Dialogo con Vitaliano Trevisan, scrittore, attore e drammaturgo, a partire dal suo ultimo libro Works (Einaudi Stile libero, 2016).
«Pensando alla mia storia lavorativa nel suo complesso, potrei ben dire che di altro non si sia trattato se non di una lunga successione di false partenze, di strade imboccate senza sapere bene perché, e tutte presto o tardi lasciate». Works di Vitaliano Trevisan (Einaudi Stile libero, 2016) ripercorre la sua «lunga, e variegata, e spesso disperata» vita da lavoratore dipendente. Che si tratti di «stampare teste di abbeveratoi» per quaglie, progettare cucine componibili, spacciare acidi, ricaricare cartucce per stampanti in un cooperativa per disabili, vendere gelato in Germania, coordinare ex tossici nella manutenzione di spazi verdi, realizzare grondaie sospeso nel vuoto o fare il portiere notturno in albergo, il libro rivela come e quanto il lavoro abbia influenzato la vita e le opere dell’autore. Ho incontrato Trevisan a Vicenza per rivolgergli alcune domande.
Nicolas Gruarin: Forse più che nell’argomento – i lavori connessi alle opere – il valore del libro si dovrebbe cercare nei dettagli accidentali o negli episodi meno nobili del suo percorso. Più che voler diventare una professione – lo scrittore – Works sembra rivelare il desiderio di scoprire se stessi. È cosi?
Vitaliano Trevisan: Sì, un uomo è quello che fa. Dunque, sì.
N.G.: Il libro descrive un’esistenza trasfigurata dal fallimento. In esergo al suo Trio senza pianoforte c’è una frase di Robert Walser: «Mi spaventa l’idea che potrei avere successo nella vita». Scrivere significa coltivare con ostinazione e cura il proprio fallimento?
V.T.: Be’, sì. E magari anche venderlo. È una grande soddisfazione poter fare dei soldi sul proprio fallimento.
N.G.: Oltre a evocare tutti i mestieri sfiorati come destini, Works è anche un percorso attraverso gran parte della sua produzione letteraria, quasi un commento. Vita e opere sono per lei inscindibili?
V.T.: Sì, da sempre. Anche perché ci ho messo molto a iniziare a scrivere. Mentre a tutti sembrava che non facessi nulla o quasi, in realtà stavo pensando. Più o meno come succede adesso.
N.G.: «Come posso ritrovare una struttura se non ho più un pensiero strutturato?» scrive Sarah Kane in Psicosi delle 4 e 48, testo a lei caro. La sua nuova scrittura, a partire da Tristissimi giardini, pur muovendo dai consueti riferimenti, sembra avere una struttura meno evidente e forse meno solida. Questo spostamento privo di appoggi sicuri le dà maggiore libertà o insicurezza?
V.T.: La libertà non si può scindere dall’insicurezza. «Libertà in sicurezza» è una delle sciocchezze più grandi che si sentono dire oggi. Non esiste. Più uno è lasciato libero, più sono cazzi suoi. Il mestiere non conta, è questione di persone, dello spirito che le muove. Se poi agiscono in ambito artistico non significa per forza che siano più libere. Può essere vero solo in apparenza. Certo, i soldi danno maggiore libertà.
N.G.: Anche il rapporto che vuole instaurare con il lettore sembra diverso dal passato.
V.T.: Si tratta di un cambio di tono, anche se non so spiegarlo. Probabilmente ha a che fare con me. Sono diventato più quieto, nel senso di quietista. Comunque il lettore per me rimane sempre astratto.
N.G.: I suoi tre «non-romanzi» – Un mondo meraviglioso. Uno standard, I quindicimila passi. Un resoconto e Il ponte. Un crollo – possiedono lo stesso protagonista, Thomas, e i complementi dei titoli sembrano indicare un percorso. Si potrebbe considerare una sorta di trilogia?
V.T.: Sì, ma piuttosto inconsapevole. Forse me ne sono accorto scrivendo Il ponte. Sono anche tre percorsi fisici, strutturali: il primo si svolge all’interno delle mura di Vicenza, il secondo ne esce e il terzo ritorna lungo la direttrice che attraversa i luoghi periferici.
N.G.: Thomas scrive e parla le parole dei suoi pensieri che deformano anche il paesaggio esteriore. Come se interno ed esterno dipendessero dallo sguardo e dalla capacità di giudizio di chi li osserva. «Le cose così come sono andate nella testa, solo questo mi interessa, perché tutto ciò che accade, accade per me nella testa» si legge nel Ponte, ma è una frase che vale per l’intera trilogia.
V.T.: Certo, ma il discorso è inverso: mi interessava scrivere di quanto e come il paesaggio entra in ciò che c’è nella testa e nel modo di pensare. A partire da Un mondo meraviglioso e più chiaramente, e con maggior successo, nei Quindicimila passi, si vede come il paesaggio concreto entra nella mente di Thomas. Questa è stata la vera svolta interessante, almeno per me, se ho influito in qualche modo nella letteratura. Una svolta che però non è mai enfatizzata.
N.G.: Leggendo le sue opere ci si imbatte spesso in una triade: che si tratti di un titolo (Trio senza pianoforte), di drammi teatrali (Trilogia della memoria), di concetti come «camminare-pensare-scrivere» o di un’architettura pensata per «pianta, prospetti e sezioni» e non come volume, questa organicità torna di frequente. A queste triadi va aggiunto il terzetto di maestri Beckett-Bernhard-Bacon. Molti autori, anche importanti, entrano nelle nostre vite e se ne vanno. Perché loro sono rimasti?
V.T.: Per tanti motivi, anche personali. Forse perché sono arrivati in un determinato momento. Credo di averli assorbiti, in qualche modo. Tante persone, anche di valore, entrano ed escono dalle nostre vite. Però alla fine ne rimangono solo alcune.
N.G.: Al tempo dei suoi «non-romanzi» venne liquidato da qualcuno come un emulo di Bernhard. Eppure l’imitazione – o, se preferisce, il furto – non è un limite: talvolta si scrive proprio perché prima si è letto qualcosa che ha agito su noi stessi.
V.T.: Del paragone con Bernhard sono conscio e me ne frego. La presenza della sua scrittura nei miei ultimi libri non è più così evidente. Comunque non è fondamentale. L’imitazione è insita nell’uomo. L’opera d’arte è imitazione.
N.G.: Lei ha suonato a lungo la batteria. L’ascolto e lo studio della musica, passare dagli standard alle improvvisazioni, quanto ha portato alla sua scrittura?
V.T.: Mi ha dato un’idea di struttura, mi ha fornito delle possibilità. Avendo suonato molto jazz, gli standard mi vengono naturali ancora oggi. Riscrivere è una pratica comune anche a teatro, dove si adatta la scrittura di un altro autore intrecciandola con la propria. Ma ora ho chiuso con la batteria e il jazz non lo ascolto quasi più.
N.G.: Ci sono molte frasi ed episodi che ritornano tra le sue opere mettendole in dialogo fra loro. La ripetizione serve a creare un ritmo o a credere maggiormente in se stessi?
V.T.: Non so a cosa serva, mi viene naturale. Sono episodi che riscrivo più volte in modo diverso. È qualcosa che mi interessa.
N.G.: Nel Ponte, Thomas sostiene che le parole della lingua italiana sono troppo «leggere, inconsistenti». Come riesce a renderle così percussive?
V.T.: Ogni lingua ha tempi e ritmi diversi. Per apprenderle non basta la grammatica, infatti nel parlato si sente quanto le parole faticano a stare da sole, una dietro l’altra. Solo quando cominci a coglierne il ritmo, l’intonazione, dove cade o meno l’accento, cominci a capire veramente la lingua, a saperla scrivere e parlare. Molto del senso passa da lì. Non è solo una questione tecnica, ma anche etica. Parole come pace, libertà, vanno sempre bene: sono così vaghe che puoi usarle come vuoi. Solo che spesso viene chiesto di prendere posizione senza entrare nel merito e argomentare. Non voto da più di vent’anni e non firmo petizioni perché sono parole che spostano poco, anche se spesso sono ben pagate.
N.G.: «Non ho mai ammesso, in scrittura, che qualcuno potesse decidere per me. Nemmeno alla mia maestra delle elementari, che era davvero unica, ho mai riconosciuto alcuna autorità sui miei scritti» si legge nel racconto Il barilozzo di Amontillado. Da sempre lei rivendica lo spazio per una scrittura personale, compiuta, che non necessita di un editor. In una nota di Works scrive che editing e industrializzazione «sono quasi sinonimi».
V.T.: Confermo. Essendo un esperto di comunicazione, l’editor può trainare lo scrittore dentro al processo, anche inconsciamente, ponendo delle domande e facendo venire dei dubbi. Bisogna invece rimanere saldi.
N.G.: Per la prima volta in Works ha deciso di ricorrere al dialetto, lingua che ha sempre difeso con gelosia, ritenendola qualcosa di estraneo alla scrittura. Cosa le ha fatto cambiare idea?
V.T.: Rispetto ai libri precedenti dove il narratore rendiconta quanto detto dagli altri, qui i personaggi parlano direttamente e spesso si esprimono usando la loro lingua, il dialetto. Non è una scelta ponderata, il tema e le situazioni lo richiedevano.
N.G.: «Ogni “io” comincia con una incrinatura e una rivelazione» scrive Cioran. In Works lei accenna a un evento fondante avvenuto nell’infanzia, ma non ne scrive. Nelle sue opere c’è sempre una reticenza a evocare la giovinezza. Nei Quindicimila passi la definisce il «periodo illogico al massimo grado» e nel Ponte una fase trascorsa «come si passa una malattia».
V.T.: Perché sono nato maturo. O meglio, già vecchio. Ho sempre avuto questa impressione. Quell’episodio fondante a qualcun altro potrebbe sembrare futile. Magari un giorno lo scriverò, ma in un contesto diverso.
N.G.: «Se c’è una cosa che non mi piace di me / sono proprio gli occhi» dice il protagonista del monologo Oscillazioni. Occhi troppo simili a quelli del padre. «Quel che avevo sempre temuto era diventare come mio padre, non certo come mia madre» scrive in Works. Eppure, pur di stargli accanto, lei fingeva interesse per il calcio guardando insieme Il Processo del Lunedì.
V.T.: È vero. Anche adesso ho l’abitudine di leggere «la Gazzetta dello Sport», anche se non me ne frega un cazzo. Comunque nell’adolescenza è normale volersi staccare dal proprio padre.
N.G.: Le donne nelle sue opere sono raramente sensibili e si presentano come ragazze che si abbronzano in bikini, madri che lanciano forchette addosso ai figli, morose interscambiabili, proprie o altrui, suore che mostrano occhi di coniglio spacciandoli per quelli di santa Lucia, sorelle cervelli «di gallina in corpo di maiale», vecchie vedove a cui è meglio rivolgersi con «ferma e affilata gentilezza». «Le donne sono enigmi / impenetrabili / perché vuoti» dice il Signor X, protagonista della tragicommedia Una notte in Tunisia. Crescere in una famiglia matriarcale quanto ha influito sul suo rapporto con le donne?
V.T.: Moltissimo, ma vale per tutti noi, almeno qui in Italia. Sono le madri che educano i figli, li riempiono di sensi di colpa, ci rendono quelli che siamo. Non c’è niente da fare. Quando si parla di Pasolini ci si dimentica sempre di quanto sua madre fosse appollaiata sulle sue spalle. Lui l’ha anche usata per assolversi, scrivendo che l’amore per lei non gli impediva di scopare con chiunque. Mi diverte che nessuno se ne accorga. In fondo lui andava a ragazzetti e gli piaceva perché era rischioso. C’è molto di questo anche nei diari di Joe Orton o, per restare nell’ambiente omosessuale, in Derek Jarman e Robert Mapplethorpe. Tutti diventati delle icone o mezzi martiri, in modo che la società possa assolverli e trarne ciò che vuole. Personalmente, rispetto a Pasolini, apprezzo di più Orton perché se voleva scopare non ne faceva una questione mistica scrivendo una poesia sulla madre. Sarà perché era anglosassone e più diretto. In tutti questi casi, comunque, la madre è fondante, ma lo è anche per gli etero. Semmai c’è da chiedersi come mai questa società sia sempre più effeminata. C’è molta gente che se ne lamenta, soprattutto le donne. Il che è molto divertente.
N.G.: Discorso diverso per quanto riguarda le prostitute poiché «non fanno domande» e «non si aspettano niente». In Solo et pensoso scrive che «scrittori e puttane sono sempre stati in ottimi rapporti», riscontrando una somiglianza tra le due professioni. In Works si accenna a un ipotetico libro sull’argomento.
V.T.: È possibile. Anzi, in pratica l’ho già venduto all’editore assieme a Works, e per certi versi gli assomiglierà. Non riguarda un tema specifico, ma cose e persone che ho visto e conosciuto.
N.G.: Ma davvero, come sostiene Beckett, «l’amore non esiste, esiste solo la scopata»?
V.T.: Sì, però nel senso in cui lo intendeva lui. In fondo, nei suoi libri non fa altro che parlare d’amore.
N.G.: Nel libro Stanza 411, Simona Vinci ha scritto il resoconto soggettivo di una storia d’amore, o meglio, di due corpi che si usano a vicenda. L’uomo del libro ha occhi «che non si scaldano mai», si eccita «con il disprezzo» ed è abituato a mantenere in piedi più relazioni sentimentali perché, dice lui, bisognerebbe «sempre avere tre donne». La protagonista lo asseconda al punto da cambiare fisicamente, dimagrendo, senza che lui glielo abbia mai chiesto. «Questo scritto ti dispiacerà da subito» avverte. È stato così?
V.T.: Tutto quello che scrive Simona mi spiace da subito perché sento che non è autentico. C’è un filtro che le impedisce di passare sulla pagina. Ma lei sa che lo penso.
N.G.: «Ho amato un uomo che non esiste» scrive la protagonista.
V.T.: Certo. Ma questo è anche normale.
N.G.: La sola precisazione pubblica che ha voluto fare al libro – contenuta in Tristissimi giardini – riguarda la madre dell’uomo: l’intonazione di una battuta pronunciata e la descrizione del giardino di famiglia. Forse non è un caso.
V.T.: Mia madre ci vedeva bene… Ho criticato il suo modo di descrivere, che assomiglia a quello di molti colleghi come lei. È troppo facile parlare di una periferia fatta di «cubi di cemento» con «giardini di una tristezza devastante». Significa non vedere nulla. Il suo Strada Provinciale Tre viene da me, però è pieno di stereotipi sull’immigrazione, la violenza. Fare due passeggiate sulla statale non basta a descrivere la realtà. Comunque Simona vende più di me.
N.G.: Il rapporto di Bernhard e Beckett con le loro madri era spaventoso. Per sua madre Lina, lei era una «preoccupazione». Nelle sue opere viene spesso descritta come una donna autoritaria, manesca, pronta a trasformare «tutti in quello che voleva».
V.T.: Non stava bene, poveretta. Si lamentava di un sacco di cose. A un certo punto, al posto delle parole bastava un atteggiamento, uno sguardo di rimprovero, anche solo vederla rassegnata al fatto che non fossi diventato quello che avrebbe voluto. Però aveva un gran senso dell’umorismo.
N.G.: Un rapporto in cui non sono mancati momenti sereni dove provava una «sensazione di pace, di vicinanza, di calore, di uno stare bene con lei». Durante la malattia – come riporta in Madre con cuscino – c’è stato anche un riavvicinamento.
V.T.: È vero. La malattia le aveva cambiato il carattere, era diventata più buona.
N.G.: «Dei padri ci si libera» dice Thomas nel Ponte, «ma non sono mai riuscito a liberarmi di mia madre». È corretto supporre che il cambiamento della sua scrittura abbia a che vedere con la morte di sua madre?
V.T.: Penso proprio di sì. La scomparsa della madre credo sia sempre più forte di quella del padre. Lui non era una figura ingombrante, per quanto fosse piuttosto stagliato nel carattere, come tutti gli uomini della sua età. Mi sono liberato della mia famiglia: forse entrerà ancora in qualche personaggio, ma non penso sarà più così fondamentale. Dipende da quello che scriverò.
N.G.: Sua madre ha mai letto le sue opere?
V.T.: Sì, almeno a quanto mi aveva detto lei. Forse le ha lette, forse no. Non è rilevante. Per lei contava che venissi pagato per fare qualcosa. Come ha scritto Wittgenstein nei Diari segreti: «Quanto ti è costata, tanto essi te la pagheranno».
N.G.: Leggendo Works si apprende dell’esistenza di alcuni testi non pubblicati. A quanto ammonta la sua produzione inedita?
V.T.: Di prosa, nulla. Di teatro invece ci sono dei testi. Qualcuno è andato anche in scena.
N.G.: Lei ha scritto diverse pièce teatrali e adattato testi di altri autori come Goldoni, Shakespeare, Fellini, Dostoevskij. Il teatro le permette di «uscire dalla nera depressione» in cui può gettare la prosa, come scrive Beckett?
V.T.: Sicuramente è un modo per evitarla. Scrivere per il teatro mi viene naturale, è nelle mie corde. È meno pesante della prosa. Se un testo va in scena e fa una discreta tournée, ha un riscontro economico più rapido.
N.G.: Da molte sue prose ha tratto delle letture sceniche con musica dal vivo. Perché far vivere questi testi, non scritti per la messa in scena, al di fuori della pagina?
V.T.: Perché non mi è difficile farlo. E poi mi piace collaborare con i musicisti. Si tratta di performance con un’idea, una concezione, dove la musica non è un semplice sottofondo. Ho bisogno di creare una struttura, altrimenti non le farei, mi annoierei a morte.
N.G.: In Fulvio Falzarano non compra nulla, ma viene a prendere un caffè con me scrive che «tutto in me tende verso una non esistenza». Fare l’attore l’aiuta o la ostacola in questo percorso?
V.T.: Mi aiuta a svuotarmi, a non essere. Ogni tanto mi capita di recitare ed è piacevole. Stare sul set mi permette di conoscere molte persone. È un lavoro interessante e cerco di farlo nel modo migliore, come tutti gli altri lavori che ho fatto. Forse non sono un attore proprio perché non vedo nulla oltre a questo.
N.G.: L’esperienza di Primo amore di Matteo Garrone le ha permesso di concludere la sua «prima vita» da lavoratore dipendente, ma l’ha anche esposta a dei rischi. Morandini nel suo dizionario scrive che del film rimane «l’impossibilità di separare gli interpreti dai personaggi». Al cacciatore seriale Vittorio vengono attribuite caratteristiche che la riguardano da vicino: vive a Vicenza, suona la batteria e il suo psichiatra è interpretato da Giulio Mozzi, suo scopritore letterario. Non ha temuto – per la sua persona e la sua scrittura – di diventare un ruolo riconoscibile?
V.T.: Il rischio c’era e qualcuno mi ha associato a quel personaggio. Ma alla fine da quel film ho avuto più benefici che svantaggi. È un marchio forte, certo, ma è passato. Non ho tempo di mettermi a ragionare su cosa pensano gli altri.
N.G.: «Invece di suicidarsi le persone vanno a lavorare» scrive Bernhard in Correzione. Leggendo Works si ha l’idea di un’esistenza quasi da scontare, trascorsa accanto agli altri, in disparte. Spesso i suoi personaggi meditano l’ipotesi del suicidio. Il pensiero di “correggersi” la accompagna ancora?
V.T.: Sì. Probabilmente prima o poi ci arriverò.
N.G.: Works, scrive, «ha davvero rischiato di uccidermi». Il voler «fare ordine», prima di tutto nella testa, l’ha portata a un ricovero ospedaliero. Nel racconto La vita fugge, et non s’arresta una hora il protagonista si rende conto «con orrore che tutto ciò che ho scritto, tutto ciò che credevo di aver scaraventato fuori dalla testa mi ritorna, e non è più mio, non è quello che ho scritto, non sono io». Le è capitato anche con Works?
V.T.: Tendo a non leggere più le mie cose. Non mi riguardano più. Se devo semplicemente leggere in pubblico, lascio perdere. Ho meno entusiasmo di un tempo. Se invece ne faccio uno spettacolo è diverso, ci metto le mani e qualcosa mi ritorna per altre vie. Anche al termine di Works sono stato altrove fin da subito. Ho altro a cui pensare.
N.G.: Cosa determina per lei la compiutezza, seppure illusoria, di un’opera?
V.T.: La durata. Mi piace avere il limite del tempo, anche a teatro. Nella prosa stabilisco il numero limite di pagine prima di iniziare. È stato così per i tre «non-romanzi». In questo senso, però, Works è un’eccezione.
N.G.: Si può considerare la sua opera come un pellegrinaggio esistenziale lungo un’oscillazione costante a cui bisogna adattarsi, come avviene per i pensieri o a bordo delle sue amate motociclette?
V.T.: Sì, direi di sì. È una bella immagine. Anche se non ho più la moto.
N.G.: Nel suo dramma Wordstar(s), Samuel dice che le esistenze artistiche sono «umanamente sterili» e «lasciano fuori tutto in breve tempo». Ora che si mantiene di sola scrittura e ha abbandonato sia quel «dinamismo di un figlio al guinzaglio» sia la periferia urbana per stabilirsi a Campodalbero, un piccolo paese di montagna, non sente il bisogno di una nuova interruzione, di tornare a svolgere un’attività che non sia solo intellettuale?
V.T.: Sì, a volte ci penso a fare qualche lavoro. Ma poi, per varie ragioni, mi passa la voglia. L’altra sera ero in un autogrill e pensavo che per un periodo potrei fare il barista di autogrill. Un lavoro di quel tipo, senza grandi responsabilità. Però sono solo sogni. Ormai sono in trappola e devo continuare a scrivere.