Un’enciclopedia della fine: leggere il contemporaneo attraverso i racconti sulla fine del mondo
Fragilité des choses qui sont,
Eternité des choses qu’on rêve.
DARMESTETER
I
Camille Flammarion, La fine del mondo (1894; Oregan Publishing 2018, traduzione di Paolina Mochi)
Qualche volta la sera, quando il sole era tramontato dietro le rovine, Eva sentiva l’anima oppressa, contemplando l’immenso deserto che li circondava e, pure stringendo il suo diletto tra le braccia, non poteva trattenere le lacrime che le annebbiavano gli occhi. Sì, sperava nell’avvenire. Ma quale solitudine e quale silenzio! Quale strana eredità di un’umanità così radiosa! I ricordi erano là. I libri della biblioteca raccontavano le glorie del passato, le incisioni le facevano rivivere dinanzi agli occhi meravigliati; gli apparecchi fonografici facevano udire, quando si voleva, le voci dei morti illustri, e l’immagine stessa di quei morti illustri poteva apparire a volontà sul lucido schermo delle proiezioni telefotiche. Nei vecchi forzieri di metallo grandi come stanze, le mani si potevano tuffare in miliardi di monete d’oro di ogni peso e di ogni impronta, vana eredità di ricchezze inutilmente accumulate. Gli strumenti di fisica e d’astronomia che avevano trasformato il mondo giacevano nella polvere. Padroni del mondo, i due erano più poveri dei più poveri dei tempi antichi.
“A che ha servito, dunque, tutto? – diceva ella, mentre i suoi occhi vagavano su quei ricordi della morta umanità; sì, a che hanno valso tutti i lavori, tutti gli sforzi, tutte le scoperte e le conquiste, tutti i delitti e tutte le virtù? Tutte le nazioni, a loro volta, hanno raggiunto l’apogeo della grandezza e sono scomparse, ed ogni città è stata raggiante di gloria e di piacere e si è sgretolata in polvere. Ecco le rovine; la Terra ne è coperta: le antiche sono sepolte dalle recenti; rovine su rovine. Le ultime avranno la stessa sorte. Dei miliardi di uomini che hanno vissuto qui, che resta? Niente. E perché dunque, di’, o mio adorato, tu che sai tutto, perché dunque Dio ha creato la Terra?… E perché aveva creato l’umanità? Non è un poco folle Dio, o mio amore? Tutti i miliardi di uomini che hanno pullulato sulla Terra e si sono lamentati su questa piccola palla rotolante, a che hanno servito, se nulla rimane? Non è proprio come se non vi fosse stato mai nulla?
Io so bene che gli abitanti di Marte hanno avuto la stessa sorte, e quando quelli di Venere comunicavano ancora con noi, qualche secolo fa, credevano di non morir mai. Ecco quelli di Giove che cominciano e non sono ancora stati capaci di comprendere i nostri messaggi. Anche essi subiranno la stessa sorte. Dimmi, è una commedia o un dramma, la creazione? Il Creatore si diverte coi suoi burattini, e gode a farli soffrire?”
“Perché indagare, Eva mia? Oh, i tuoi begli occhi non si turbino così! Vieni a sederti sulle mie ginocchia, a riposare la tua bella testina sul mio cuore. Dio ha creato il mondo soltanto per l’amore. Dimentica il resto.”
II
Joanna Russ, Quando cambiò (1972; Not 2018, Le Visionarie, traduzione di Oriana Palusci)
“Dov’è tutta la vostra gente?”, chiese in tono discorsivo. Tradussi ancora e scrutai i volti nella stanza: Lydia imbarazzata (come al solito), Spet con gli occhi sgranati e qualche dannato proposito in mente, Katy molto pallida.
“Siete su Whileaway”, dissi io.
Continuava a non capire.
“Whileaway”, dissi, “non ricorda? Non risulta dai vostri archivi? Ci fu un’epidemia su Whileaway”.
Dava segni di interesse. In fondo alla stanza, alcune teste si volsero e io riuscii a intravedere la delegata di zona del parlamento delle professioni. Il mattino seguente, ogni riunione di città, ogni comitato di distretto avrebbe funzionato a pieno ritmo.
“Epidemia?”, esclamò. “Una bella disgrazia!”
“Sì”, dissi, “una bella disgrazia. Abbiamo perso metà della popolazione in una sola generazione.”
Sembrava davvero impressionato.
“Whileaway è stata fortunata,” aggiunsi. “Avevamo una grande riserva energetica iniziale, eravamo state scelte per la nostra estrema intelligenza, avevamo una tecnologia avanzata e una popolazione numerosa in cui ogni persona adulta valeva come due o tre esperti. Il terreno è buono. Il clima è incredibilmente mite. Siamo circa trenta milioni. La situazione si sta evolvendo molto rapidamente nel settore industriale – capisce? Nel giro di settant’anni avremo più di una vera città, più alcuni centri industriali, professioni a pieno ritmo, operatori radio e meccanici a tempo pieno. Nel giro di settant’anni non tutti dovranno trascorrere tre quarti della vita in una fattoria”. E cercai di spiegare la difficoltà, da parte delle artiste, di esercitarsi a tempo pieno soltanto a tarda età, quando solo poche, ma veramente poche persone possono essere libere, come Katy e me. Tentai anche di descrivere a grandi linee la nostra forma di governo, le due Camere, quella delle professioni, l’altra basata sulla posizione geografica; gli dissi che i comitati di distretto si occupavano dei problemi troppo grandi per le singole città. E che il controllo della popolazione non era un problema, non ancora, anche se lo sarebbe stato a tempo debito. Questo era un punto delicato della nostra storia. Dateci tempo. Non c’era nessun bisogno di sacrificare la qualità della vita per una pazza corsa all’industrializzazione. Andiamo al nostro passo. Dateci tempo.
“Dov’è tutta la gente?”, chiese quel monomaniaco.
Allora mi resi conto che non voleva dire gente, voleva dire uomini, e dava alla parola il significato che non aveva più da seicento anni su Whileaway.
“Sono morti”, dissi. “Trenta generazioni fa”.
III
Jack London, La peste scarlatta (1901; Adelphi 2012, traduzione di Ottavio Fatica)*
“Nel grande albergo di Yosemite, questo il nome della valle, trovai un’enorme scorta di scatolame. Il pascolo era abbondante, come la selvaggina, e il fiume che attraversava la vallata era pieno di trote. Ci rimasi tre anni, confinato in una solitudine assoluta, che solo chi abbia conosciuto una civiltà evoluta può capire. A un certo punto non ne potevo più. Sentii che stavo per impazzire. Come il cane, ero anch’io un animale socievole e avevo bisogno dei miei simili. Se io ero sopravvissuto alla peste, non potevo scartare l’eventualità che fossero sopravvissuti anche altri. Per giunta, dopo tre anni i germi della peste dovevano essere scomparsi e la terra doveva essere di nuovo incontaminata.
Con il cavallo, i cani e il pony, mi rimisi in marcia. Riattraversai la valle di San Joaquin, le montagne, e scesi nella valle di Livermore. […]
I coyote si erano moltiplicati a dismisura e fu a quell’epoca che incontrai per la prima volta i lupi, calati a due o tre o a piccoli branchi dalle regioni dove si erano radicati.
E sul lago Temescal, non lontano da quella che un tempo era la città di Oakland, mi imbattei nei primi esseri umani viventi. Oh, nipoti miei, come faccio a descrivervi l’emozione che provai quando, mentre scendevo dalla collina verso il lago in groppa al mio cavallo, scorsi il fuoco di un accampamento che si levava in mezzo agli alberi? Per poco il cuore non cessò di battere. Mi sembrava di impazzire. Poi sentii il vagito di un neonato… di un piccolo essere umano. E i cani abbaiarono, e i miei risposero. E io che credevo di essere l’unico essere umano vivente al mondo. Non poteva essere vero: c’erano altri… il fumo e il pianto di un neonato!
Lì, in riva al lago, davanti ai miei occhi, a meno di cento metri, scorsi un uomo, un omaccione. Pescava, in piedi sulla punta di uno scoglio. Ero sopraffatto. Fermai il cavallo. Cercai di chiamare ma non mi riuscì. Agitai la mano. Mi parve che l’uomo mi guardasse, ma non accennò a rispondere. Allora, sempre in sella, poggiai la testa sulle braccia. Avevo paura di guardare di nuovo. Sapevo che era un’allucinazione, e sapevo che, se avessi guardato, l’uomo sarebbe sparito. E l’allucinazione mi era così cara che volevo farla durare ancora un poco. Sapevo anche che, fintanto che non guardavo, non si sarebbe cancellata.
Rimasi così sino a quando non sentii ringhiare i miei cani e la voce di un uomo. E che diceva secondo voi quella voce? State a sentire. Diceva: ‘E tu, da dove diavolo spunti?’”.
“Queste le parole, le parole testuali. Questo è quanto mi disse l’altro tuo nonno, Labbro Leporino, nel darmi il benvenuto sulle rive del lago Temescal cinquantasette anni fa. Non ho mai udito parole più ineffabili. Aprii gli occhi e mi trovai di fronte un omaccione scuro e irsuto, con la mascella pesante, la fronte sfuggente e l’occhio feroce. Come io sia riuscito a smontare da cavallo non lo so. So solo che un istante dopo, piangendo, gli stringevo la mano nelle mie. Lo avrei abbracciato ma lui, da quell’uomo prevenuto e diffidente che era, si ritrasse. Io però piangendo rimasi attaccato alla sua mano.”
La voce del vecchio era rotta dall’emozione a quel ricordo e languide lacrime gli solcavano le guance mentre i ragazzi lo squadravano ridacchiando.
“Fatto sta che piangevo” riprese “e avevo voglia di abbracciarlo anche se l’Autista era un uomo bruto, un vero bruto, l’uomo più spregevole che io abbia mai conosciuto. Si chiamava… strano, non me lo ricordo. Lo chiamavano tutti Autista: era il nome del suo mestiere, e gli era rimasto. Ecco perché la tribù da lui fondata si chiama, a tutt’oggi, la tribù degli Autisti.”
*Jack London avrebbe tratto ispirazione per questo romanzo da L’ultimo uomo, di Mary Shelley (1826) che abbiamo ospitato nella prima puntata.
Sopravvivere non è sufficiente è una serie di uscite che raccoglie brani letterari sulla fine del mondo e la pandemia – dall’aggettivo greco πανδήμιος (pan ‘tutti’; demos ‘popolo’) “che riguarda tutti” – costituiscono il punto di partenza di nuove riflessioni sul presente. Qui la prima puntata della serie con testi di Mary Shelley, Guido Morselli e Emily St. John Mandel.