Tra Mirandola e Baghdad: sismi, guerre e la tela di Penelope dell’umanitarismo (parte quarta)

In una delle pagine del sito di Skylink Group, un articolo dal titolo “Non sparate, siamo i bravi ragazzi”, scritto da un giornalista del Canadian Business dipinge gli operatori di Skylink come gente dal cuore impavido, benefattori che nelle operazioni in Kosovo hanno “schivato le pallottole” e lanciato aiuti umanitari dagli aerei della compagnia già “nei giorni prima della fine del bombardamento NATO”.  [qui la prima, la seconda e la terza parte]

L’articolo – pubblicato per l’appunto in un giornale che si occupa di affari e investimenti – si conclude con l’esplicitazione delle condizioni di esistenza e di crescita del colosso del business umanitario: “Per Arbib la crescita di Skylink non è separata da emozioni contrastanti. Quando gli affari funzionano, significa che da qualche parte nel mondo ci sono persone che soffrono per un disastro naturale o per l’incapacità di risolvere un conflitto senza guerra e violenza. Ma quando Skylink va bene, questo significa che la sofferenza viene alleviata più rapidamente”. Poi viene riportata una frase da un’intervista ad Arbib: “Niente è paragonabile alla soddisfazione che provo quando accendo la televisione e vedo che ci sono disastri e guerre, e so che noi stiamo aiutando”. Nonostante il sito e la compagnia stessa prendano sempre le distanze dalle operazioni militari e si auto-dipingano come “autori neutrali”, “senza conflitti di interesse” direbbe qualcuno, l’intervento di Skylink in Iraq durante l’occupazione militare statunitense e internazionale del paese può essere d’aiuto per comprendere invece come la pratica umanitaria di questa compagnia di contractors risulti organica allo sprigionamento della violenza dei teatri di guerra contemporanea.

Anche solo scorrendo rapidamente le informazioni disponibili online – informazioni reperibili anche sul sito della compagnia stessa – risulta evidente come le maggiori entrate di Skylink derivino dalla partecipazione a operazioni integralmente organiche a iniziative militari e a guerre umanitarie come l’operazione “Iraqi Freedom”. Quella che Skylink chiama freddamente in gergo tecnico “logistica umanitaria” è in realtà un’azione sul terreno variegata che include il supporto logistico agli attori di guerra più differenti, tra cui le famigerate compagnie di contractors private che hanno operato e compiuto massacri pluri-documentati sul territorio iracheno.

Nel 2003, proprio agli inizi dell’offensiva militare americana su Baghdad e sull’Iraq e un anno prima di distribuire aiuti umanitari – insieme a Maurizio Scelli, il commissario straordinario della Croce Rossa voluto da Berlusconi e poi finito al centro di numerosi scandali – per il valore di 400.000 euro raccolti dalla Fondazione Magna Carta, Skylink firma insieme al governo americano e all’agenzia di sviluppo governativa USAID un sostanzioso contratto da più di diciassette milioni di dollari per “l’amministrazione a breve termine” degli aeroporti di Baghdad, Basra (Bassora) e Mosul. Ma lo stesso sito della Skylink spiega come quell’amministrazione a breve termine consistesse in qualche cosa che andava ben oltre il trasporto di aiuti umanitari e la ri-funzionalizzazione degli aeroporti iracheni dopo l’attacco americano. Infatti, la compagnia si occupava anche di fornire, sotto la supervisione dell’esercito americano, la logistica per il ri-nato esercito iracheno posto sotto tutela della forze occupanti. Inoltre, come è stato successivamente riportato anche dal New York Times, la singolare logistica umanitaria di Skylink si è tradotta anche nel trasporto di contractors privati come i sei statunitensi appartenenti alla famigerata compagnia Blackwater che nell’aprile del 2005 (due anni dopo il contratto molto poco temporaneo, verrebbe da dire, ottenuto da Skylink nel 2003) viaggiavano su un elicottero civile abbattuto dagli insorti iracheni. La Blackwater è la compagnia di contractors privati che si è resa protagonista di numerosi massacri di civili e insorti iracheni e che le stesse Nazioni Unite hanno definito come compagnia di “mercenari illegali” secondo la Convenzione sui Mercenari delle Nazioni Unite del 1989, mai firmata dai governi americani.

La lista di operazioni di questo genere e di strani “interventi di ricostruzione” in cui Skylink si è impegnata in Iraq è abbastanza lunga e noiosa: trasporto di arti di veicoli armati, parti di velivoli militari (come spiega lo stesso sito della compagnia) e componenti da guerra di altro genere. Ma, arrivati a questo punto della nostra esplorazione non possiamo che trarre una prima ovvia conclusione sulla natura di questo imponente colosso dell’imprenditoria umanitaria il cui proprietario è impegnato anche in operazioni come l’Abruzzo e Mirandola. I “bravi ragazzi” di Skylink e Arbib – è abbastanza interessante rilevare come il termine inglese good guys, usato nell’articolo del Canadian Business affisso sul sito di Skylink, sia esattamente lo stesso con cui nel primo e nel secondo conflitto mondiale venivano chiamati i soldati delle Forze Alleate, e con cui sono stati poi chiamati i soldati dell’esercito americano del dopo Seconda Guerra Mondiale – sembrano invece i tessitori della tela di Penelope della violenza contemporanea: producono macerie, anzi investono e lucrano sulla produzione di macerie, per poi prendere parte alla ricostruzione. Disfano e fanno, con un occhio puntato sulle Mirandola, gli Abruzzi o gli tsunami di turno, dove la natura disfa e loro provano a ricostruire attivando le reti di relazioni politico-lobbystiche costruite nel corso di decenni di “esperienza umanitaria”.

Terzo intermezzo: specchi per le allodole?

Perché Arbib si espone economicamente e politicamente per l’Abruzzo e per Mirandola? Mettiamo per un attimo da parte il legame affettivo e quello che al filantropo appare come un legame naturale tra il suo passato di uomo in fuga dalla Libia, l’impegno degli abruzzesi a favore degli ebrei in epoca fascista e il sisma del 2009. Come lo stesso Arbib ha dichiarato al {Canadian Business}, affetti e imprenditoria – l’immagine catastrofica che genera una singolare forma di piacere contabile – sono strettamente collegati nell’economia politica di chi si occupa di imprenditoria umanitaria. Dopo avere analizzato la genealogia affettiva con cui Arbib si sente legato all’Abruzzo, proviamo solo per un istante ad abbozzare un’interpretazione delle manovre economiche dell’imprenditore che osserva le catastrofi in televisione come una sorta di scommettitore ippico-umanitario (mi riferisco alle stesse parole di Arbib nell’intervista sopra citata). Sull’Abruzzo e sull’Emilia viene da chiedersi: se entrambe le iniziative non sono state direttamente gestite da Skylink, e se la loro portata economica, mettendola in relazione con gli enormi introiti dell’azienda di Arbib, è pressoché insignificante, qual è il significato di questi interventi all’interno di assemblaggi che vanno da Marchionne a Lieberman?

Forse per azzardare un’ipotesi bisogna riallargare il quadro fattuale. In fondo Arbib è un contractor dello stato italiano. Oltre alla spedizione di medicinali per conto della Croce Rossa, che in Italia è un organo dell’esercito, un Corpo delle Forze Armate, nel corso degli anni successivi lo scambio con le istituzioni statali si è fatto sempre più intenso. Ad esempio, l’osmosi delle istituzioni statali militari italiane e Skylink si è incarnata nella nomina di Luciano Merenda, ex-pilota militare italiano in pensione, ad amministratore delegato della Skylink Italia.

A ulteriore conferma della consustanzialità della dimensione militare e umanitaria di Skylink, ecco quanto afferma il sito italiano della compagnia:

SkyLink fornisce soluzioni operative tempestive, di alloggio e di stazioni di stoccaggio per esigenze commerciali e militari non governative in ambienti remoti ed ostili. […] SkyLink ha fornito, dal 2002, centinaia di noleggi aerei destinati ad attraversare l’Afghanistan a vantaggio dei governi, clienti commerciali e forze Nato. […] Molti dei nostri collaboratori hanno una notevole esperienza militare. Questo ci permette di comprendere al meglio i requisiti dei militari e carichi pesanti, lo spostamento di passeggeri e gli obblighi di servizio.

La logistica umanitaria e quella di guerra richiedono personale che sia in grado sia di fare la guerra che di distribuire aiuto nelle aree distrutte…

Ma torniamo formulare l’ipotesi: Skylink Italia serve il Ministero della Difesa e la Protezione Civile. Proprio nel 2011, tra l’intervento abruzzese e il dono congiunto di Arbib a Mirandola insieme a Israele e alle comunità ebraiche canadesi, Skylink presenta all’aeroporto di Roma Urbe il Mil Mi-26T, uno degli elicotteri “più grandi” e più costosi del mondo. Il velivolo sarebbe stato messo a disposizione della Protezione Civile per le sue operazioni anti-incendio, con costi tra i 120.000 e i 150.000 euro mensili. Che le reti di solidarietà a cui Arbib e Skylink prendono parte siano un ulteriore strumento di legittimazione della compagnia e foraggino contratti onerosi con le “osmotiche” istituzioni statali italiane? Oppure, scavando egli interventi umanitari di Skylink in Italia possono emergere altre logiche inesplorate in questo articolo? Oppure entrambe le cose insieme, specchi per le allodole e governo umanitario?

Conclusione

Ho tentato, in maniera molto sommaria dato che molte delle ramificazioni umanitario-militari sono rimaste ancora inesplorate, di compiere una ricostruzione – una cartografia, come l’ho chiamata all’inizio – dei progetti congiunti e di alcune forme di assemblaggio istituzionale tra governi, organizzazioni umanitarie internazionali e non governative, e nuovi soggetti emersi nel boom dello sviluppo della “società civile internazionale” (Skylink nasce a metà degli anni ottanta). Attori che assumono le sembianze di organizzazioni “senza confini”, “senza frontiere”, e il cui statuto oscilla tra quello di aziende con respiro internazionale (in scia con gli sviluppi del capitale e della finanza globale), benefattori umanitari e contractor delle istituzioni statali e delle Nazioni Unite nei teatri di violenza umanitaria degli ultimi decenni.

Scavando ulteriormente i nodi di attivazione di questi reticoli della violenza e della ricostruzione umanitaria contemporanea potrebbero sicuramente emergere quantità enormi di casi di questo genere. Ma il problema è proprio nel fatto che isolare “semplicemente” dei casi potrebbe risultare totalmente irrilevante da un punto di vista politico. Mi spiego. La natura politica delle configurazioni di potere che possono emergere da delle ricerche storiche e sul terreno è quella di reticoli talmente estesi da includere al loro interno tutti coloro che non riescono ad esprimere una forma di resistenza all’onda d’urto di questi tessitori delle tragedie degli ultimi decenni. Ciò che spaventa è proprio il fatto che non sembra esistere un “fuori da queste logiche”, una resilienza politica realmente già costituita e organizzata, e in grado di porsi all’esterno delle ramificazioni e combinazioni di forza, violenza e pietismo umanitario che caratterizzano le configurazioni che ho solo parzialmente descritto in questa mia riflessione. Ciò che spaventa ancora di più è il fatto che anche le vittime stesse siano costrette a giocare un ruolo fondamentale nella riproduzione di questo regime umanitario. Anzi, le vittime stesse, i calcoli su di loro, sulle loro macerie e sulla loro distruzione, e le narrazioni storiche che vengono loro trasmesse – come il debito a cui Arbib ha fatto riferimento durante la sua puntata in Abruzzo, o come il “good guys” che richiama alla lotta tra bene e male dei conflitti mondiali – sono tutti elementi indispensabili all’attivazione e alla messa in moto delle macchine umanitarie contemporanee. Insieme alle forme di rivolta che possono fare tremare questi reticoli violenti occorre continuare a cercare di produrre e costruire insieme sempre più coscienza e conoscenza in vista di una progettualità in grado di sprigionare realmente resistenza. I luoghi di questa progettualità sono ovunque, visto che la forma di governo di cui parliamo non ha alcun centro, se non pro forma.

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