Sopravvivere non è sufficiente III

Un’enciclopedia della fine: leggere il contemporaneo attraverso i racconti sulla fine del mondo

Sopravvivere non è sufficiente Whitehead Alderman Vonnegut
La jetée, Chris Marker (1962)

 

 

Il grigio strato di polvere che copre tutte le cose è diventato la loro parte migliore. 

(da Kitsch onirico di Walter Benjamin; brano rivisitato da Colson Whitehead in Zona Uno)

 

 

 

 

Colson Whitehead, Zona Uno (2011; 2013 Einaudi Stile Libero, traduzione di Paola Brusasco)

 

Il ragazzo guardava la tv e indugiava davanti alle vetrate, osservando la città attraverso il fumé anti-Uva del diciannovesimo secolo.

Quelle riunioni di famiglia erano al tempo stesso fantastiche e sempre uguali, un precoce addestramento alla natura ricorrente dell’esperienza umana. – Cosa stai guardando? – chiedevano le varie fidanzate mentre, con passi felpati, portavano acqua minerale di supermarca e patatine, e lui rispondeva: – i palazzi, – sentendosi strano per l’attrazione che provava per il profilo della città. Una particola che girava negli ingranaggi di un orologio gigantesco, ecco cos’era. Milioni di persone si prendevano cura di quel magnifico marchingegno; vivevano, sudavano e sgobbavano servendo il meccanismo della metropoli e facendola più grande, migliore, piano dopo glorioso piano e idea dopo improbabile idea. E quant’era piccolo lui, ruzzolante tra le rotelle.

[…]

Ricordava com’erano le cose prima, le abitudini del profilo urbano.

Su tutta l’isola gli edifici collidevano, umiliavano gli omuncoli per verticalità e ambizione, ciascuno immusonito all’ombra dell’altro. L’inevitabilità regnava, mandato dopo mandato. I grandi vecchi di ieri, messi al mondo da architetti un tempo celebri e battezzati con nomi grandiosi, venivano insultati dalla fuliggine dei motori a scoppio e dal progresso tecnologico dell’edilizia. Il tempo scolpiva l’elegante pietra che, volteggiando o colando a picco, atterrava sul marciapiede in polvere, frammenti e pezzi. Dietro le facciate, interni squartati, riconfigurati, ricablati in base alle teorie di utilità della nuova èra. Da classico appartamento di sei locali ad alveare di studioli, da laboratorio in nero a mosaico di cubicoli. In ogni quartiere gli imperfetti di ogni sorta attendevano la sfera da demolizione; l’ossatura veniva fusa per contribuire al sorpasso da parte dei successori, acciaio più acciaio.

I nuovi edifici, ondata dopo ondata, si levavano dalle macerie, scuotendosi di dosso il passato come migranti. Gli indirizzi rimanevano uguali, come pure le filosofie fallate. Non era nessun altro luogo. Era New York City.

Il ragazzino era ammaliato. Passavano da zio Loyd più o meno ogni due mesi. Beveva l’acqua minerale, guardava i film horror, stava di sentinella alla finestra. L’edificio era un totem rivestito di metallo azzurro, un mutante in quel covo di vecchi palazzi senza ascensore. Quelli del piano regolatore s’erano intascati le bustarelle e adesso lui era lì, sospeso sopra l’isola puntuta.

C’era un messaggio in tutto ciò, se solo avesse imparato a decifrarne la lingua. Nelle giornate di pioggia le superfici dei palazzi erano spietate e vacue, proprio come ora, anni più tardi. Con i marciapiedi nascosti alla vista, il ragazzino immaginava una città disabitata, chilometri e chilometri di vetri dietro i quali non viveva nessuno, nessuno che raggiungesse i propri cari in soggiorni arredati con gusto da cataloghi autorevoli, ascensori come marionette rotte penzolanti all’estremità di lunghi cavi. La città, un vascello fantasma sull’ultimo oceano ai margini del mondo. Era un’illusione splendida e intricata, Manhattan, e da prospettive sghembe nelle giornate nuvolose la vedevi disintegrarsi, costretto a osservare quella creatura fragile nella sua vera natura.

 

 

 

II

Kurt Vonnegut, Ghiaccio-Nove (1963; 2017 Feltrinelli, traduzione di Delfina Vezzoli)

 

“Che religione deprimente!” gridai. Orientai la nostra conversazione sull’area dell’utopia, su ciò che avrebbe potuto essere, ciò che avrebbe dovuto essere, ciò che forse poteva ancora essere, se il mondo si fosse scongelato.

Ma anche Bokonon aveva visitato quest’area del pensiero, aveva scritto un libro intero sulle utopie, il Settimo libro, che lui chiamava “La Repubblica di Bokonon”. In quel libro troviamo questi spaventosi aforismi:

La mano che rifornisce le farmacie governa il mondo. Diamo inizio alla nostra Repubblica con una catena di farmacie, una catena di drogherie, una catena di camere a gas, e un gioco nazionale. Dopodiché potremo scrivere la nostra Costituzione.

Definii Bokonon uno sporco negro bastardo e cambiai di nuovo argomento. Parlai di atti eroici individuali e significativi. Lodai in particolare il modo in cui Julian Castle e suo figlio avevano scelto di morire. Mentre ancora infuriavano i tornado, si erano incamminati a piedi verso la Casa della Speranza e della Misericordia nella Giungla, per donare tutta la speranza e la misericordia che era in loro potere donare. E mi sembrava grandioso anche il modo in cui era morta Angela. Aveva raccolto un clarinetto tra le rovine di Bolivar e aveva incominciato subito a suonarlo, incurante del fatto che l’ancia potesse essere contaminata dal ghiaccio-nove.

“Continua a suonare, dolce cornamusa” mormorai con voce rotta.

“Be’, forse anche tu potresti trovare un bel modo di morire” disse Newt.

Era una cosa molto bokononista da dire.

Non riuscii a trattenermi e buttai lì il mio sogno di scalare il Monte McCabe con un simbolo grandioso e piantarlo sulla vetta. Tolsi le mani dal volante per un attimo, per mostrargli come fossero vuote di simboli. “Ma cosa diavolo potrebbe essere il simbolo giusto, Newt. Cosa diavolo potrebbe essere?” Mi aggrappai di nuovo al volante. “Eccola qui, la fine del mondo; ed eccomi qui, l’ultimo uomo sulla terra, o quasi; ed eccola là, la montagna più alta in bella vista. Adesso so a cosa ha lavorato la mia karass, Newt. Ha lavorato notte e giorno per qualcosa come mezzo milione di anni per farmi salire su quella montagna”. Crollai il capo e quasi mi misi a piangere.

“Ma, per l’amor di Dio, cosa dovrei tenere tra le mani?”

Mentre facevo questa domanda, guardai fuori dal finestrino ciecamente, così ciecamente che procedetti per più di un miglio prima di rendermi conto che avevo guardato negli occhi un vecchio negro, un uomo di colore, vivo e vegeto, seduto sul ciglio della strada.

E allora rallentai. E poi mi fermai. Mi coprii gli occhi. “Che succede?” chiese Newt.

“Ho visto Bokonon, là dietro.”

Era seduto su un masso. Era scalzo. Aveva i piedi coperti dalla brina del ghiaccio-nove. Il suo unico indumento era un copriletto bianco con nappe azzurre. Le nappe formavano la scritta Casa Mona. Non si curò del nostro arrivo. In una mano teneva una matita. Nell’altra un pezzo di carta.

“Bokonon?”

“Sì?”

“Posso chiederle a cosa sta pensando?”

“Sto pensando, giovanotto, alla frase conclusiva dei Libri di Bokonon. È giunto il momento di scrivere la chiusa.”

“E come sta venendo?”

Fece spallucce e mi porse il pezzo di carta.

Questo è quanto lessi:

Se fossi più giovane, scriverei una storia della stupidità umana, e scalerei la vetta del Monte McCabe e mi sdraierei sulla schiena con la mia storia per cuscino; e raccoglierei da terra un po’ di quel veleno biancoazzurro che trasforma gli uomini in statue; e trasformerei in una statua anche me stesso, sdraiato sul dorso, con un ghigno orrendo, e il pollice sul naso a fare marameo a Tu Sai Chi.

 

 

 

III

Naomi Alderman, ragazze elettriche (2016; 2017 Nottetempo, traduzione di Silvia Bre)

 

Quella faccenda è esplosa in tutto il mondo e nessuno sa cosa cazzo stia succedendo. 

All’inizio, sono comparse in tv alcune facce rassicuranti, i portavoce del Centro per il Controllo delle Malattie, e hanno dichiarato che si trattava di un virus, non molto grave, che gran parte delle persone ricoverate stavano guarendo, e che solo in apparenza alcune ragazzine avevano fulminato delle persone usando le mani. Sappiamo tutti che è impossibile, naturalmente, che è pazzesco – i conduttori dei notiziari ridevano così forte da far screpolare il cerone. Per puro divertimento, avevano invitato un paio di biologi marini a parlare delle anguille elettriche e di come è strutturato il loro corpo. Un tizio con la barba, una tipa con gli occhiali, pesci da acquario in una vasca – sono la garanzia di un robusto segmento di programmazione del mattino.

Lo sapevi che l’uomo che ha inventato la batteria aveva avuto l’idea studiando il corpo delle anguille elettriche? Non lo sapevo, Tom, è affascinante. Ho sentito che possono abbattere un cavallo. Dici davvero? Non l’avrei immaginato. Pare che un laboratorio giapponese abbia alimentato le luci dell’albero di Natale con una vasca di anguille elettriche. Non riusciamo a farlo con queste ragazze, al momento, vero? Direi di no, Kristen, direi proprio di no. Anche se sembra che ogni anno il Natale arrivi un po’ prima, non ti pare? E ora gli ultimi aggiornamenti del meteo. 

Margot e l’ufficio del sindaco prendono sul serio la notizia molti giorni prima che le redazioni dei notiziari capiscano che è autentica. Sono loro a ricevere i primi rapporti sugli scontri nei cortili della ricreazione. Un nuovo strano genere di scontro che lascia  i ragazzi – per lo più maschi, talvolta femmine – ansimanti e in preda a contrazioni muscolari, con cicatrici simili a foglie che si srotolano serpeggiando lungo le braccia o le gambe, oppure sulla carne morbida del busto. La loro prima ipotesi, accantonata la malattia, è quella di una nuova arma, qualcosa che i ragazzi portano a scuola, ma quando la prima settimana sfuma nella seconda, sanno già che non è così. 

Si aggrappano a qualunque folle teoria salga alla ribalta, senza sapere come distinguere il verosimile dal ridicolo. A notte fonda, Margot legge il rapporto di un’équipe di Delhi, la prima a scoprire la fascia di muscoli striati intorno alla clavicola delle ragazze, che definiscono organo dell’elettricità, o matassa, per i suoi filamenti attorcigliati. Alla base del collo sono presenti alcuni elettrorecettori che, secondo la loro ipotesi, permettono una forma di ecolocazione elettrica. Nuclei di matassa sono stati rilevati utilizzando la risonanza magnetica per analizzare le clavicole di bambine neonate. Margot fotocopia questo rapporto e lo trasmette via e-mail a ogni scuola dello Stato; per giorni, è l’unica voce scientificamente attendibile in una mare di interpretazioni confuse.

[…]

Poco prima di dormire, Margot pensa alle formiche alate, al fatto che ogni estate c’è sempre un giorno particolare in cui la casa sul lago pullula di quegli insetti, fitti sul terreno, aggrappati alle strutture di legno, vibranti sui tronchi degli alberi, quando l’aria ne è così piena da farti pensare che potresti inspirarli. Vivono sottoterra, quelle formiche, per tutto l’anno, completamente sole. Nascono dalle uova, e mangiano chissà cosa – polvere, semi, o qualcos’altro – e aspettano, aspettano. E a un certo punto, dopo che la temperatura è stata ideale per il giusto numero di giorni, e quando il grado di umidità è quello appropriato… prendono tutte il volo nello stesso momento. Per ritrovarsi le une con le altre. Margot non potrebbe raccontare un pensiero del genere a nessuno. Direbbero che ha perso la testa a causa della tensione e, lo sa Dio, c’è sempre un discreto numero di persone interessate a prendere il suo posto. Comunque, è distesa sul letto dopo una giornata in cui si è occupata di bollettini di ragazzini ustionati, di ragazzi con attacchi epilettici, di bande di ragazze che fanno a pugni e che vengono messe sotto custodia per la loro stessa sicurezza, e pensa: perché adesso? Come mai proprio adesso?E tornano a spuntarle in testa quelle formiche, in attesa del loro momento, in attesa della primavera.  

 

 

 

 

 

 

 

 

Sopravvivere non è sufficiente è una serie di uscite che raccoglie brani letterari sulla fine del mondo e la pandemia – dall’aggettivo greco πανδήμιος (pan ‘tutti’; demos ‘popolo’) “che riguarda tutti” – costituiscono il punto di partenza di nuove riflessioni sul presente. Qui la prima puntata della serie con Mary Shelley, Guido Morselli e Emily St. John Mandel; qui la seconda, con Camille Flammarion, Joanna Russ e Jack London. 

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