Siam cavoli o siam re?

Palazzo Chigi o l’anarchia del potere

Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) di Pier Paolo Pasolini

In un clima da Sodoma e Gomorra, la nostra epoca materialista si accontenta di sciogliere il famigerato binomio desiderio-potere nella sigla semplificata della doppia s di sesso-salotto. Se un tempo la pièce teatrale del Re Ubu, famelico sovrano assetato di sangue, a causa delle sue pose pornografiche, veniva censurata; i nostri tempi sono cotanto libertari da fornirci quotidianamente un buon numero di dettagli anatomici sull’attività da gabinetto di Palazzo Chigi. È grazie allo sciabordìo delle intercettazioni telefoniche che assistiamo ad uno spettacolo che, per quanto avvilente, è meno sorprendente del previsto. Infatti, come di consueto, la compravendita della merce è legata non tanto a canoni qualitativi, quanto puramente quantitativi; come in ogni mercato che si rispetti le variabili prese in considerazione sono il numero di capi, circonferenze e metratura.

Eppure, mai si sottolineerà abbastanza il fatto che, in questo frangente, le forze in gioco non sono paritarie, mai si comprenderà il fenomeno di fronte al quale ci troviamo inermi, se non si esamina il dislivello tra le supinine, congerie di fanciulle nel fiore della giovinezza, e il Presidente del Consiglio, uomo al suo de-grado zero. Ciò che qui vogliamo sostenere è che mai si modificheranno tali gessati rapporti di forza se non si arriva a metterli a fuoco in quanto proiezione cristallizzata di un’intera società. Vogliamo cioè sottolineare che stavolta la battaglia si gioca tra un essere dai cromosomi XY e parecchi esseri dai cromosomi XX. Inoltre, abbiamo anche la pretesa di fare a meno di x ed asterischi e, piuttosto che gridare al “Così fan tutt*!”, intendiamo occuparci del fluido, non esattamente di quello corporale ma di certo non immateriale che scorre tra questi due schieramenti. Perché, se da una parte abbiamo una cascata pressoché infinita di soldi e potere, dall’altra abbiamo piccole ed insulse anfore che, come le ostrichette di Alice in Wonderland [1], non possono che soccombere nello scontro col Moloch. Torniamo però per un momento alla definizione dei termini della contrattazione del bazar del sesso: lo squilibrio pare legato ad un problema di ordinaria domanda-offerta. Occorre quindi chiedersi qual è la domanda e qual è l’offerta? La stima sembrerebbe semplice: la domanda è quella finalizzata ad un soddisfacimento sessuale, l’offerta è invece la materia prima, carne fresca e di prima qualità. Ed invece no! La longa manus del potere economico è riuscita stavolta a titillare non solo un innumerevole numero di giovanissime signorine ma l’intero apparato delle loro aspettative, in particole riguardo al campo lavorativo. Certo, nell’era dei trends finanziari, degli choc borsistici ci sorprende ritrovarci a parlare di baratto. Eppure è proprio qui che sta il vulnus del problema.

Pasolini diceva “Solo il potere è anarchico” [[2]. Piega, plasma, sforna corpi utili al puro soddisfacimento del desiderio, un desiderio funzionale al consumo di se stesso, che si autodivora e comporta una distruzione che non è solo quella degli oggetti ma della coscienza stessa. Allora occorre chiedersi: è possibile urlare se ti senti derubata del tuo corpo come se fosse un pesante manichino di gesso? È possibile combattere un nemico che, sotto le più mentite spoglie, si nasconde ad ogni angolo esigendo un soddisfacimento immediato? Ha ancora senso parlare di scelta di libero utilizzo del proprio corpo, quando sembra che sia il tuo stesso corpo ad essere scelto?

Ancora una volta è Pasolini che ci viene incontro. Con la voce e il volto di una superba Anna Magnani dei bassifondi che dice al proprio figlio: “Te ancora n’a sai tutta la cattiveria der monno”, tu non lo sai com’è la vita là fuori, tu non lo sai cosa fa tua madre per te. Ma se la finalità di una Mamma Roma era di guadagnarsi il pane per poter vivere una vita “normale”, qual è la finalità perseguita dalle supinine? A che tipo di pagamento materiale ed appagamento spirituale vanno incontro? È il tozzo di pane? È una cosa? Bien sùr, non! Loro, nel sbrilluccichio del mondo dello spettacolo, vogliono diventare qualcuno. E perché prima cos’erano, Nessuno?!

Sappiamo che nell’Odissea, grazie al trucco del travestimento con pelli di pecora, autonominandosi “Nessuno”, Ulisse riesce a sfuggire al gigante Polifemo. Ma allora, forse, la soluzione per noi tutte è di belare in coro “Io sono Nessuna!”? Rinunciare ai nostri corpi, alle nostre bellezze, alla nostra pelle per affermare il diritto ad un esistenza in quanto donne? Qual è il prezzo che viene pagato, se non la nostra vita stessa, ossia la nostra possibilità di esperirci in quanto esseri di genere femminile? Quanto ancora dovremo subire questa violenza mediatica che si incarna in piccoli Signor Qualcuno, che siano il nostro capo, o il nostro marito, o il semplice vicino di treno? Qui infatti non si parla solo dei Signori del Potere, ma di ognuno di coloro che compone la schiera dei servi della gleba d’una forma di vita sessista, maschilista e utilitarista. E noi, se non vogliamo essere solo delle addolorate Penelopi o delle compiante Didoni, che scelta abbiamo?

Articoli di varie giornaliste ed opinioniste questi giorni sottolineavano l’importanza di gesti, dell’effettiva realtà di donne che studiano, lavoro, si prendono cura delle faccende pubbliche e private; ma siamo sicure che sia veramente possibile farlo? Con “veramente” si intende in modo appagante e coinvolgente. Non siamo anche noi, nel fare il nostro cosiddetto “dovere”, nel quotidiano “Andare, Camminare, Lavorare”, schiave di un appagamento e di un coinvolgimento, se non fittizio, criticabile e sovvertibile per molti suoi aspetti? Sveliamo l’arcano: la tesi è che tra le brutture del premier e quelle di un padre di famiglia non ci sia che una differenza di grado e di mezzi a disposizione. Ciò non significa che tutti, se si trovassero al suo posto farebbe ciò che fa lui, ma che quella forma di soddisfacimento è dettata dai medesimi canoni borghesi ai quali tutti sottostiamo, seppur con le dovute modulazioni del caso. Come si spiegherebbe altrimenti la diffusione capillare, non solo sulla rete web, ma in ogni vicolo di questo mondo, di immagini raffiguranti l’antro primordiale volte alla continua iperstimolazione metonimica?

Lasciando perdere tali rivendicazioni da soggettività razionale [3], rimane il nodo teorico iniziale: il potere. Forse per scioglierlo occorre ribaltare l’equazione potere-denaro, ossia ciò che viene comunemente designato come il tratto caratteristico di desiderabilità del potere. Tale paradigma presuppone l’esistenza di un trono che attira, per il suo stesso essere tale, cortigiani, paggi, mendicanti. Ossia: certo, il potere implica denaro e ricchezza materiale ma ciò che lo rende così appetibile, perlomeno ai nostri giorni, è qualcosa che non è puramente pragmatico o fattuale, oggettuale. Forse, piuttosto, è proprio questo potere che ci desidera, ci forgia in quanto desideranti di se stesso. Con ciò intendiamo dire che l’espropriazione coatta (nei due sensi possibili) dei nostri corpi non è che il necessario complemento di una strategia di potere volta alla depersonalizzazione, alla privazione di una possibilità di vita condotta secondo dei criteri che non rispecchiano in toto le esigenze di una produzione delocalizzata ed in continuo mutamento. La plastica sul davanti, la piallatura dei visi, il prosciugamento degli arti non sono altro che il macinìo di un’industria che investe i nostri corpi e le nostre vite. L’entità a cui tutto ciò tende, che ispira tale appetitus è Madame l’Economia. Nessuno ha ben chiaro come abbia fatto a crescere così a dismisura. Anche il declassato uomo della strada vuole consumare per nutrire tale ingombrante signora, ormai gigantesca inquilina delle nostre menti. Donna cannone senza più alcuna pietà.

Infine, qual è la soluzione che proponiamo? Una volta si diceva “One solution, revolution!”. Noi non siamo di questo avviso, di certo sarebbe il caso di non offrire i nostri corpi e le nostre menti come se fossero uno stupido xilofono atto a suonare la marcetta inneggiante alle necessità della produzione; riprendendoci non solo le piazze, ma tempi e luoghi vissuti secondo desideri che, di volta in volta, abbiamo il dovere di reinventare.

Note

[1] Per chi avesse bisogno di un ripasso della storia delle ostrichette www.youtube.com/watch?v=vI69waKgn8w.

[2] Per approfondire la tematica, oltre alla produzione scritta, cfr. l’intervista rilasciata nel ’75, ora raccolta in Pasolini prossimo nostro (2006) di G. Bertolucci; ma soprattutto Salò e le 120 venti giornate di Sodoma dello stesso Pasolini, in particolare il discorso del Duca nel Girone delle Manie (dal min. 36).

[3] Così Dacia Maraini definiva lo stile di Pasolini in un’intervista di Giovanni R. Ricci del Marzo 1976, consultabile on-line www.pasolini.net/cinema_salo_c.htm.

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