Tutti colpevoli. Sei anni di reclusione per tutti gli imputati, interdizione dai pubblici uffici, nonché risarcimento dei danni in favore delle parti civili” per i reati di omicidio colposo, lesioni colpose e concorso in delitto colposo per essere venuti meno “ai doveri di valutazione del rischio connessi alla loro qualità e alla loro funzione e tesi alla previsione e alla prevenzione e ai doveri di informazione chiara, corretta, completa.
Fabio Carnelli
Tratto dall’imputazione nella requisitoria dei pm Fabio Picuti e Roberta d’Avoli
La notizia della sentenza sulla Commissione Grandi Rischi è rimbalzata immediatamente su tutti i media, da Facebook a Twitter, dai blog ai siti internazionali, e di nuovo il giorno seguente, arrivando fin negli Stati Uniti e in Giappone: in un attimo sembrano ritornare quei giorni, i giorni del terremoto, L’Aquila ovunque, ovunque vittime, feriti, macerie, sfollati, immagini patemizzanti, dietro a politicanti, registi e teatranti.
Non è compito nostro fare cronaca, né è possibile trarre facili riflessioni da un processo giunto solo al primo grado[1], quando ancora le motivazioni della sentenza non sono state depositate in tribunale. Alla luce delle quotidiane riflessioni che proviamo a fare su questo blog sulla gestione dei cosiddetti “disastri” nel nostro paese, è difficile non notare l’indubbia portata di una tale sentenza ed è nostro dovere inserirci nel dibattito che ha suscitato per avviare una riflessione utilizzando gli strumenti che qui abbiamo sviluppato, facendo anche riferimento alla requisitoria depositata dai pm.
In primo luogo, l’azione dei pm Fabio Picuti e Roberta d’Avolio scardina in qualche modo la gestione sempre più autoritaria che ha avuto questa emergenza, condannando pubblicamente intrecci fra tecnici e politica (noti da tempo) e configurando forse ancora una volta, per chiamare in causa la recente analisi di Perugini, una sorta di ecologia dell’imprenditoria umanitaria in senso ancora più esteso, in cui gli imprenditori sono le stesse persone che dovrebbero avere un ruolo nell’evitare che l’impatto con una calamità naturale si trasformi in un disastro, ovvero coloro che dovrebbero contribuire a limitare la vulnerabilità di un gruppo umano. Un’ecologia la cui trama è ancora da scrivere e che potrebbe avere pesanti ripercussioni sull’organizzazione della Protezione Civile e sul sistema di gestione delle emergenze, appena riformato, ma che all’Aquila ha avuto uno dei suoi periodi più bui. Il 25 ottobre, ad esempio, a seguito di questa sentenza, arriva già la richiesta di Gabrielli (attuale capo della Protezione Civile) di una norma che tuteli le responsabilità della “comunità scientifica” di fronte ad “eventi connotati da grande incertezza”. Buia o fangosa sembra essere anche la macchina mediatica nazionale e internazionale, che si schiera a difesa della scienza facendo leva (oppure no: in questo caso bisognerebbe interrogarsi anche sul cosiddetto “rumore” nella diffusione di una notizia sui media, perché davvero così in tanti hanno fin da subito mal interpretato la condanna?) su un’ipotetica condanna alla scienza, trasmettendo a tutti noi il messaggio che gli scienziati della Commissione Grandi Rischi siano stati condannati “per non aver previsto il terremoto”. Prima di riflettere sulle dichiarazioni del mondo politico e scientifico, che si appellano ad un’azione della magistratura contro i nostrani Galileo post-moderni[2] e ad una presunta paralisi che porterebbe questa sentenza all’INGV ed al lavoro di qualsiasi scienziato, andiamo a ripercorrere per un attimo quella riunione, per il semplice fatto che risultano qui evidente alcune delle strategie che abbiamo già incontrato nell’analisi del post-sisma aquilano.
Le riunione della Commissione (31 marzo 2009)
È ormai noto che nel settembre 2009 Enzo Boschi dichiarò che in quella riunione non fu redatto alcun verbale, come “se non fosse mai avvenuta”[3], ma poi «Qualcuno corregge questo testo alla meno peggio e Mario Dolce ce lo fa firmare (contro il muro) nella caotica serata del 6 Aprile”, a suo dire, “per ragioni interne”»[4]. Sostanzialmente nel verbale “postumo” si legge che è stato esaminato lo sciame sismico e si dichiara che questo non è una condizione necessaria perché si verifichi un evento sismico più forte (senza che questo si possa escludere), perché non è possibile prevedere i terremoti, contrariamente all’allarmismo che Giuliani sta infondendo nella popolazione aquilana; si conclude anche che «Un altro importante aspetto da curare ai fini di protezione civile è migliorare il livello di preparazione a gestire un’emergenza sismica. Tutti i componenti della Commissione concordano con questa valutazione».
Forse potrebbe sorprendere leggere queste conclusioni in pieno sciame sismico aquilano, anche se conosciamo quanto sia complesso gestire eventi di questo tipo e che sia difficile indicare un modello di gestione; purtroppo però, come già da noi affrontato[5], la gestione della prima e della seconda emergenza all’Aquila fu accompagnata da una particolare gestione mediatica della comunicazione pubblica, accentrata sulle figure pacificatrici e divinatorie di Berlusconi e Bertolaso e da un lato, orientata al paternalismo e tesa a rendere il cittadino un fruitore passivo di decisioni e scelte calate dall’alto e, dall’altra parte, declinata in proclami, alterata da ragioni di ricerca del consenso politico e inserita all’interno di precise strategie “militaresche” di controllo sociale, tanto da essere da alcuni giornalisti definita come embedded, come nelle aree di conflitto[6].
E tale fu anche l’orchestrazione di quella stessa riunione, convocata per gestire mediaticamente il problema e la relazione con i soggetti coinvolti – in primis la popolazione aquilana- com’è ormai noto a tutti dall’intercettazione telefonica in cui Bertolaso parla a D. Stati, assessore regionale alla Protezione Civile.
Dopo questa riunione strumentale il cui scopo era stato già stato deciso dal Capo della Protezione Civile (e quindi dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri), si tranquillizza la popolazione attraverso interviste o messaggi agli organi di stampa. È possibile, ad esempio, grazie al web, leggere ancora oggi il comunicato emesso dal Dipartimento di Protezione Civile attraverso Isoradio, il quale, fra le altre cose, dice:
Nel pomeriggio di ieri si è riunita a L’Aquila, nella sede della Regione Abruzzo, la Commissione Nazionale per la Previsione e la Prevenzione dei Grandi Rischi. Scopo dell’incontro è stato fornire ai cittadini tutte le informazioni disponibili alla comunità scientifica sull’attività sismica delle ultime settimane in Abruzzo: attività che viene costantemente monitorata, pur non essendoci nessun allarme in corso. […] De Bernardinis ha ricordato, infatti, che bisogna saper convivere con le caratteristiche dei territori e mantenere uno stato di attenzione sì, ma senza avere uno stato di ansia. La comunità scientifica, inoltre, ha confermato che non c’e’ pericolo perché il continuo scarico di energia, riduce la possibilità che si verifichino eventi particolarmente intensi.
Il rischio dei Grandi Rischi
E qui troviamo un punto cruciale su cui fa luce questa sentenza e che è necessario approfondire: la percezione del rischio non è una variabile semplicemente fisica ma è anche un costrutto culturale, tanto quanto il concetto di disastro. Un disastro, come abbiamo già fatto notare, è considerato solitamente, secondo il nostro senso comune, come l’insieme degli effetti fisici prodotto dall’impatto di un agente fisico: una visione prettamente tecno-centrica, alla quale è necessario sovrapporre l’analisi di un disastro come il prodotto di un agente fisico impattante su un gruppo umano più o meno vulnerabile. In altre parole, «non sono gli eventi naturali a determinare un’emergenza quanto piuttosto il contesto territoriale sul quale essi incidono»[7].
Per comprendere quanto sia vulnerabile un gruppo umano e come cambi la vulnerabilità nel tempo è necessario chiamare in causa ancora una volta le scienze umane, ed in particolar modo l’antropologia. Non a caso, in questo processo, l’antropologo A. Ciccozzi è stato chiamato quale consulente per chiarire come il “rassicurazionismo” diffuso dalla Commissione abbia influito sulla percezione del rischio nei soggetti aquilani coinvolti. Nella sua relazione[8] egli ci restituisce innanzitutto la presenza sul territorio aquilano di un sapere relativo alla percezione del rischio, una cultura del terremoto tramandata oralmente, nella quale si suggerisce, ad esempio, che
dopo una forte scossa è buona norma restare per qualche ora fuori dalle abitazioni. Principio che, a partire dai più anziani, praticamente tutti in città conoscevano prima del 6 aprile 2009, e che in moltissimi avevano già applicato durante la sequenza sismica
È anche un comune modo di dire, all’Aquila, che «dopo due scosse forti e ravvicinate (peraltro quella distruttiva del 6 Aprile 2009, è stata la terza forte di quella notte) bisogna stare fuori casa, all’aperto per un bel po’». Un’altra pratica tramandata oralmente attraverso meccanismi di inculturazione: comportamenti tanto semplici quanto efficaci, che ho riscontrato anche nei paganichesi incontrati durante la mia ricerca sul campo nel dopo sisma a Paganica (Aq) e che sembra abbiano salvato delle vite, quella notte, in quel centro storico. Leggendo invece le testimonianze del processo si riscontra come le rassicurazioni dettate attraverso i media dopo la riunione del 31 Marzo abbiano mutato i comportamenti degli aquilani durante le scosse verificatesi da quel giorno al 6 Aprile 2009, influenzando quindi la percezione del rischio di quelle stesse persone; è quindi accaduto che attraverso l’uso strumentale e autoritario dell’autorità percepita dei cosiddetti “esperti” si è mutata la vulnerabilità dei cittadini aquilani, aumentando così la potenzialità catastrofica dell’evento sismico, come Ciccozzi ben evidenzia nella sua relazione.
È ovvio che se esistesse una cultura della prevenzione nella costruzione degli edifici ora l’Aquila sarebbe differente; ed è ovvio anche che non si possano prevedere i terremoti e che “stare fuori casa” non risolve il problema. Se spetterà alla magistratura continuare ad indagare sulle relazioni fra politica, “tecnici del sapere” e costruttori, e se abbiamo già discusso sulle tecniche con le quali è avvenuta la mediatizzazione del sisma aquilano, è fondamentale ora interrogarsi da una parte sulle modalità diffuse di auto-riproduzione del potere che permettono a gran parte del mondo politico e scientifico di condannare in modo unanime questo processo invocando addirittura la figura di Galileo, quando invece
Galileo sarebbe stato dalla parte dell’accusa perché durante questo processo è stata la difesa a sostenere una visione medievale dei disastri, attribuendoli esplicitamente alla sola fatalità, quando l’analisi contemporanea del rischio si basa su una visione dei disastri in cui caso e causa si combinano, in cui alla fatalità naturale si aggiungono le azioni umane[9].
Dall’altra, è necessario ripensare alle modalità con cui avviene la comunicazione scientifica e alle modalità con cui un “esperto” si rapporta all’evento disastroso e al gruppo umano che lo subisce, il che significa anche ripartire da una prevenzione agita sul territorio insieme e attraverso, ad esempio, agli strumenti acquisibili tramite il sapere locale degli stessi soggetti coinvolti. Queste considerazioni non appaiono per nulla nuove a quegli scienziati sociali che da anni affrontano lo studio dei disastri, ma questa sentenza potrebbe essere l’occasione in cui una gestione politica e tecno-centrica di simili processi senta l’esigenza di contaminarsi con una visione e delle pratiche differenti, avvalendosi di concetti e interpretazioni maturati da anni dalle scienze sociali stesse, come l’antropologia, la geografia o la sociologia.
Per concludere e per rendere giustizia a Galileo e agli assurdi botta e risposta sui media, leggere che uno dei massimi sismologi del nostro Paese abbia commentato la propria sentenza di condanna con un «Non ho neppure capito di cosa sono accusato» rende ben chiaro chi abbia fatto la parte dello stregone: non chi abbia creduto che si potesse prevedere un terremoto o chi sappia che dopo due scosse non deve rientrare a casa, ma chi ha continuato ad arroccarsi nella difesa della legittimità a tutti i costi del proprio status (settario?), senza essersi posto dei seri interrogativi epistemologici, etici e politici sul proprio ruolo e sulle proprie pratiche nella gestione di un “disastro”.
P. S. Queste riflessioni non hanno chiaramente l’intenzione di delegittimare le modalità di gestione della Protezione Civile nel loro complesso ma emergono in relazione a quello che avvenne in quei giorni all’Aquila. Per tornare a questi giorni, ad esempio, sembra che si sia costruita una diversa reazione allo sciame sismico nel Pollino, grazie ad una differente consapevolezza della popolazione, attraverso la promozione di campagne informative e di ricerca sul territorio: questioni che proveremo ad analizzare anche qui nelle prossime settimane.
Note
[1]È di ieri ad esempio la notizia delle dimissioninotizia delle dimissioni del giudice nel processo civile per la causa di risarcimento dei danni a carico della Commissione.
[2] Una su tutte la dichiarazione del Ministro Clini del 25 Ottobre.
[3] Cfr. S. Guzzanti, Draquila, dal min. 1.15’:40”, 2009.
[4] Cfr. A. Puliafito, Protezione Civile SPA, Aliberti, 2010, p.45.
[5] Cfr. F. Carnelli, O. Paris, F. Tommasi (a cura di), Sismografie. Ritornare a L’Aquila mille giorni dopo il sisma, Effigi, 2012.
[6] Cfr. Sismografie, cit., p. 43.
[7] Si veda qui.
[8] In parte è consultabile quiqui.
[9] Dal commento a caldo di Ciccozzi alla sentenza.