostanza si disperda troppo in fretta. Pa’ vorrebbe sigillare tutte le fessure, ma non si può: l’edificio è troppo malconcio a causa dei terremoti, e poi bisogna lasciare aperta la cappa del camino, perché vada fuori il fumo. La cappa, nell’interno, ha un dispositivo speciale che Pa’ chiama farfalla, che impedisce all’aria di scappar via troppo in fretta dall’apertura. A volte Pa’, scherzando, dice che gli piacerebbe essere una farfalla per volare su per il tubo e vedere un po’ come fa, quel coso, a funzionare ancora dopo tanti anni.
III
Italo Calvino, I dinosauri
(1965, Einaudi, Le Cosmicomiche)
Misteriose restano le cause della rapida estinzione dei Dinosauri, che si erano evoluti e ingranditi per tutto il Triassico e il Giurassico e per 150 milioni d’anni erano stati gli incontrastati dominatori dei continenti. Forse furono incapaci di adattarsi ai grandi cambiamenti di clima e di vegetazione che ebbero luogo nel Cretaceo. Alla fine di quell’epoca erano tutti morti.
Tutti tranne me, – precisò Qfwfq – perché anch’io, per un certo periodo, sono stato dinosauro: diciamo per una cinquantina di milioni di anni; e non me ne pento: allora a essere Dinosauro si aveva la coscienza d’essere nel giusto, e ci si faceva rispettare.
Poi la situazione cambiò, è inutile che vi racconti i particolari, cominciarono guai di tutti i generi, sconfitte, errori, dubbi, tradimenti, pestilenze. Una nuova popolazione cresceva sulla terra, nemica a noi. Ci davano addosso da tutte le parti, non ce ne andava bene una. Adesso qualcuno dice che il gusto di tramontare, la passione d’essere distrutti facessero parte dello spirito di noi Dinosauri già da prima. Non so: io questo sentimento non l’ho mai provato; se degli altri lo avevano, è perché già si sentivano perduti.
Preferisco non tornare con la memoria all’epoca della grande moria. Non avrei mai creduto di scamparla. La lunga migrazione che mi mise in salvo, la compii attraverso un cimitero di carcasse spolpate, in cui solo una cresta, o un corno, o una piastra di corazza, o un brandello di pelle tutta scaglie ricordava lo splendore antico dell’essere vivente. E addosso a questi resti lavoravano i becchi, i rostri, le zanne, le ventose dei nuovi padroni del pianeta. Quando non vidi più tracce di vivi né di morti mi fermai.
Su quegli altipiani passai molti e molti anni. Ero sopravvissuto agli agguati, alle epidemie, all’inedia, al gelo: ma ero solo. Continuare a star lassù in eterno non potevo. Mi misi in strada per discendere. Il mondo era cambiato: non riconoscevo più né i monti né i fiumi né le piante. La prima volta che scorsi degli esseri viventi mi nascosi; erano un branco dei Nuovi, esemplari piccoli ma forti.
“Ehi tu!” Mi avevano avvistato, e subito mi stupì quel modo familiare di apostrofarmi. Scappai; mi rincorsero. Ero abituato da millenni a suscitare terrore intorno a me, e a provare terrore delle reazioni altrui al terrore che suscitavo. Adesso niente: “Ehi tu!”; s’avvicinavano a me come se niente fosse, né ostili né spaventati.
“Perché corri? Cosa ti salta in mente?” Volevano solo che gli indicassi la strada giusta per andare non so dove. Balbettai che non ero del posto. “Che t’ha preso di scappare?” disse uno. “Pareva avessi visto… un Dinosauro!” e gli altri risero. Ma in quella risata sentii per la prima volta un accenno di apprensione. Ridevano un po’ verde. E uno di loro si fece grave e soggiunse: “Non dirlo nemmeno per scherzo. Tu non sai cosa sono…”.
Dunque, ancora il terrore dei Dinosauri continuava, nei Nuovi, ma forse da parecchie generazioni non ne avevano più visti, e non sapevano riconoscerli. Continuai il cammino, guardingo ma pur impaziente di ripetere l’esperimento. A una fontana beveva una giovane dei Nuovi; era sola. M’avvicinai pian piano, allungai il collo per bere accanto a lei; già presentivo il suo sguardo disperato appena m’avrebbe visto, la sua fuga affannosa. Ecco che avrebbe dato l’allarme, sarebbero venuti in forze i Nuovi a darmi la caccia… Sull’istante, mi ero già pentito del mio gesto; se volevo salvarmi dovevo subito sbranarla: ricominciare…
La giovane si voltò, disse: “Neh che è fresca?” Prese a conversare amabilmente, con frasi un po’ di circostanza, come si fa con gli stranieri, a domandarmi se venivo di lontano e se avevo incontrato pioggia o bel tempo nel viaggio. Io non avrei mai immaginato che si potesse parlare così, con dei non-Dinosauri, e restavo tutto teso quasi muto.
“Io vengo sempre a bere qui” disse lei “dal Dinosauro…”
Ebbi uno scatto del capo, sbarrai gli occhi.
“Sì, sì, la chiamiamo così, la Fontana del Dinosauro, dai tempi antichi. Dicono che una volta s’era nascosto qui un Dinosauro, uno degli ultimi, e chi veniva a bere lui gli saltava addosso e lo sbranava, mamma mia!”
Avrei voluto sparire. “Adesso capisce chi sono, – pensavo, – adesso mi osserva meglio e mi riconosce!” e come fa chi vorrebbe non essere guardato, tenevo gli occhi bassi, e mi attorcigliavo la coda come per nasconderla. Tanto era lo sforzo nervoso che quando lei, tutta sorridente, mi salutò e proseguì per la sua via, mi sentii stanco come se avessi sostenuto una battaglia, di quelle del tempo in cui ci si difendeva con le unghie e coi denti. M’accorsi che non ero stato neanche buono di risponderle buongiorno.
Arrivai alla riva d’un fiume, dove i Nuovi avevano le loro tane, e vivevano di pesca. Per creare un’ansa nel fiume dove l’acqua meno rapida trattenesse i pesci, costruivano una diga di rami. Appena mi videro, alzarono il capo dal lavoro e si fermarono; guardarono me, si guardarono tra loro, come interrogandosi, sempre in silenzio. “Ora ci siamo, – pensai, – non mi resta che vendere cara la pelle”, e mi preparai al balzo.
Per fortuna seppi fermarmi in tempo. Quei pescatori non avevano nulla contro di me: vedendomi robusto, volevano domandarmi se potevo fermarmi da loro, a lavorare nel trasporto del legname.
“Qui è un posto sicuro” insistettero, di fronte alla mia aria perplessa. “Dinosauri è dal tempo dei nonni dei nostri nonni che non se ne vedono…”
A nessuno veniva il sospetto di chi potevo essere. Mi fermai.
C’era un buon clima, vitto non certo per i nostri gusti ma discreto, e un lavoro non eccessivamente gravoso, data la mia forza. Mi chiamavano con un soprannome: “il Brutto”, perché ero diverso da loro, non per altro. Questi Nuovi, non so come diavolo li chiamate voi, Pantoteri o cos’altro, erano d’una specie ancora un po’ informe, dalla quale difatti venne poi fuori tutto il resto della specie, e già a quel tempo tra individuo e individuo si passava attraverso le più varie somiglianze e dissimiglianze possibili, cosicché io, sebbene tutt’un altro tipo, dovetti convincermi che poi poi non facevo tanto spicco.
Non che mi abituassi completamente a quest’idea: mi sentivo sempre un Dinosauro in mezzo ai nemici, e ogni sera, quando attaccavano a raccontare storie di Dinosauri, tramandate di generazione in generazione, io mi facevo indietro, nell’ombra, a nervi tesi.
[…]
La voce si propagò per il villaggio. “Andiamo a vedere il Dinosauro!” Tutti corsero su per la montagna, e io con loro.
Superata una morena di sassi, tronchi divelti, fango e carcasse d’uccelli, s’apriva una valletta a conca. Un primo velo di licheni inverdiva le rocce liberate dal gelo. In mezzo, disteso come se dormisse, col collo allungato dagli intervalli delle vertebre, la coda disseminata in una lunga linea serpentina, giaceva uno scheletro di Dinosauro gigantesco. La cassa toracica si arcuava come una vela e quando il vento batteva sui listelli piatti delle costole pareva che ancora le pulsasse dentro un cuore invisibile. Il cranio era girato in una posizione stravolta, a bocca aperta come per un estremo grido.
I Nuovi corsero fin lì vociando festosi: di fronte al cranio si sentirono fissati dalle occhiaie vuote; rimasero a qualche passo di distanza, silenziosi; poi si voltarono e ripresero la loro stolta baldoria. Sarebbe bastato che uno di loro passasse con lo sguardo dallo scheletro a me, mentr’ero fermo a contemplarlo, e si sarebbe accorto che eravamo identici. Ma nessuno lo fece. Quelle ossa, quelle zanne, quegli arti sterminatori, parlavano un linguaggio ormai illeggibile, non dicevano più nulla a nessuno, tranne quel vago nome rimasto senza legame con le esperienze del presente.
Io continuavo a guardare lo scheletro, il Padre, il Fratello, l’uguale a me, il Me Stesso; riconoscevo le mie membra spolpate, i miei lineamenti incisi nella roccia, tutto quello che eravamo stati e non eravamo più, la nostra maestà, le nostre colpe, la nostra rovina.
Ora queste spoglie sarebbero servite ai nuovi distratti occupatori del pianeta per segnare un punto del paesaggio, avrebbero seguito il destino del nome “Dinosauro” divenuto un opaco suono senza senso. Non dovevo permetterlo. Tutto quel che riguardava la vera natura dei Dinosauri doveva rimanere occultato. Nella notte, mentre i Nuovi dormivano intorno allo scheletro imbandierato, trasportai e seppellii vertebra per vertebra il mio Morto. Al mattino i Nuovi non trovarono più traccia dello scheletro. Non se ne preoccuparono a lungo. Era un nuovo mistero che si aggiungeva ai tanti misteri connessi ai Dinosauri. Lo scacciarono presto dalle loro menti.
Ma l’apparizione dello scheletro lasciò una traccia, in quanto in tutti loro l’idea dei Dinosauri restò legata a quella d’una triste fine, e nelle storie che raccontavano ora dominava un accento di commiserazione, di pena per le nostre sofferenze. Di questa loro pietà io non sapevo che farmene. Pietà per cosa? Se mai specie aveva avuto un’evoluzione piena e ricca, un regno lungo e felice, quelli eravamo stati noi. La nostra estinzione era stata un epilogo grandioso, degno del nostro passato. Cosa potevano capirne questi sciocchi?
Ogni volta che li sentivo fare del sentimentalismo sui poveri Dinosauri mi veniva da prenderli in giro, da raccontare storie inventate e inverosimili. Tanto ormai la verità sui Dinosauri non sarebbe più stata compresa da nessuno, era un segreto che avrei custodito solo per me.
Sopravvivere non è sufficiente è una serie di uscite che raccoglie brani letterari sulla fine del mondo e la pandemia – dall’aggettivo greco πανδήμιος: “che riguarda tutti” – che costituiscono il punto di partenza di nuove riflessioni sul presente.
Puntate precedenti: la prima con Mary Shelley, Guido Morselli e Emily St. John Mandel; la seconda, con Camille Flammarion, Joanna Russ e Jack London; la terza con Kurt Vonnegut, Colson Whitehead e Naomi Alderman; la quarta con Matthew P. Shiel e H.G.Wells; la quinta con Margaret Atwood e la sesta con Pat Murphy e Octavia E. Butler.