Forensic Oceanography – Uno sguardo disobbediente 1/2

Forensic Oceanography si propone di documentare le violazioni dei diritti dei migranti che avvengono ai confini marittimi dell’Unione Europea. Qui la seconda parte.

Le seguenti note di lavoro (una sorta di visita guidata ad una piccola parte della vasta libreria digitale che abbiamo accumulato nel corso delle nostre ricerche) emergono da un progetto di ricerca in fieri intitolato Forensic Oceanography che da circa un anno e mezzo stiamo conducendo grazie al supporto dell’European Research Council presso il Centre for Research Architecture di Goldsmiths, Università di Londra.1 Tale progetto si propone, attraverso l’uso di varie tecniche di analisi e rappresentazione dello spazio – mappe, immagini satellitari, modelli digitali, ecc. –, di documentare le violazioni dei diritti dei migranti che avvengono ai confini marittimi dell’Unione Europea, dove negli ultimi vent’anni più di 13 mila migranti sono morti nel tentativo di raggiungere le coste meridionali del’Europa. Il nostro progetto, in collaborazione con una vasta rete di organizzazioni e di attivisti, si propone dunque di sperimentare modi di agire politico che possano mettere in evidenza la responsabilità di queste morti nel contesto della progressiva militarizzazione e moltiplicazione delle frontiere.
Il concetto di Forensics, difficilmente traducibile in italiano ma che trova fra gli altri nel lavoro dello storico Carlo Ginzburg sul paradigma indiziario un’interessante premessa, descrive la crescente influenza che tecniche scientifiche di indagine e ricostruzione di episodi di violenza stanno guadagnando in ambito legale. Nel tentativo di esaminare criticamente il ruolo che queste nuove forme di testimonianza possono giocare nell’ambito del diritto e della politica internazionale, il nostro progetto si propone quindi anche, più in generale, di riflettere su come certi eventi storici e politici possano venire registrati dall’ambiente in cui viviamo e di immaginare nuovi laboratori di dibattito, dissenso e mobilitazione attorno a tali forme di prova.

1. Quali sono le condizioni di visibilità e invisibilità delle migrazioni e dei dispositivi del loro controllo nel Mediterraneo? Qual è la logica estetica del regime di frontiera? Per estetica intendiamo certo qui una filosofia del bello, ma ci riferiamo piuttosto alla definizione di estetica come pratica politica formulata da Jacques Rancière. Per il filosofo francese il politico è infatti indissolubilmente legato alla “partizione del sensibile”, a quella sottile linea cioè che divide il visibile dall’invisibile, il linguaggio dal rumore e che determina le condizioni in cui certe rivendicazioni possono divenire percepibili. Focalizzarsi sulla dimensione estetica del confine non significa quindi dimenticarsi delle pratiche materiali che definiscono, in maniera spesso brutale, il conflitto fra i dispositivi di controllo delle migrazioni e le reti di mobilità migranti. Al contrario vuol dire riconoscere come proprio quelle pratiche operino anch’esse attraverso una dimensione estetica che mette a frutto le logiche di visibilità e invisibilità.

Partiamo dall’analisi di un’immagine che si trova sulla copertina del rapporto generale di Frontex (l’agenzia europea per il controllo delle frontiere esterne) del 2011 e che mostra una scena piuttosto comune, soprattutto per l’anno scorso: una motovedetta della Guardia Costiera sta scortando uno dei tanti “barconi” che sono stati intercettati al largo di Lampedusa.2 I migranti nella foto sono stati catturati e sono visibili, o meglio, sono stati resi visibili. Sono stati resi visibili perché sono stati intercettati o sono stati intercettati perché sono stati resi visibili? In realtà, non è possibile distinguere fra questi due momenti, in quanto il fatto che essi siano stati resi visibili è allo stesso tempo indice e mezzo della loro cattura. Quest’ultima può avvenire infatti solamente a condizione che la logica della “clandestinità”, che costringe i migranti ad attraversare il confine senza essere individuati e intercettati, sia stata interrotta. “Clandestino” infatti, come rivela l’etimologia latina, è precisamente colui che agisce in segreto, senza essere osservato. Come é noto anche harraga (letteralmente, “colui che brucia”), la parola araba che nel Nord Africa si usa per indicare a coloro che tentano di attraversare in barca il Mediterraneo, si riferisce proprio alla pratica di bruciare i propri documenti prima della traversata.3 La pratica degli stoveaways, coloro che, spesso con tragiche conseguenze, cercano di varcare le frontiere nascondendosi all’interno di navi cargo o dei traghetti diretti verso i porti italiani, francesi e spagnoli, è forse l’esempio più drammatico di tale pratiche di clandestinità.

Questo processo, tuttavia, non riguarda certo solo coloro che entrano in Europa attraverso le frontiere marittime ma interessa tutti coloro ai quali é negato un accesso legale al territorio europeo e che, in modi diversi, cercano nei fatti di esercitare comunque quello che Sandro Mezzadra ha definito ormai diversi anni fa “diritto di fuga”. É noto infatti che la maggioranza dei migranti che risiedono “illegalmente” sul territorio europeo sono inizialmente entrati con un regolare documento di ingresso e sono poi rimasti oltre il termine legale del loro soggiorno. In questo caso, dunque, l’ingresso nel territorio europeo avviene in condizioni di piena visibilità e la condizione di clandestinità subentra solamente in un secondo momento, con un ritardo temporale. Nel caso in cui, invece, l’accesso all’Europa sia ottenuto tramite l’uso di documenti falsificati è la relazione fra corpo e identità del migrante ad essere messa in discussione: mentre il primo è pienamente visibile é la seconda a essere tenuta nascosta. Tutti questi casi comunque mostrano come, pur con tempistiche, modalità e spazialità differenti, la logica della clandestinità sia spesso l’unico l’unico mezzo a disposizione dei migranti per raggiungere il territorio europeo e rimanervici.

Al contrario, la molteplicità di agenzie nazionali e internazionali che si occupano del controllo dei confini (dalle varie polizie nazionali a Frontex, passando per tutte le varie agenzie, anche private, che, pur non avendo tra i propri compiti istituzionali quello di controllare e amministrare le migrazioni, di fatto contribuiscono ad esso in maniera spesso decisiva) cercano di gettar luce sull’attraversamento del confine nel tentativo di rendere il cosiddetto fenomeno delle migrazioni più conoscibile, prevedibile e, in fin dei conti, governabile. Al di là delle pur sostanziali, e per questo forse ancor più interessanti, differenze con cui tali agenzie interpretano il loro ruolo di controllo e salvataggio4(evidenziati, per esempio, dai contrasti fra la guardia costiera e la guarda di finanza in Italia o dalle liti fra queste ultime e la controparte maltese), tutte queste organizzazioni si dedicano a svelare e rendere visibile ciò che avviene al confine.

2. Se torniamo per un attimo all’immagine con la quale abbiamo iniziato questi appunti e la esaminiamo con maggiore attenzione, ci accorgiamo che tale messa in luce non é solamente un corollario dell’attività di intercettazione/salvataggio. Se così fosse, non potremmo spiegare la selva di macchine fotografiche e telecamere che é possibile notare ad una più attenta osservazione di tale immagine. Sulla motovedetta della Guardia Costiera, infatti, si trovano diverse macchine da presa puntate proprio verso l’imbarcazione dei migranti. La stessa foto che stiamo osservando deve essere stata presa da una terza imbarcazione che trasportava anch’essa almeno un fotografo. Chiaramente un numero così consistente di macchine da presa eccede qualsiasi necessità operativa. Qual é dunque la loro funzione? E qual é la loro relazione con l’atto di intercettare/salvare i migranti?

Quello preso in esame non è un caso isolato. Una rapida ricerca su internet consente di visualizzare un grande numero di video e fotografie legate ad operazione di controllo dei confini marittimi, prodotte sia da giornalisti embedded o dagli stessi agenti della Guardia Costiera/Guardia di Finanza. La presenza di telecamere e macchine fotografiche sulle barche di tali agenzie non è dunque un’eccezione ma piuttosto esse sono parte integrante degli strumenti con i quali vengono svolte queste operazioni. Esse avvengono molto spesso di notte e l’analisi di un video prodotto proprio durante una di queste operazioni al largo di Lampedusa può essere utile per cercare di rispondere alle domande che ci siamo posti.

Ciò che intuiamo da tale video, e che ci é stato confermato durante diverse interviste, è che gli strumenti di visione a bordo degli elicotteri e delle motovedette (da telecamere tradizionali a più sofisticati sistemi di visione notturna) servono innanzitutto a documentare la presenza dei “barconi” che sono stati individuati attraverso radar e altri mezzi di rilevamento (vedi fino al minuto 0:28 del video). In un secondo momento (fino al minuto 2:03), i potenti fari che si trovano a bordo isolano ogni singolo migrante dal resto del mondo, isolandolo dai compagni con i quali aveva fino a quel momento condiviso il viaggio. I corpi dei migranti sono resi visibili per essere contati e, quindi, resi sorvegliabili. La logica visiva che si ritrova qui é quella che accomuna il mondo delle star a quello dei criminali. In entrambi i casi, le luci della ribalta isolano e differenziano esteticamente un soggetto. Ma in questo caso, ciò che emerge non é certo la singolarità del migrante, quanto piuttosto un soggetto criminale collettivo, quello dell’“immigrato clandestino”, che popola molti notiziari. Possiamo solo intuire, infatti, nella parte finale del video, la presenza, oltre il cancello che sul molo di Lampedusa delimita la zona dichiarata militare, delle telecamere che nei periodi caldi dell’ “invasione” si trovano sull’isola in attesa dell’uscita del pullman che trasporta i migranti al centro di detenzione di Lampedusa.

In tutti questi strumenti di visione che accompagnano i migranti dal mare aperto fino ai porti della riva nord del Mediterraneo iniziamo a scorgere la presenza di un apparato visivo che trasforma l’intero mare in una sorta di studio di produzione. Le condizioni di visibilità che si vengono così a produrre sono inestricabilmente legate al controllo dei corpi e alla produzione della nuova condizione di “illegali”. Tali strumenti visivi non documentano semplicemente un evento che preesiste alla loro presenza. Piuttosto, è la presenza stessa di quegli stessi strumenti che crea il palcoscenico sul quale va in scena lo spettacolo dell’immigrazione “illegale”. Il numero di video che è stato girato e fatto circolare nel 2011 ha chiaramente contribuito a rafforzare quell’immaginario dell’“invasione”5 che, a sua volta, ha giustificato l’utilizzo di mezzi “eccezionali” per far fronte all’arrivo dei migranti. Il tutto secondo una logica che qualche anno fa il teorico dei media Florian Schneider, riferendosi alle immagini diffuse dai telegiornali del tragico tentativo di varcare le fortificazioni che circondano l’enclave spagnola di Ceuta, ha definito “scandalizzazione del confine”.

 

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Note

  1. Per maggiori informazioni si veda questo articolo apparso su Uninomade 2.0 e il sito del ricerca Forensic Oceanography (FO).
  2. Quello che volgiamo fare qui non è un esercizio di semiotica, ma vorremmo piuttosto considerare quest’immagine come un diagramma materiale attraverso cui é possibile ricostruire l’incontro fra un fotografo e un soggetto fotografato. Come scrive Ariella Azoulay in The Civic Contract of Photography, “ogni fotografia dell’altro mostra le tracce dell’incontro fra le persone fotografate e il fotografo, nessuno dei quali può, per conto proprio, determinare il modo in cui tale incontro verrà scolpito nell’immagine prodotta. […] Anche quando sembra possibile indicare correttamente con una frase ciò che essa mostra -‘Questo è X’- ci sarà sempre la possibilità che vi ci si possa leggere qualcosa d’altro, che qualche altro evento possa essere ricostruito a partire da essa, che la presenza di qualche altro soggetto possa essere scorta, facendo così emergere le relazioni sociali che hanno permesso la sua produzione”.
  3. La decisione di bruciare o meno i propri documenti non è in realtà sempre scontata e dipende da una molteplicità di condizioni legali che, di volta in volta, possono indurre i migranti a distruggere o conservare i propri documenti al variare di luoghi, leggi e strategie di migrazione.
  4. Anche se non abbiamo lo spazio qui di approfondire questo aspetto, vale la pena accennare che la distinzione fra le attività di intercettazione e salvataggio in mare (esemplificata, per esempio, in Italia nella divisione fra i compiti di polizia della Guardia di Finanza e quelli di salvataggio della Guardia Costiera) si è andata via via assottigliando fino a diventare spesso indistinguibile. Per questa ragione, ci riferiremo d’ora in poi al concetto di intercettazione/salvataggio.
  5. In molti hanno ricordato come gli scenari apocalittici inizialmente evocati da molti, con centinaia di migliaia di migranti pronti a raggiungere l’Italia, si siano poi rivelati totalmente infondati. Basti ricordare qui che meno del 5% di coloro che sono fuggiti dalla Libia in seguito all’attacco della NATO sono arrivati in Italia. Gli altri hanno cercato rifugio negli stati confinanti (in particolare Tunisia, Egitto e Chad), i quali hanno dovuto far fronte ad arrivi ben più massicci nonostante le condizioni di instabilità in cui essi stessi si trovavano.
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