Nell’ultima parte della conversazione con Bertram Niessen a proposito del volume “Sociale, digitale. Trasformazione della cultura e delle reti” da lui curato per Doppiozero affrontiamo alcuni temi legati all’importanza della divulgazione e del contatto tra saperi e pratiche nella cultura digitale.
Saperi, ricerche e divulgazione: l’importanza etica di alzare il livello del dibattito
Flavio Pintarelli: C’era un passaggio che mi interessava approfondire nel primo saggio, quello di Adam Arvidsson, in cui parla della fede nella rete. Rete di cui c’è una visione ideologica molto diffusa, polarizzata tra il tecnoentusiasmo e il tecnopessimismo. Come si fa a ribaltare questo circuito, come lo si rompe?
Bertram Maria Niessen: se io avessi la risposta sarei ricco! Ne ho parlato anche a Urbino a un convegno sul brand. Il problema oggi è che noi ci troviamo in un momento di attrito tra una serie di pratiche estremamente parcellizzate, diverse tra loro, articolate – ogni singola pratica portata avanti da attori sempre diversi, con motivazioni diverse e background diversi – e delle etichette e dei linguaggi che possono essere utilizzati per parlarne 1) nella divulagazione e 2) nella retorica e nella vita pubblica, che sono due cose molto diverse. La rete è il grande cappello sotto cui tutto riposa e ce ne sono altri: il 2.0, ultimamente le start up (su cui jumpinshark ha scritto poco tempo fa alcune cose molto divertenti), c’è l’innovazione sociale, adesso c’è anche lo smart (smart city ecc.). Come uscire da questa modalità di ultrasemplificazione e quindi sostanzialmente di reificazione, di cattiva coscienza se mi passi il termine?
L’unica strada, l’unica prospettiva che vedo è quella di alzare l’asticella del dibattito e della divulgazione. Ho l’impressione che troppo spesso nella divulgazione su questi temi la si faccia troppo semplice, non si lavori sulle sfumature perché il pubblico non è pronto, perché un articolo culturale o di altro genere si scrive in quel modo lì e la redazione vuole proprio quel tipo di cosa.
Questo va bene per una fase di preriscaldamento su alcuni temi, però subito dopo deve venire un tipo di riflessione più articolata e questo vuol dire prendere molto più seriamente in considerazione la sfida con chi ti legge e in generale l’ecosistema al quale fai riferimento.
Sull’innovazione ad esempio, quindi sul nesso rete-innovazione questa cosa è estremamente palpabile. C’è stato Wired Italia, che quando ha aperto ero molto scettico. Ora dopo qualche anno mi sono in parte ricreduto, perché almeno ha aperto un canale di preriscaldamento su una serie di temi, in un paese in cui sostanzialmente non si era mai parlato di niente, fatta eccezione per MediaMente di Massarotto.
Adesso invece bisogna marciare a un altro livello. C’è bisogno di un dibattito che sia comprensibile ma che smetta di approcciare le questioni in modo fideistico e cominci a lavorare su quello che ci sta sotto.
F.P.: questa tendenza alla semplificazione è presente ovunque. Mi pare sia una tendenza degli ultimi vent’anni e forse anche più anziana. Il dibattito culturale è sempre stato condotto al ribasso. Per me l’importante è avere una postura da formatori. Oggi molte agenzie web “vivono” anche grazie all’ignoranza delle persone e questa situazione non contribuisce a creare un mercato maturo. È un errore che impedisce di estrarre da quel mercato il valore che potresti produrre seguendo altre pratiche. Un valore che sarebbe sentito anche a livello di collettività e di società. Questa idea di ridare spessore e profondità al dibattito pubblico è estremamente importante, addirittura vitale.
B.M.N.: su questo sono d’accordissimo. Poi per me c’è l’altra faccia della medaglia che è il dibattito più interno che faccio spesso coi miei colleghi ed ex-colleghi di università. Io sono una specie di strutturalista pentito, perché tutto il dottorato l’ho fatto prevalentemente in quell’ottica passando per il poststrutturalismo e Latour. Sono strumenti che ritengo ancora validissimi ma che hanno una forma di snobismo della comunicazione che oggi trovo un po’ imbarazzante.
Per cui da questo punto di vista credo che l’elemento fondamentale da parte di chi si occupa di alcuni temi, soprattutto delle relazioni di potere che vengono embeddate o che determinano i sistemi di produzione specialmente nel digitale, sia di abbandonare un po’ l’autocompiacimento (e me lo ripeto quasi ogni mattina) sia della citazione sia di un linguaggio oscuro che tende a essere involuto, specialmente da parte di chi è appassionato di teoria.
Nella comunicazione c’è bisogno di una sorta di esercizio, difficile, perché non ce lo hanno insegnato. Se non hai fatto un percorso in giornalismo o in divulgazione della scienza o in altre cose noi non la sappiamo fare la comunicazione. Questo è un problema.
F.P.: per me ci sono una, due o anche tre generazioni di accademici, in questo paese, che non hanno avuto nessun’altra prospettiva che non sia l’università. Però fuori dall’università c’è un mondo lasciato in mano a personaggi dubbi che varrebbe la pena di riprendersi.
Per quanto l’aspirazione alla carriera accademica sia legittima, se ci spostiamo di uno o due passi più in là ci rendiamo conto che ci sono possibilità di guadagnarsi da vivere e continuare il proprio percorso di ricerca senza rinunciare a niente.
Spesso si sbatte contro questo muro per cui se fai ricerca nell’università sei in qualche modo puro mentre se sei fuori tutto quello che fai è già in parte contaminato. Perché non hai il tempo per l’elaborazione del pensiero o per la scrittura quando invece in realtà è un tempo che se vuoi te lo prendi.
Non è detto che la qualità del tuo lavoro o del tuo pensiero sia minore. Ritornando al discorso di prima, il contatto con le pratiche secondo me è fecondo.
B.M.N.: guarda è un argomento un po’ delicato perché ho avuto delle discussioni, sempre molto tranquille, però questo argomento è un nervo scoperto anche con diversi amici. Perché io ho attraversato ambiti di ricerca molto diversi, ho lavorato con persone molto in gamba che in alcuni casi hanno un ottimo riconoscimento accademico internazionale.
Su questo tutte le volte che ci incontriamo viene fuori un po’ di attrito. Io trovo molto poco etico che un ricercatore non abbia un blog. A meno che non faccia altre attività di divulgazione. Tiziano (Bonini ndr) ad esempio non ha un blog ma è molto attivo sui social, e va benissimo. Però insomma lo trovo poco etico dal punto di vista sistemico. Non è un modo sostenibile di pensare la ricerca.
F.P.: credo che uno dei problemi connessi a questa situazione sia che alla divulgazione non è riconosciuto un valore. È un peccato perché in questo modo fai archivio e attivi la possibilità di tracciare un pensiero. Questo continua a essere un grande valore.
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