Le soluzioni abitative di emergenza ai tempi del Covid-19.
Durante il lockdown si è aperta una finestra di attenzione, che potrebbe presto richiudersi, sulla dispersione abitativa nelle aree interne e sui contesti di emergenza abitativa nei luoghi colpiti da fenomeni sismici. In questo momento le comunità attraversano una fase di trasformazione. In Appennino a tutte le latitudini ci troviamo a restituire centralità alle condizioni e alle necessità materiali, primarie, quotidiane.
Uno dei temi che ha iniziato a circolare sin dai primi giorni della pandemia riguarda la spazialità implicite dei villaggi SAE (soluzioni abitative in emergenza) le possibilità di contatto e frequentazione, più o meno obbligate. La domanda è cogente: il contagio in un villaggio SAE sarebbe più pericoloso che altrove, visto la maggiore densità abitativa e la scarsa distanza tra una casa e l’altra?
La situazione sembra essere sotto controllo e, anzi, per qualcuno la vicinanza favorisce occasioni di scambio e condivisione quotidiane dalla propria porta di casa.
Allo stesso tempo sentire i “rumori” dei vicini può intaccare la tranquillità dei propri ritmi abitativi. Alcuni dicono che passare tanto tempo in casa, invece che portare alla cura dello spazio intimo e di interiorità trascurate, possa rievocare la passata emergenza: «Ho letto di gente che approfitta della quarantena per rispolverare le vecchie foto o i vecchi diari, ma noi qui non abbiamo più neanche i ricordi».
Chi abita nelle SAE non può modificarne le componenti strutturali. Per esempio, per legge non si potrebbero installare elettrodomestici, ma neanche appendere con i chiodi alle pareti. Se questo aspetto è legato alla procedura di smaltimento delle strutture, che a livello legislativo è approssimata e poco chiara,1 allo stesso tempo può ostacolare l’adattamento e le pratiche abitative attraverso cui esprimere processi di costruzione della soggettività.
Secondo gli psicologi di Emergency abitare nelle SAE può essere problematico in questo periodo. Se molti hanno gli strumenti per fronteggiare la situazione, riuscendo a infondere serenità e forza alle persone che hanno intorno, la reclusione imposta in abitazioni non-proprie può generare il «riattivarsi del vissuto traumatico connesso al sisma». Il pericolo esterno, che quindi sarebbe “nell’aria”, cioè ovunque, può portare a un panico che paralizza, che congela. Dover-stare dentro introduce ad una percezione del rischio che si sposta in maniera imprevedibile dal dentro al fuori: «prima ti dicono tutti fuori, c’è il terremoto, poi tutti dentro, c’è il coronavirus!».
In ogni caso dire #iorestoacasa a persone che una casa “loro”, di fatto, non ce l’hanno suona stonato. «Non stiamo a casa dal 24/8/2016» recita un lenzuolo apparso ad Arquata del Tronto in parallelo con il lancio dell’hashtag #iorestoinsae, che ha raccolto la sensazione di sentirsi “in un pollaio”, con spazi interni inadeguati alle pratiche quotidiane eterogenee, soprattutto per i nuclei familiari. La casa va qui intesa in senso esteso, territoriale: una tale concezione ha permesso di adattarsi a soluzioni abitative calate dall’alto, che però permettono di restare a casa, cioè sul territorio, ma non nella propria abitazione.
Come afferma lo psicologo Valerio Valeriani le SAE hanno attivato l’utopia del ritorno, «Ossia l’ansia iniziale di ritornare nel proprio paese, ma quando è accaduto grazie alle SAE, ci si è accorti che comunque il paese che conoscevamo non esiste più». E si realizza presto che per molti «una SAE è per sempre», e che in esse si deve in ogni caso articolare una forma abitativa di lungo termine. L’acronimo SAE è in questo senso profetico: esplicita un abitare in emergenza destinato a durare quanto la stessa presenza delle casette sul territorio.
Se le pratiche abitative vanno indagate anche lontano dalla casa in sé, nell’eterogeneità dei processi culturali che coinvolgono il territorio e le forme sociali, le disposizioni di confinamento dovute alla pandemia di CoVid-19 hanno posto proprio la fisicità del domicilio al centro dei processi di soggettivazione. Nella fase che stiamo affrontando, quella della convivenza con il Virus, si comincia a vedere come le istanze che mettono in relazione territorio e pratiche abitative siano prese in “nuove” dinamiche di trasformazione destinate a trasformare il senso dei luoghi e dell’abitare, tra adattamenti e normalizzazioni dell’eccezione.
Il medico di paese
A Ussita non c’è un presidio medico fisso, ma solo la guardia medica notturna. I concorsi per il medico di base qui vanno deserti, o i vincitori rifiutano visto il bacino di utenti ristretto. Servirebbero misure speciali in grado di alzare la quota fissa che si percepisce per ogni paziente inscritto al registro. Attualmente più di duecento persone hanno il presidio medico più vicino a 5 km di distanza, a Visso, in condivisone con l’altro borgo dell’Alto Nera, Castelsantangelo sul Nera.
Se invece guardiamo agli ospedali della zona, il più vicino è a Camerino e dista 37 km. L’ospedale di Camerino, uno dei pochi servizi rimasti in zona, è diventato da un mese “Covid Hospital”; rimane attivo il pronto soccorso, mentre per altre patologie bisogna raggiungere Tolentino (52 km) o Macerata (72 km).
Se oggi i medici sono degli eroi, fino a ieri non sembrava importare a nessuno dello stato della sanità pubblica nei territori e delle conseguenti condizioni di incertezza e vulnerabilità. La retorica dei medici-eroi dialoga con quella dei terremotati-eroi, figure del discorso dell’emergenza.2 La funzione discorsiva di quei personaggi inscalfibili, che rimangono nei loro borghi-presepe nonostante tutto, risponde alla stessa esigenza di pervenire a conclusioni rassicuranti e assolutorie a proposito del lavoro dei medici durante la pandemia.
Conclusioni che, secondo l’approccio della sociologia dei disastri, servono spesso a distogliere da una lettura degli eventi capace di individuare e misurare le vulnerabilità, intese come interazione su più livelli tra una data composizione socio-territoriale e le condizioni di rischio causate dal disastro.3
L’emergenza nell’emergenza
Durante la fase di lockdown ho dovuto ridiscutere alcune pratiche di svolgimento del lavoro di ricerca di campo: dopo una prima fase di indagine, ho dovuto inevitabilmente ridiscutere le modalità di posizionamento e accesso al campo. Ho scelto di utilizzare questa fase per ragionare sulle condizioni entro cui situare la ricerca, occupandomi della costruzione del contesto, tematizzando il mio sguardo e analizzando le relazioni trasformative tra le istanze che permettono la co-produzione del sapere.4
Lo sguardo transdisciplinare adottato offre strumenti operativi di analisi e di interpretabilità delle pratiche, utili per capire cosa ci dicono le pratiche sui sistemi di senso culturali. Fare ricerca sul campo è quindi anche fare ricerca sulle configurazioni sociali del discorso che può giovarsi, ma in questa situazione non potrebbe essere altrimenti, di movimenti di ancoramento e disancoramento dal contesto fisico del campo.
Quando facciamo analisi della costruzione discorsiva dello “stato di emergenza” non stiamo parlando “solo” di testi o di “comunicazione”, ma dell’ordine del discorso che sostiene l’esistenza e la divulgazione di determinati pattern culturali.
In questo contesto le passate emergenze non vengono mai effettivamente superate, tanto che diventa normale che si parli di “emergenza nell’emergenza”, che si senta parlare di territori alle prese con doppie o addirittura triple emergenze. Denaturalizzare questo ordine del discorso richiede un’analisi critica della stratificazione di intersezioni culturali e politiche, che producono un territorio nella sua complessità, determinando anche il grado di incidenza di determinati eventi e le strategie di adattamento potenziali. Se le principali catene del valore contemporanee raramente le coinvolgono, è proprio questa “distanza” delle aree interne che crea condizioni favorevoli a progetti speculativi: di fronte al nulla si può essere più inclini ad accettare una proposta, purché qualcosa si muova.5
Di certo bisognerà tener conto che la ricostruzione non può essere solo mitologia, ma anche un fatto privato, in cui ogni abitante ha problemi, progetti, speranze, illusioni e delusioni. Le recenti misure di semplificazione attuate dal nuovo Commissario Straordinario Legnini, saranno efficaci solo se complementari al riconoscimento del ruolo di quei soggetti e di quelle reti che abitano i territori attualmente, prefigurando modi di Fare-Luogo situati e alternativi all’approccio urbano-centrico.
Note
- G. Barra, S. Olcuire, A. Marzo, D. Olori, Non è dolce vivere qua. Genesi e ricadute territoriali delle SAE, in Emidio di Treviri, Sul fronte del sisma. Un’inchiesta militante sul post-sisma 2016-2017, Derive Approdi, 2018, pp. 111-147.
- Ringrazio Barbara Olmai per lo spunto, nato nel corso di una conversazione telefonica.
- Cfr. S. Mugnano, A. Mela, D. Olori, (a cura di), Territori vulnerabili. Verso una nuova sociologia dei disastri italiana, in particolare i saggi di M. Mantineo e S. Scarfi, G. Gugg e D. Olori.
- Per approfondimenti teorici sul tema rimando a, F. Marsciani, Tracciati di etnosemiotica, Franco Angeli, 2007; A. D’Angelo e E. Diamanti, Emidio di Treviri: un’esperienza di ricerca collettiva sul post-disastro in Appennino centrale (2016-2017). Quando la ricerca è pubblica. Verso un’etnografia comune, Antropologia pubblica, 5 (2), 2019.
- D. Olori e V. Machiavelli, Grandi opere per ri-disegnare il territorio terremotato. Il “QuakeLab Center Vettore”, paradigma della strategia di sviluppo nel post-sisma dell’Appennino centrale, Scienze del Territorio n.7/2019; e cfr. anche la tesi di Laurea Magistrale di A. D’Angelo, Prima il food e poi le case? Gastroturismo e strategie di sviluppo della aree colpite dai sismi del 2016-2017 (Il caso di Amatrice e Castelluccio di Norcia), Università di Siena, Dipartimento di scienze sociali, politiche e cognitive, a.a. 2017-2018.