Tra Mirandola e Baghdad: sismi, guerre e la tela di Penelope dell’umanitarismo (parte seconda)

La cartografia e l’ecologia politica che propongo mirano a produrre una migliore comprensione e consapevolezza di come gli eventi catastrofici attivano regimi e meccanismi che poi rivelano intrecci più ampi, più globali, tra catastrofi, umanitarismo, governo dell’emergenza e violenza.

Partendo dagli interventi materiali messi in atto sotto le spinte morali umanitarie contemporanee e le loro specifiche forme di legittimazione storica si possono ricostruire le condizioni materiali in cui si sviluppano gli interventi degli attori come Arbib e Skylink, e di conseguenza la portata politica che accompagna l’intervenire e la forma di governo che i precipitati materiali di questi interventi lasciano trasparire. Gli eventi – catastrofi naturali e guerre nel nostro caso – sono seguiti o accompagnati da eventi umanitari che mettono in campo azioni di intervento materiale e che parallelamente, anzi insieme, se bene osservati, lasciano trasparire i presupposti e le logiche di governo umanitario contemporanee. Questo “trasparire” si manifesta all’incrocio tra attori differenti – schematizzando: le vittime e le varie organizzazioni locali, nazionali e internazionali.

Spesso la critica e l’analisi dell’umanitarismo riproduce un ordine e un movimento che va da un centro a una periferia. Senza nulla togliere a queste analisi, si parte spesso dal fatto che l’oggetto di interesse risieda in un luogo specifico con i connotati di un “sud del mondo”, in un’Haiti, piuttosto che in Sudan, Iraq o Afghanistan. Forse questa geografia della critica umanitaria non prende in considerazione la natura multicentrica dell’umanitarismo contemporaneo, nonché la storia stessa dell’umanitarismo, la cui economia morale e materiale non può essere circoscritta a questo movimento nord-sud ma va compresa in un quadro più ampio, più difficilmente riducibile a un problema di come il “nord del mondo aiuta il sud del mondo”, o meglio di come lo governa e lo amministra attraverso le politiche dell’umanitarismo. Gli eventi umanitari sono sempre più ovunque la terra trema, sia per cause naturali, sia sotto le bombe delle violenza bellica contemporanea. Mirandola può fare comprendere l’Iraq, e viceversa.

La politica umanitaria tra Abruzzo e Gaza

Già prima dell’intervento di Arbib a Mirandola, la Skylink aveva preso parte alle operazioni di soccorso ai terremotati dell’Abruzzo, poco dopo il sisma del 2009, proprio nell’anno in cui il Comitato Umanitario Ebraico Canadese per il Soccorso ha insignito il filantropo del suo annuale “Premio Umanitario”. Ma alcuni mesi prima del sisma pasquale che ha devastato l’Aquila e le zone limitrofe, Skylink si era impegnata in tutt’altro genere di operazione. Mentre in Abruzzo si manifestavano le prime scosse e i primi “preamboli” sismici (dicembre 2008) che si sarebbero poi tradotti nella catastrofe dell’aprile del 2009, anche la terra di Gaza aveva iniziato a tremare sotto le bombe dell’esercito israeliano, che aveva lanciato la famigerata offensiva “Piombo Fuso”, nella quale hanno perso la vita circa mille quattrocento palestinesi e dopo la quale Israele è stata oggetto di molteplici accuse per aver commesso crimini di guerra. Proviamo a ricostruire i tratti salienti di questi due interventi cronologicamente quasi concomitanti che ci offrono l’occasione di comprendere meglio ciò che poco sopra ho definito la natura di questo colosso dell’imprenditoria umanitaria – il suo operare in situazioni catastrofiche di diverso genere – e le sovrapposizioni politiche che essi lasciano trasparire.

Ecco come, nel maggio del 2009, celebrando l’intervento di Skylink per i terremotati dell’Abruzzo, l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane (UCEI) riporta la polemica che ha fatto seguito alla decisione di Arbib di dare vita a un intervento umanitario descritto come {super partes}, durante la guerra di Gaza, in soccorso delle popolazioni israeliane colpite dai razzi Qassam partiti dalla Striscia in risposta all’offensiva israeliana [1] e contemporaneamente in “aiuto dei bambini palestinesi di Gaza”. Il sito dell’UCEI scrive:

Qualche mese fa, un aereo della sua compagnia [la Skylink] che volava verso il Medio Oriente per portare il controvalore di centinaia di migliaia di euro in medicinali ai bambini di Sderot e di Gaza, aveva suscitato un’alzata di scudi da parte di chi non riusciva a comprendere il suo gesto. Ma per Walter Arbib non ci sono conflitti di interesse quando si tratta di aiutare gli altri”. L’articolo celebra il carattere globale delle operazioni di Skylink e rappresenta Arbib come un benefattore senza confini: “Ci sono i bambini di Sderot, ci sono migliaia di lettori Mp3 da consegnare. Ci sono 300 mila euro di medicinali in viaggio verso l’Italia. E tante altre iniziative, tante richieste che provengono dalle zone di crisi del mondo”.

Poi incomincia l’intervista, volta a discutere insieme al filantropo le critiche che gli sono state rivolte da alcune comunità ebraiche mondiali per avere inviato aiuti umanitari ai bambini di Gaza, in una {solo apparente} simmetria con gli aiuti spediti a Sderot in collaborazione con il governo israeliano e con l’allora Ministro degli Esteri Italiano Franco Frattini. Alcuni estratti di questa intervista mostrano le logiche in cui si inscrivono le politiche dell’“aiuto disinteressato” di Arbib. Arbib concepisce l’invio di aiuti ai palestinesi di Gaza come una sorta di “piede di porco” per scardinare il legame tra “genitori fondamentalisti” che “usano i bambini come scudi umani” e nuove “generazioni innocenti”:
 “I medicinali erano giusto che fossero offerti. Sono destinati ai bambini. I bambini non hanno colpa di quella che è la politica del loro governo o degli adulti irresponsabili che li lasciano usare come scudo umano”. A quanto riporta il Corriere della Sera, addirittura anche il Presidente palestinese Abu Mazen, forse ignaro delle dichiarazioni e del significato politico attribuito da Arbib al suo gesto umanitario, o forse non in completa dissonanza con una mossa di indebolimento del governo di Hamas a Gaza, espresse il suo apprezzamento: “Siamo orgogliosi di questi doni dei cugini ebrei…” [2]. Ma torniamo al regime di significato in cui è immerso l’intervento umanitario di Arbib a Gaza: la vittima non è una vittima generica dei bombardamenti, nel caso dei palestinesi di Gaza, ma una vittima definita secondo un calcolo politico che fa degli adulti di Gaza un magma terrorista spietato. Arbib adotta a tutti gli effetti la retorica con cui l’esercito e il governo israeliano hanno giustificato i massacri della guerra di Gaza del 2008-2009, spingendosi addirittura a definire il suo intervento pienamente in linea con le politiche di assedio di Gaza da parte di Israele, definito “un grande benefattore, [che] in questo momento sta offrendo senza ostentarlo enormi aiuti alla popolazione civile palestinese”. È interessante rilevare questo passaggio delle sue dichiarazioni non solo perché Arbib definisce “enormi aiuti” ciò che gli stessi esponenti del governo israeliano definiranno la “messa a dieta” degli abitanti di Gaza, vale a dire la riduzione delle entrate di cibo e di beni vitali, e la riduzione dell’approvvigionamento di elettricità che ha portato al collasso delle strutture ospedaliere della Striscia e alla devastazione – tuttora in corso – dell’economia palestinese. Ciò che emerge è anche la completa sovrapposizione tra logica del suo singolare intervento umanitario “disinteressato” e le pratiche catastrofiche di assedio della Striscia di Gaza messe in atto da Israele. Arbib e Skylink sono infatti un caso paradigmatico di saldatura tra soccorso e violenza umanitaria, una saldatura policentrica manifestatasi a Gaza e in altri teatri di terrorismo umanitario, come avremo modo di vedere in altri passaggi di questo articolo. Skylink, la compagnia “senza confini” e “senza conflitti di interesse”, è in realtà un’organizzazione che gioca proprio negli spazi di confine, nei valichi del ghetto di Gaza in cui l’esercito e gli esperti di diritto umanitario internazionale israeliani misurano le quantità minime di calorie e di medicinali necessarie a mantenere la popolazione al limite della sopravvivenza e “al limite del collasso umanitario” (Weizman 2012). La logica dell’aiuto di Arbib non fa che corroborare il regime di chiusure e assedio della Striscia di Gaza, accodandosi a tutta quella serie di attori militari e umanitari che da anni cercando di usare il “minimo di aiuti umanitari” e le soglie di sopravvivenza umane [3] per cercare di produrre un cambio di governo nella Striscia di Gaza controllata dal partito islamista di Hamas. L’argomento degli “scudi umani” mandati a morire dai propri “genitori fondamentalisti” utilizzato da Arbib per giustificare la natura mirata del proprio intervento sarà poi l’argomento che i legali dell’esercito israeliano utilizzeranno per legittimare giuridicamente – cercando di forzare i limiti del diritto umanitario internazionale – il massacro di civili nella popolosa Striscia di Gaza.

Nello stesso periodo dell’operazione Gaza-Sderot, Skylink Aviation, insieme all’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e alle associazioni ebraiche UJA Federation of Greater Toronto, Canadian Jewish Congress Charities Committee, decide di donare aiuti ai terremotati in Abruzzo prendendo parte alla sfida lanciata dall’Abruzzo Earthquake Relief Fund (AERF), un’iniziativa di beneficienza organizzata dalla comunità italiana di Toronto. I fondi sono stati utilizzati per l’acquisto di medicinali, selezionati dal governo italiano, da donare alle popolazioni colpite dal sisma, e successivamente per un progetto di ricostruzione in collaborazione con l’Università dell’Aquila.

Nel periodo dell’intervento di Skylink Aviation in Abruzzo, Walter Arbib dichiara: “Penso che in questa occasione Berlusconi e Bertolaso e tutto il governo abbiano dimostrato grande efficienza” . Ma andando oltre la discutibilità delle sue affermazioni sull’efficienza della Protezione Civile italiana e del governo Berlusconi durante il sisma abruzzese e nella gestione post-sismica [4], proviamo a soffermarci sulle dichiarazioni con cui Arbib ha reso legittimo, ai suoi occhi e a quelli degli abruzzesi e degli italiani tout court, il proprio intervento umanitario:

Mi considero equamente italiano, ebreo e canadese. […] Questo progetto è un’occasione unica per ricambiare l’assistenza che l’Italia ha offerto a me e alla comunità ebraica quando la Libia ha espulso gli ebrei dal Paese nel 1967, senza contare che gli abruzzesi durante la guerra hanno salvato parecchi ebrei.

Il filantropo proprietario di Skylink mette in relazione – razionalizzandola all’interno della sua singolare geografia storico-morale – la catastrofe naturale che ha colpito l’Abruzzo con i fatti che hanno seguito la guerra del 1967 nel mondo arabo e con il “capitale morale” accumulato dagli antenati delle vittime del sisma durante i rastrellamenti fascisti di ebrei durante la Seconda Guerra mondiale. Questo estratto delle sue dichiarazioni in occasione della raccolta di fondi umanitari mette anche in luce una delle possibili logiche politiche con cui le raccolte umanitarie e gli interventi assumono una legittimità politico-morale agli occhi degli stessi umanitaristi: le operazioni che essi mettono in campo non sono il mero risultato di una logica dell’emergenza, di una risposta all’evento mossa da una morale filantropica presunta universale, ma anche di una “relazione speciale” che essi (ri)costruiscono con i luoghi, le popolazioni e i contesti politico-sociali di intervento. A ri-sancire questo regime di connessioni storico-umanitarie, sulle scatole degli aiuti, un messaggio della Comunità ebraica di Roma recita : “Al popolo d’Abruzzo, con affetto e stima ed eternamente grati per il coraggio dimostrato nei momenti tragici e bui dell’ultima guerra”.

L’evento (in questo caso una catastrofe naturale) è il luogo di innesto, di produzione e riproduzione insieme, di discorsi più ampi e con una doppia valenza o meglio con una doppia funzione di legittimazione: da un lato l’auto-legittimazione del proprio intervento agli occhi dell’imprenditore umanitario di origine ebraico-libica (nel caso di Arbib e dell’azienda umanitaria Skylink), e dall’altro una legittimazione pubblica agli occhi di chi riceve il soccorso, della vittima. In ultima istanza, in un caso come quello del rapporto tra Arbib e l’Italia, questa doppia funzione di legittimazione si traduce anche in una retorica identitaria in cui l’umanità teoricamente universale dell’umanitarismo e quella specifica etno-nazionale che si genera nel rapporto tra attore ed evento si fondono; Arbib mette infatti in gioco il suo sentirsi italiano, ebreo e canadese, erigendosi a incarnazione di un legame storico e memoriale.

Dal punto di vista materiale l’iniziativa a cui Skylink prende parte dà vita a un fondo – l’Abruzzo Earthquake Relief Fund – nato dalla sinergia degli attori multiformi che si sono mossi per il soccorso umanitario immediato e per la donazione di medicine all’Abruzzo. Questo fondo si è poi istituzionalizzato in qualche cosa di più ampio, in un organismo i cui obiettivi, oltre all’aiuto immediato e al soccorso, hanno avuto a che fare con la ricostruzione post-sisma. Il sito dell’Abruzzo Earthquake Relief Fund, ancora attivo, si apre con una proiezione molto sintetica dei numeri del sisma : “300 morti, 1000 feriti, 65.000 persone che hanno abbandonato le proprie abitazioni, 15.000 edifici danneggiati o distrutti”. Sembra quasi di rileggere i dati di apertura dei rapporti delle ONG e degli organismi internazionali sulla guerra di Gaza. Forse è intorno a queste rappresentazioni numeriche e in questi calcoli che si suscitano i sentimenti di solidarietà della “società civile”. Ma questi numeri lasciano solo intuire le scelte politiche verso cui si orientano gli sforzi umanitari.

Quindi il sito del fondo italo-canadese specifica che “mentre i bisogni immediati di soccorso sono adeguatamente soddisfatti dal governo italiano e dai servizi di emergenza, sono necessari fondi per la ricostruzione”. Esattamente: è intorno alla ricostruzione delle macerie, a Gaza come a L’Aquila, che si manifestano le progettualità politiche degli interventi umanitari, le modalità con cui “ridare forma” alle vite delle vittime.

Gli aggiornamenti del sito si fermano al 2010, quando il fondo aveva raccolto due milioni di dollari per l’Abruzzo; per l’esattezza al febbraio 2010, quando gli “amici del fondo” hanno organizzato un pranzo con l’amministratore delegato abruzzese della Fiat Sergio Marchionne, a Toronto, e raccolto 600.000 dollari per un progetto di ricostruzione dell’Università dell’Aquila. L’evento è stato poi celebrato sul sito con l’apertura di una finestra in cui sono rappresentate una accanto all’altra una mappa dell’Italia centrale con cerchi sismici concentrici che si stringono su L’Aquila e accanto una Fiat Cinquecento rossa. L’investimento iniziale nel soccorso immediato ha dato quindi vita a un progetto di più lunga durata e a un investimento del fondo nel settore dell’educazione, più nello specifico nel settore dei sistemi contabili e gestionari. Come nel caso di molti altri interventi umanitari, il primo soccorso si è tradotto in un intervento più ampio che ha investito aspetti più ampi della vita delle popolazioni soccorse e il delicato terreno della ricostruzione, della trasformazione delle macerie in una nuova forma di vita “rigenerata” da una rete di nuovi attori la cui presenza e interferenza – in termini politici e di investimenti – prende piede grazie all’incontro tra evento catastrofico, palingenesi identitarie (l’amministratore delegato della Fiat emigrato in Canada che “rinasce abruzzese” grazie a un intervento umanitario insieme a un filantropo ebraico-libico che re-identifica l’esperienza della fuga dalla Libia nella Guerra del 1967 con quella delle vittime di un terremoto abruzzese del 2009), logiche umanitarie e piani di una vita rigenerata attraverso il “progresso scientifico ed economico”, nel caso specifico della “sinergia della solidarietà” qui discussa. La politica umanitaria, una logistica politica, tra Gaza e l’Abruzzo…

Note

[1] In pieno embargo e soffocamento della Striscia di Gaza, il 4 novembre 2008 l’esercito di Israele ha ucciso sette palestinesi a Gaza. A questo attacco è seguito il lancio di razzi palestinesi e poi la contro-offensiva israeliana, con una guerra durata venti giorni”.

[2] Paolo Brogi, “Il filantropo ebreo che divide la comunità per gli aiuti a Gaza”, Corriere della Sera, 9 gennaio 2009.

[3] Su questo punto e sulle politiche – del cosiddetto “male minore” – di amministrazione e sperimentazione del “minimo umanitario” sostenibile dagli esseri umani, si veda Eyal Weizman, The Least of All Possible Evils, Verso, Londra, 2012 (Il minore di tutti i mali possibili, in uscita in italiano per Nottetempo).

[4] Su questo punto di confronti il lavoro curato da Fabio Carnelli, Orlando Paris e Francesco Tommasi, Sismografie. Ritornare a L’Aquila mille giorni dopo il sisma, Effigi, Arcidosso, 2012.

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