Nella terza parte dell’intervista a Bertram Niessen affrontiamo alcune questioni legate al rapporto tra pratica e teoria del web, mettendo alla prova il ragionamento in un confronto con il panorama che si sta delineando intorno al settore dell’editoria.
Dalla teoria alla pratica del web: come cambia l’editoria col digitale
Flavio Pintarelli: Credo che sui processi di sviluppo del web sia estremamente difficile fare delle teorie forti e anche delle previsioni.
Uno degli aspetti più interessanti del web é che non puoi farne la teoria, non puoi farne un pensiero critico, senza utilizzarlo. Questo lo rende rivoluzionario – anche se il termine è difficile da usare – o comunque diverso rispetto ad altri media.
La teoria del cinema è stata fatta nella maggior parte dei casi da persone che non avevano mai fatto un film, se si eccettuano periodi straordinari come gli anni ‘30 o gli anni ‘60. I registi hanno fatto pochissima teoria e i teorici hanno fatto pochissimo cinema. Nel web questo non è possibile. È un pensiero si collega molto col discorso che fai sul Do It Yourself (Do It Yourself. Dal garage alla costruzione della realtà, Bertram Niessen). Secondo me questa idea di piccole e grandi comunità che si insegnano vicendevolmente le pratiche e poi ci riflettono il web contribuisce ad espanderla. In questo momento, se tu vuoi stare in Rete, non puoi non conoscerne gli aspetti tecnici; oltre a a essere rischioso, la pena è la tua irrilevanza. Puoi essere il miglior saggista o scrivere il post più bello del mondo ma se non viene trovato o se non lo sai distribuire è lettera morta, di fatto non serve a nulla.
Bertram Maria Niessen: certo, questa in realtà è proprio la sfida che sarà affrontata nel 2013, l’anno in cui questi nodi verranno al pettine. Sta per compiersi l’agonia dell’editoria tradizionale. Non si sa mai come e perché, comunque qua a Milano voci molto vicine dicono che realtà importanti il 2013 è molto difficile che riescano a passarlo. Questo fa sì che tutto un sistema di professionalità molto settoriali e parcellizzate non avranno più senso di esistere (e ciò è drammatico). Primo perché, come dici tu, c’è bisogno di saper fare le cose oltre che scriverne e parlarne e, due, anche perché ci si ritroverà con dei pubblici enormi, molto specializzati, che sapranno molto bene ciò di cui si parla. Per cui, in qualche modo, gli autori saranno il nuovo pubblico, come dice spesso Belpoliti. Non ci saranno più gli autori che scrivono per il pubblico ma autori che scrivono per altri autori. È sempre stato un po’ così, ma questa dinamica qui si sta spingendo un po’ all’estremo.
F.P.: Questo è un concetto interessante, anche perché entrare in quest’idea, in questa forma mentale, cambia tutto il modo in cui si fanno le cose. Ci rifletto perché al Salone del Libro di Torino ho parlato di saggistica digitale e i miei dieci/quindici minuti li ho dedicati a come fare marketing per questo settore. Per me la miglior comunicazione per questo genere è la presenza dell’autore laddove c’è dibattito. Perché la saggistica è sempre la cristallizzazione di un pensiero che si fa nel confronto con le altre persone. Se penso alla saggistica di ricerca questa nasce dopo le lezioni universitarie, dopo i confronti con gli studenti, dopo i seminari, dopo i convegni, le occasioni di incontro con i ricercatori e la comunità dei pari. Adesso una buona parte di quella pratica del pensiero si sposta nell’ambiente digitale e quello è davvero il marketing. Non solo la promozione del prodotto editoriale, ma il marketing diventa l’esplicitazione del lavoro. Rintracciarne la genealogia è importante. La raccolta di Giap può essere una pietra di paragone per questo tipo di lavoro. È un prodotto di saggistica che puoi ritrovare gratuitamente in rete ma che compri perché all’interno è stata fatta un’operazione di montaggio che ha stabilito delle traiettorie attraverso un pensiero. Quando lo leggi in realtà è come ripercorrere tutto quel pensiero, quella palestra, quegli esercizi in cui ti ritrovi e ti ci specchi se hai seguito quel percorso.
B.M.N.: centri un buon punto e ci ritrovo una diatriba annosa per me che non vengo dal mondo della cultura e del giornalismo culturale, in cui mi sono ritrovato per una serie di cose. Da questo punto di vista Wu Ming, nei cui confronti come autore ho un rapporto un po’ di amore/odio a livello di stile, anche se li seguo da Luther Blisset e ancora prima.
Però io sono molto convinto che loro siano in Italia l’avanguardia di questo tipo di approccio e che fra 20 anni non so fino a che punto verranno ricordati per i loro romanzi. Ma questa operazione, questo progetto che incarnano segnerà la differenza tra ciò che c’era prima e ciò che ci sarà dopo.
F.P.: al di là del valore letterario, quello che è importante di quell’esperienza è l’idea di progetto culturale. Quando i Wu Ming hanno iniziato Giap non c’erano molti progetti culturali così coerenti e solidi. Giap ha aperto una strada che molti hanno seguito, anche se ancora sono pochi i luoghi della Rete che possono vantare un analogo livello nel dibattito.
B.M.N.: si, lo è stato Carmilla per un certo periodo ma in modo diverso.
F.P.: anche se la logica di Carmilla, senza nulla toglierle, è stata molto meno innovativa.
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