Un’enciclopedia della fine: leggere il contemporaneo attraverso i racconti sulla fine del mondo
Da oggi, il lavoro culturale pubblicherà una serie di brani letterari nei quali la fine del mondo e la pandemia – dall’aggettivo greco πανδήμιος (pan ‘tutti’; demos ‘popolo’) “che riguarda tutti” – costituiscono il punto di partenza di nuove riflessioni.
Che fare? – ce lo chiediamo in un momento in cui parole come “straordinario” e “incredibile” si rivelano armi di interpretazione spuntate, penosamente insufficienti. Ma se dare un nome e raccontare ciò che accade è quanto mai vitale – per un ordine di necessità estraneo certamente a quello concreto sanitario imminente ma che, è sicuro, avrà un impatto importante sulle modalità con cui staremo al mondo dopo la pandemia di Covid19 – è forse opportuno ritrovare e sollecitare alcune letture anche e soprattutto perché mentre impariamo ad abitare la nostra quarantena, è impossibile non domandarsi il senso di ciò che sta accadendo e di quello che avverrà dopo. Come indagare la dimensione dell’isolamento (e trovare sollievo da questa indagine)? Come ripensare il rapporto con la natura e il mondo? Non vogliamo offrire l’ennesimo spazio al proliferare del discorso del contagio e le sue immagini, alimentando una sorta di stallo morboso e ripetitivo, deleterio perché non darebbe strumenti interpretativi e saturerebbe l’immaginario. Al contrario, riprenderemo romanzi e racconti distopici e fantascientifici che possono fornirci una chiave cognitiva ed emotiva inedita ai paesaggi pandemici che stiamo vivendo, all’io o al noi che li abitano.
I
Mary Shelley, L’ultimo uomo (1826; Parole d’Argento edizioni, traduzione di Silvia Cecchini)
Cosa siamo noi, abitanti di questo globo, il più piccolo tra i molti che popolano lo spazio infinito?
Le nostre menti abbracciano l’infinito; il meccanismo visibile del nostro essere è soggetto al più semplice accidente. Giorno per giorno siamo costretti a crederlo. Colui che è stato distrutto da un graffio, chi scompare dalla vita visibile sotto l’influenza delle forze ostili che ci attorniano, aveva le mie stesse facoltà – anche io sono soggetto alle stesse leggi. A dispetto di tutto questo, noi ci chiamiamo padroni della creazione, dominatori degli elementi, padroni della vita e della morte, e adduciamo a scusa di questa arroganza il fatto che, anche se l’individuo viene distrutto, l’uomo può continuare per sempre. Così, perdendo la nostra identità, che è quella di cui siamo maggiormente coscienti, ci gloriamo della continuità della nostra specie, e impariamo a guardare la morte senza terrore. Ma quando una qualsiasi nazione diviene la vittima di poteri distruttivi di agenti esterni, allora invero l’uomo diventa piccolo fino ad essere insignificante, sente diventare insicura la sua permanenza in vita, e negata la sua eredità terrena. Ricordo, che, dopo aver assistito agli effetti distruttivi di un incendio, non potevo neppure guardare un piccolo fuoco in una stufa senza provare paura. Le fiamme che salivano si arricciavano attorno all’edificio, che cadeva e ne veniva distrutto. Si insinuavano nelle sostanze attorno ad esse, ed ogni ostacolo alla loro avanzata cedeva prontamente al loro tocco.
Potevamo prendere parte integrale a questo potere e non essere esposti alla sua azione? Potevamo forse addomesticare un cucciolo di questa bestia selvaggia e non temere la sua crescita e immaturità? Questo iniziammo a sentire, rispetto alla morte dai molti volti che si aggirava nelle regioni scelte della nostra bella dimora, e soprattutto, rispetto alla peste. Temevamo la vicina estate. Le nazioni confinanti ai paesi già colpiti iniziarono a fare dei seri piani per fermare meglio il nemico. Noi, un popolo commerciale, fummo obbligati a prendere in considerazione tali progetti: e la questione del contagio divenne oggetto di serie discussioni.
II
Guido Morselli, Dissipatio H.G. (1977, Adelphi)
Robinson Crusoe per aggiornarsi incideva tacche in un palo, il che non sarebbe passato per la testa a quell’altro famoso navigatore e naufrago: Ulisse. Robinson, da uomo moderno, era sospeso fra due incredulità, non si fidava più del senso organico che registra senz’errori l’accumularsi dei giorni e delle notti, e dava poco credito (non a torto) all’Ich-Zeit. Al tempo psichico. Per noi quelle incredulità si sono esasperate e complicate. Abbiamo lo spauracchio del “realismo ingenuo”: è da ingenui illudersi che il tempo e lo spazio siano oggettivi come pensare che un bambino voglia bene alla mamma invece di concupirla. Il tempo organico non lo sappiamo più ascoltare, mentre il tempo psichico ci si confonde con quella pappa di sensazioni-impressioni in cui abbiamo sfatto, ossia soggettivato, il mondo esterno. Le sue qualità, le sue misure.
Dopo il 2 giugno, avrei dovuto segnare i giorni su un calendario. Ma non avevo né calendari né orologi-calendario (‘prima’, per datarmi bastavano i giornali). Rifuggivo dagli scanditori artificiali che danno ancora un altro genere di ‘tempo’, quello che è senza spessore e che esclude le pause: e appunto perciò ne moltiplichiamo all’infinito gli strumenti intorno a noi. La nostra fretta, si capisce, è patologia: ansia di bruciare la vita.
A me si è posto oggi il problema: ricuperare, in tanta confusione di ‘tempi’, una dimensione effettiva, credibile. Ricuperarla o verificarla, perché in verità io non ne sono ignaro del tutto, e un istinto mi avvertiva che, dallo scoccare dell’Evento, erano due settimane intere, e abbondanti. Bene, il problema mi si è risolto nel modo più semplice, col ‘cronoformaggio’. Un certo tipo di formaggio d’importazione, bianco, burroso (un po’ simile al neufchâtel) che, quando è fresco, io trovo molto buono, lo mangiavo volentieri. Ero al Mayr a fare la spesa, o l’incetta viveri. Passando vicino a un montapiatti, in cucina, ho sentito una zaffata di odore aguzzo, non sgradevole. Apro lo sportello, c’è un grande vassoio carico di formaggi, fra cui quel tale formaggio estero. Lo rivestiva uno strato di muffa. A filamenti lunghi, densi, verdastri, una vegetazione. Ci immergo il dito, la muffa è alta un paio di centimetri. In quanto a formaggi ho una certa competenza, concludo che per formarsi quello strato ha impiegato almeno quindici giorni. Niente da ridere. Il cronoformaggio è un test non più empirico del carbonio radioattivo. Né più opinabile. Il conto del tempo fatto da me sembra dunque abbastanza esatto. E questo è importante, perché le probabilità che l’Evento sia reversibile calano col passare dei giorni. ‘I cari scomparsi’ diventano, sempre più verosimilmente, i ‘cari estinti’.
Il macchinone sociale era capace di macinare instancabilmente, indefinitamente; purché non si bloccasse un solo attimo. O la continuità ininterrotta, o la decomposizione immediata. Secondo la sua stessa logica, non dovrebbe potersi riprendere. Ma ci si può fidare?
III
Emily St. John Mandel, Stazione Undici (2014, Bompiani, traduzione di Milena Zemira Ciccimarra)
Quello che si è perso nel collasso: quasi tutto, quasi tutti, ma c’è ancora tanta bellezza. Il crepuscolo nel mondo trasformato, una rappresentazione del Sogno di una notte di mezza estate dentro un parcheggio, nella città che porta il misterioso nome di St. Deborah by the Water, il lago Michigan che scintilla a un chilometro di distanza. Kirsten nella parte di Titania, con una corona di fiori sui capelli cortissimi , la cicatrice slabbrata sullo zigomo mezza cancellata alla luce delle candele. Il pubblico è in silenzio. Sayid, che le gira intorno in uno smoking che Kirsten ha trovato nell’armadio di un uomo morto vicino alla cittadina di East Jordan: “Ferma, sciocca sfrontata! Non sono io il tuo signore?”
“Se così fosse, io sarei la tua dama.” Le battute di un’opera scritta nel 1594, l’anno in cui i teatri di Londra riaprirono dopo due stagioni di peste. O forse in quello seguente, nel 1595, un anno prima della morte dell’unico figlio di Shakespeare. Diversi secoli dopo, in un continente distante, Kirsten si muove sulla scena in una nuvola di tessuto macchiato di pittura, infuriata e innamorata al tempo stesso. Indossa un abito da sposa che ha trovato frugando in una casa vicino a New Petoskey, lo chiffon e la seta striati d’azzurro in diverse tonalità dalla scatola di acquerelli di qualche bambino.
“…tu, con le tue scenate,” continua, “disturbi i nostri svaghi.” Non si sente mai così viva come in questi momenti. Quando è in scena, non ha paura di niente. “Per questo i venti, stanchi di zufolare invano, per vendetta hanno risucchiato su dal mare nebbie pestilenziali…”
Contagiose, spiega una nota nel testo accanto alla parola pestilenziali, nella versione preferita di Kirsten delle tre che l’Orchestra Sinfonica possiede. Shakespeare era il terzogenito dei suoi genitori, ma fu il primo a superare l’infanzia. Quattro fratelli morirono in giovane età. Suo figlio, Hamnet, morì a undici anni e lasciò dietro di sé una gemella. La peste chiuse ripetutamente i teatri, più e più volte, la morte balenava sopra il paesaggio. E adesso, in un crepuscolo illuminato ancora una volta dalle candele, dopo che l’epoca dell’elettricità era venuta e passata, Titania si volta a fronteggiare il suo re delle fate. “Perciò la luna, che governa le maree, pallida di rabbia, infradicia l’aria, tanto che abbondano tossi e catarri.”
Oberon la guarda, circondato dal suo corteo di fate. Titania parla come a se stessa adesso, dimentica di Oberon. La sua voce risuona acuta e chiara sopra il pubblico silenzioso, sopra la sezione degli archi che aspettano il segnale alla sinistra della scena. “E per questi squilibri vediamo alterarsi le stagioni.”
Tutti e tre i carri dell’Orchestra portano il nome ORCHESTRA SINFONICA ITINERANTE, in lettere bianche, su entrambe le fiancate, ma il primo reca una riga di testo in più: Perché sopravvivere non è sufficiente.