Solidi. Resti della catastrofe

“Solidi. Archeologia dell’avvenire” è l’ultima mostra di cyop&kaf, all’acquedotto Augusteo del Serino, a Napoli.

Foto: Mario Spada; net flex

Dal cortile interno d’un palazzo della Sanità, a Napoli, scende la scala in un antro cupo e umido. Archi antichi di mattoni rossi, là sotto, appartengono all’antico acquedotto augusteo che collegava l’altopiano irpino a Miseno, raduno della flotta imperiale. Il passo segue i gradini, il capo s’abbassa e nel buio l’occhio s’abitua a luci fioche: candele illuminano le arcate. Abitano fra i lumi piccole presenze, immagini materiali in terracotta ricoperte di cemento. Ho intravisto un umano senza braccia e una gamba in ferro, uno aveva un arto imprigionato in un tubo, uno strano animale compare accovacciato, ecco un busto circondato da un’esile struttura metallica. Sono presenze che occupano le nicchie, i buchi nel muro, gli angoli, il pozzo. Una musica cavernosa accompagna i movimenti incerti, il fluttuare delle fiammelle.

Sono forse anime anonime del purgatorio, rimugina la mente, oppure figure della sofferenza umana, idoli di credenze ctonie. Perché domandare il significato alle piccole, solide presenze? L’importante è andare all’avventura, scovare le forme con l’aiuto d’una torcia, giocare con l’ombra proiettata sul muro invecchiato. Chi osserva è un esploratore: ogni immagine solida è l’esito di un ritrovamento nel breve attimo che anticipa l’interpretazione. Il corpo fantastica nello spazio sotterraneo, fra enigmatici abitanti. Sono stato un archeologo alla scoperta dei resti antichi d’una civiltà perduta, poi un fedele devoto che celebra riti pagani legati al fuoco, infine l’accolito di una setta dimenticata: mio il compito di tenere accese le fiammelle. Ma i bambini accanto sussurravano storie più fascinose ancora.

Credo d’aver visto queste figure altrove, in passato. Apparvero sui muri della città, prima che una luce artificiale – la luce dello spettacolo – le minacciasse. È una luce che divora e tutto digerisce. Poi le ritrovai in un piccolo libro dalla copertina grigia: s’erano rifugiate fra pagine d’uno spazio infero e incolore. Questo luogo di carta ricordava la dimora di spiriti televisivi allestita da Beckett: “Luce: debole, onnipresente. Nessuna fonte visibile. Luminosità globale, si direbbe. Debole luminosità. Nessuna ombra. (Pausa.) Nessuna ombra. Colore: nessuno. Tutto grigio. Sfumature di grigio. (Pausa.) Colore: grigio, se preferite, sfumature del colore chiamato grigio”. (Trio di spiriti). Il grigio incolore è un rischio che affascina, perché conduce all’esaurimento dei possibili, ovvero all’impotenza. Nel libro grigio, tuttavia, si notavano qua e là delle ombre, come quella del piccolo uomo sull’altalena, minacciato da una punta acuminata. Sono i corpi materici a fare ombra ed ecco, finalmente, le figure si sono solidificate in cemento e terracotta, qui sotto nell’acquedotto. L’ombra ondeggia al ritmo del lume.

Questi solidi sono una “archeologia dell’avvenire”. Sono immagini del nostro presente osservate da un archeologo del futuro: resti interrati dopo la catastrofe. Nel mio gioco sotterraneo fingevo d’essere un archeologo del 2524, capitato per caso fra le macerie d’una Napoli scomparsa. Le mie labbra, al buio, già dettavano gli appunti di una scoperta; erano note ricche di ipotesi fallaci, domande, esclamazioni di stupore. Mi sono interrotto d’improvviso. Perché il futuro – qualunque esso sarà – dovrebbe avere un’archeologia? In altre parole, perché dotare civiltà altre d’un senso della storia moderno? L’archeologia dell’avvenire coinvolge il nostro sguardo nel tempo che abbiamo ricevuto in sorte: è un modo d’immaginare questo presente come il passato di un futuro eventuale. Sottoterra il tempo mi è apparso raggrumato in un punto dove tutto è sempre un qui e ora. Gli altri tempi – il futuro, il passato – sono oscillanti proiezioni, ombre sul muro dell’acquedotto romano.

Siamo nell’epoca della connessione simultanea. L’archeologo attento può ritrovare il nome di ogni figura: “Interfaccia”, “Codice sorgente”, “You born”, “Banda larga”. Forse siamo invischiati fra le maglie d’una rete che imprigiona più dei ferri arrugginiti che gravano sugli arti dei piccoli abitatori d’acquedotto. Questo mi porta alla memoria un giorno di carnevale ai Quartieri Spagnoli. Avevo lo zaino sulle spalle e un treno stava per partire. D’improvviso uscì dalla terra – il sottosuolo, di nuovo – il gigante Golia alto come un palazzo, spaventoso, con grave andatura da leviatano. Teneva un’arma pericolosa nella mano sinistra, una rete nella destra. Sul corpo aveva tatuati i simboli arcani della connessione senza fili. “Tutti nella rete”, urlava. Ma dall’altra parte del quartiere avanzava un piccolo Davide armato di fionda. È una lotta che sempre si rinnova.

Foto: Mario Spada; bootleg
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