Il terzo e ultimo intervento su sinistra e confini aperti.
Pubblichiamo la terza e ultima di tre serie di interventi su sinistra e confini aperti recentemente apparsa su Political Critique. Le risposte alla domanda con cui si intitola la serie sono di Paolo Novak, Dalia Abdelhady, Alex Sager, e Michael Huemer. Le traduzioni sono di Giacomo Tagliani e Antonella Rizzello. Francesco Zucconi. Clicca qui per leggere tutti gli interventi.
Paolo Novak1
I confini, principale strumento territoriale costitutivo del sistema di gestione tra gli Stati, organizzano (o tentano di farlo) lo spazio e il tempo. Per quanto riguarda lo spazio, i confini classificano le persone, i luoghi e le cose sulla base delle posizioni di ciascuno di questi elementi in relazione all’unità politico-giuridica che gli stessi confini definiscono. I confini creano (o tentano di farlo) fittizie separazioni in una totalità sociale e la sinistra dovrebbe ripensare questa totalità, abbandonare il feticcio che ha costruito su di essa.
Per quanto riguarda il tempo, i confini soffocano (o tentano di farlo) le lotte e le narrazioni di coloro i quali sono stati sussunti all’interno di altre unità (attraverso processi di inclusione, esclusione e/o differenziazione subordinata). I confini promuovono una concezione della classe operaia impregnata delle classificazioni razziste dei regimi coloniali e imperialisti. La sinistra dovrebbe combattere queste rappresentazioni, piuttosto che abbracciarle.
Il capitale è costituito da relazioni sociali che si sviluppano sui confini, gli sbarramenti, le divisioni, le distinzioni e le differenziazioni. In questo senso, il contributo della sinistra all’apertura dei confini dovrebbe mirare a scardinare l’ordine sociale che i confini tentano di imporre, ristabilendo una comprensione della differenziazione interna al corpo sociale che sia basata sull’appartenenza di classe.
In quanto linee che, a seconda degli obiettivi, possono essere aperte, richiuse, attivate o spostate altrove, i confini pongono le condizioni per l’attuazione di un ordine spazio-temporale astratto, che si riproduce concretamente e quotidianamente. I confini sono già aperti per i privilegiati, per gli investimenti, per i droni e le forze militari delle nazioni più potenti; mentre i visti, i vincoli posti dalla cittadinanza e dai soggiorni umanitari, i muri e le recinzioni e, ancora, le forze militari e i droni, impediscono violentemente (o provano a farlo) il movimento dei diseredati, dei marginali, dei “non-produttivi”.
Non è pensabile una sinistra che faccia distinzioni tra il movimento di alcune persone rispetto ad altre.
Inoltre, la maggior parte dei migranti nel mondo non attraversa mai un confine. Per loro, così come per la maggior parte di noi, le leggi e le istituzioni nazionali proteggono i potenti e ostacolano l’affermazione di un potere collettivo; le forze di polizia e i droni reprimono (o ci provano) le lotte di quest’ultimo.
La gestione dei confini favorisce concretamente i processi di mercificazione e di sfruttamento del lavoro, rendendo la legge uno strumento di oppressione, secondo distinzioni di genere, di razza e di provenienza sociale. Il capitalismo prospera su queste articolazioni e il contributo della sinistra alle frontiere aperte è una lotta contro le disuguaglianze, l’espropriazione, lo sfruttamento e la violenza determinati dalla gestione dei confini, sia in movimento sia in loco.
I migranti di ogni luogo e di ogni epoca hanno sopportato il peso dell’ordine sociale che i confini hanno tentato di riprodurre, nelle sue manifestazioni astratte e in quelle concrete. Le loro soggettività politiche sono sempre e necessariamente in eccesso rispetto all’ordine sociale che li definisce come migranti; per questa ragione, storicamente e ancora oggi, i migranti sono potenti agenti del cambiamento. I lavoratori di tutto il mondo dovrebbero unirsi e lottare per un futuro socialista e laico, che vada oltre i confini.
Dalia Abdelhady2
Non esiste una questione della sinistra sull’apertura dei confini, può esistere solo una questione umana sull’apertura dei confini. Ogni giorno e da tutto il mondo vi sono casi che ci ricordano le atrocità perpetrate dal sistema dei confini nazionali. Queste frontiere nazionali discriminano e, spesso, uccidono. Nell’attuale conformazione degli Stati nazione il diritto di libero movimento di ciascuno è determinato dal proprio Paese di origine.
I diritti umani sono quindi legati alla cittadinanza di una persona, piuttosto che alla sua appartenenza all’umanità. Se abbiamo imparato qualcosa dai tanti muri eretti e dalle crisi umanitarie, dovremmo essere coscienti che i confini nazionali non limitano la mobilità, ma i diritti.
I confini nazionali agiscono secondo un sistema di disuguaglianza sociale, in cui la sessualità, l’appartenenza di genere, di razza e di classe giocano un ruolo dominante. La classe politica e i media ci convincono che il problema consista nei migranti irregolari, dimenticando che il problema sono i confini nazionali creati dagli esseri umani. Questi confini permettono disuguaglianze e ingiustizie globali e costituiscono uno dei miti più solidi che la società ha costruito e in cui continua a credere.
In questa sede, vorrei approfondire uno dei miti che riguardano i confini aperti: l’impatto degli immigrati sul mercato del lavoro. Abitando in Svezia, un Paese spesso ricordato per l’uguaglianza di reddito, per la forte attività dei sindacati, e (fino al 2016) per le politiche relativamente accoglienti per i rifugiati, si nota una tendenza crescente tra i lavoratori a opporsi all’arrivo di un numero maggiore di migranti. L’evidente aumento del consenso ai partiti nazionalisti di destra in tutta l’Europa (inclusa la Svezia) è in parte basato sulla convinzione errata che i migranti contribuiscano a ridurre i salari e a far aumentare la disoccupazione.
Quanto è stato studiato in diversi Paesi europei mostra, diversamente, che l’immigrazione comporta un aumento dei salari per i lavori poco qualificati e non una loro diminuzione, come alcuni tendono a credere. Inoltre, man mano che la popolazione si specializza, nuovi posti di lavoro vanno via via creandosi. Mentre il capitale trae profitto dal lavoro degli immigrati irregolari e a basso costo, l’aumento dei salari per i lavori poco qualificati – legato al maggiore arrivo di immigrati – non è sicuramente desiderabile per le imprese.
Limitare l’immigrazione attraverso controlli più severi rallenta questo processo e crea un esercito di lavoratori irregolari, senza documenti e disposti a tutto, di cui il sistema capitalista continua a beneficiare. I sindacati fanno il meglio che possono per proteggere i loro iscritti. In questo processo, si ritrovano allineati con le imprese capitaliste nel limitare l’ingresso di chi potrebbe minacciare il benessere dei propri membri. Il libero movimento dei lavoratori è vantaggioso per tutti i lavoratori, anche per quelli che non si muovono.
Tuttavia, perché possiamo davvero cogliere i vantaggi della libertà di movimento, è necessario un radicale ripensamento dell’appartenenza. Un cambiamento radicale non consiste nell’apertura dei confini, ma nel totale rifiuto dell’idea dei confini. I confini che vengono aperti possono sempre venire richiusi. Le frontiere aperte continueranno ad essere selettive e discriminanti e permetteranno l’accesso solo a chi è considerato utile e produttivo.
Una società caratterizzata dall’uguaglianza è quella che si prende cura di chi è produttivo per le imprese capitaliste tanto quanto di chi non lo è. È una società che rispetta il diritto delle persone in quanto esseri umani e non in quanto lavoratori.
Alex Sager3
Il grido di battaglia “nessuno è illegale!” condensa le tesi della sinistra per l’apertura dei confini. “Nessuno è illegale” è una protesta contro gli insulti come “immigrato clandestino”; è anche un appello per un mondo nel quale gli Stati non rendono le persone illegali, attribuendo loro una condizione inferiore sulla base del luogo di nascita. L’argomentazione della sinistra per l’apertura delle frontiere è antirazzista e anticlassista. I controlli alle frontiere statali devono essere aboliti perché l’esclusione degli immigrati gioca un ruolo decisivo nell’assegnare agli individui uno status subalterno così da marginalizzarli, sfruttarli ed esercitare violenza contro di loro.
La tesi della sinistra in favore dell’apertura delle frontiere si oppone alle ragioni dei liberal nazionalisti e statalisti che vedono la violenza dei controlli di confine come un costo spiacevole per il mantenimento della sovranità politica, economica e culturale. I liberal nazionalisti e statisti non possono rifuggire la loro complicità nella detenzione ordinaria di immigrati (richiedenti asilo inclusi), nelle spedizioni militarizzate contro le comunità di immigrati, nella separazione delle famiglie attraverso l’estradizione o il rimpatrio, nella morte dei migranti.
Contro ogni chiara evidenza, questi liberal ritengono che la brutalità dei controlli frontalieri potrebbe essere mitigata attraverso leggi, politiche e pratiche più umane. L’argomentazione della sinistra per l’apertura dei confini non può coincidere con quella dei liberal. Le ragioni dei liberal in sostegno a tale apertura sono che le i confini violano i diritti umani alla mobilità e alle opportunità. I confini sono distorsioni del mercato che sorreggono le ineguaglianze definite attraverso il luogo di nascita.
Le argomentazioni dei liberal non sono sbagliate, ma non si spingono abbastanza in là. Ignorano come morti e le ferite subite da chi migra siano solo la parte più visibile delle brutalità perpetrate da un sistema di violenza simbolica e strutturale.
Le tesi della sinistra per l’apertura dei confini asseriscono che “immigrato” sia un termine incentrato sullo Stato, usato per attribuire agli individui uno status inferiore. Questa attribuzione reca con sé una forma di violenza congenita. Gli individui sono regolarmente messi nell’illegalità per ridurre il loro accesso ai diritti umani. Agli immigrati è assegnato uno status variabile, da lavoratori la cui sottomissione è resa possibile dall’imposizione di una condizione temporanea o illegale a residenti permanenti, privilegiati in confronto ai primi, che nondimeno sono privati del diritto di voto e soggetti a espulsione. La polizia militarizzata risponde alla resistenza con l’incarcerazione e il rimpatrio.
La violenza strutturale si congiunge con la violenza simbolica. Il muro dello slogan “costruiamo il muro” è un simbolo che ha poco a che vedere con un muro e molto più a che fare con l’affermazione che la violenza sarà impiegata per conservare la supremazia bianca. Il suo obiettivo principale non sono gli stranieri al di fuori dei territori statali, ma le diverse etnie all’interno dello Stato che osano rivendicare eguali diritti e condizioni.
Rinunciare alle forme simboliche e congenite di violenza significa andare alla ricerca di un mondo dove nessuno è illegale. Una rinuncia che in cambio richiede dei confini aperti.
Michael Huemer4
Il principale argomento in favore dell’apertura dei confini è che le restrizioni frontaliere sono pericolose per i potenziali immigrati. In tutto il mondo ci sono dieci milioni di persone che vogliono trasferirsi in un’altra nazione, molti dei quali cercano di sfuggire da schiavitù ed enormi ristrettezze economiche. La schiacciante maggioranza è impossibilitata a farlo a causa delle barriere insormontabili erette dai governi nazionali.
La situazione è comparabile al seguente scenario. Un uomo è a corto di viveri e in pericolo di denutrizione. Per procacciarsi un po’ di cibo in più prova a recarsi a un vicino mercato, dove ci sono persone disponibili a scambiare degli alimenti in cambio di qualcosa in suo possesso. Prima che possa raggiungere il mercato io lo blocco, fucile d’assalto in mano, e gli ordino di tornare indietro. Faccio questo perché mio nipote sta facendo acquisti lì e ho paura che quest’uomo possa far incrementare il prezzo del cibo. In più, questi ha una lingua, una religione e un vestiario diversi rispetto alla maggioranza degli avventori del mercato, e temo che il suo arrivo abbia conseguenze sulla lingua, la religione e il vestiario del mercato stesso. Come risultato della mia azione, se ne ritorna a casa, dove muore di stenti.
Seguendo questo esempio, ho fatto del male a quest’uomo? Ovviamente no. Non mi sono semplicemente rifiutato di aiutarlo, e nemmeno ho semplicemente permesso che qualcosa di male gli accadesse. Sono la causa del suo morire di fame. Dovrei in effetti essere colpevole di omicidio, o qualcosa di analogo. Il danno non è ovviamente giustificato dal mio desiderio di limitare la competizione economica o di impedire il cambiamento culturale.
Questo è un caso particolarmente drammatico. Possiamo immaginare variazioni nelle quali l’uomo soffra di mali minori, quali malnutrizione o semplice povertà. In questi casi, sarei colpevole “solo” di avergli inflitto questi danni più lievi. Ma il principio soggiacente è sempre lo stesso: impedendo con la forza a una persona di evitare una sofferenza, diventiamo moralmente responsabili di quella sofferenza; infliggiamo quella sofferenza alla persona stessa.
Le leggi restrittive sull’immigrazione funzionano in modo analogo. Molte persone potrebbero evitare forme di oppressione, povertà, o altre disgrazie spostandosi in altri Paesi e relazionandosi con i residenti. Impedendo coercitivamente a queste persone di farlo, il governo diventa moralmente responsabile dei danni che ne scaturiscono. Questo non è un argomento strettamente di sinistra, benché sia compatibile con i valori della sinistra: chiunque dovrebbe essere contrario a infliggere con la forza danni permanenti ad altri senza buone ragioni.
Nandita Sharma5
L’unica tesi di sinistra possibile sui confini è la tesi abolizionista.
Viviamo in un mondo definito dall’intreccio di due forze di dominazione: un capitalismo esteso su scala globale e un sistema mondiale di Stati nazione. I capitalisti cercano di investire in luoghi dove il profitto è massimo. La competizione per l’investimento di capitale è organizzata da quegli Stati nazione che hanno i mezzi legislativi (e militari) per manipolare il costo degli affari (risorse naturali, imposte e soprattutto la forza lavoro). Ogni Stato nazione è alla ricerca del profitto attraverso l’abbassamento del costo della produzione, specialmente del costo della forza lavoro. Al contempo, i capitalisti chiedono ai singoli Stati nazione di eseguire i loro ordini (ad esempio, intervenendo militarmente quando i profitti sono a rischio).
Le pratiche espropriative che definiscono il capitalismo hanno lasciato la grande maggioranza della popolazione mondiale nella condizione di vendere la propria forza lavoro semplicemente per sopravvivere. Siamo obbligati a trovare un acquirente per il nostro lavoro in modo da comprare cibo, un alloggio, dei vestiti, medicine e praticamente tutto il resto. Ma la nostra capacità nel farlo è profondamente diseguale.
Trovare e mantenere un lavoro nel mondo povero è più difficile che nel mondo ricco, i livelli salariali lì sono decisamente più bassi, e la qualità della vita ampiamente più misera. Questo però sta bene al capitale. Uno studio prodotto dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro nel 2010 ha scoperto che assumere un lavoratore manifatturiero per un giorno in Messico costa il 13% di quanto costa negli Stati Uniti.
I controlli sulla cittadinanza e sull’immigrazione sono una parte essenziale di questo sistema di apartheid globale, al punto che la cittadinanza di un individuo è il fattore più decisivo nella previsione delle sue aspettative di vita. I controlli sull’immigrazione mantengono i confini tra mondo ricco e mondo povero, così come regolamentano la discriminazione all’interno dei singoli Stati nazione attraverso l’allocazione di diverse classi di diritti e poteri sulla base del fatto che gli individui siano “cittadini” oppure no. Questo rende i lavoratori classificati come “immigrati”, in particolare quelli che vengono dagli Stati nazione del mondo povero, più economici da impiegare e più facili da abusare.
Ma forse più pericolosamente, i controlli sull’immigrazione distruggono la solidarietà globale che è essenziale per sconfiggere il capitalismo. I controlli sull’immigrazione dipendono dal nazionalismo dei lavoratori. Il nazionalismo è fondato sull’idea che i membri dell’interclasse “nazione” possano vivere insieme in pace. Il nazionalismo ci racconta che l’unica ragione che ce lo impedisce è l’esistenza di “stranieri”.
Ma il nazionalismo non può mai produrre libertà, eguaglianza e fratellanza. Il nazionalismo può essere usato solo per fare degli “immigrati” uno scudo umano capace di nascondere la complicità tra il nazionalismo e il capitalismo.
Possiamo far meglio. Il movimento No Borders rifiuta i tentativi di separare i lavoratori e le lavoratrici. Noi rifiutiamo le identità di “cittadini” e “migranti” usate per metterci gli uni contro gli altri. Noi rifiutiamo le “nazioni” e i loro confini per creare un mondo senza dominio di classe.
Note
- Docente presso il Dipartimento di Development Studies alla SOAS, University of London. Il suo attuale lavoro offre un contributo agli studi sui confini e sulle migrazioni, attraverso una ricerca etnografica nei centri di accoglienza per richiedenti asilo in Italia.
- Professore Associato di Sociologia al Centre for Middle Eastern Studies della Lund University. I suoi studi si concentrano sulle esperienze di vita di gruppi diversi di migranti (e dei loro figli) in diversi contesti regionali e nazionali; nello specifico, Abdelhady indaga le forme di appartenenza, di identificazione e di rappresentazione culturale come espressione delle traiettorie migranti.
- Professore Associato di Filosofia e Studi Universitari alla Portland State University. Tra le sue pubblicazioni recenti, Toward a Cosmopolitan Ethics of Mobility: The Migrant’s-Eye View of the World (Palgrave Macmillan, 2018) and The Ethics and Politics of Immigration (Rowman & Littlefield, 2016). A breve uscirà il suo ultimo lavoro, In Defense of Open Borders (Rowman & Littlefield, Off the Fence). Per maggiori informazioni: https://alexsager.com/
- Professore di filosofia all’Università del Colorado-Boulder. È autore di oltre 70 articoli nel campo dell’etica, dell’epistemologia, della filosofia politica e della metafisica, e di sei libri, tra i quali Ethical Intuitionism (Palgrave, 2005), The Problem of Political Authority (Palgrave, 2013) e Dialogues on Ethical Vegetarianism (di prossima pubblicazione).
- Professoressa associata di Razzismo, Migrazione e Transnazionalismo nel Dipartimento di Sociologia dell’Università delle Hawaii a Manoa. È una studiosa la cui ricerca prende forma dai movimenti sociali nei quali è attiva, tra i quali il movimento No Borders e quelli che lottano per i beni comuni. Tra le sue pubblicazioni Home Economics: Nationalism and the Making of ‘Migrant Workers’ in Canada (University of Toronto, 2006) e Home Rule: National Sovereignty and the Separation of Natives and Migrants (Duke University), di prossima pubblicazione.