Le nuove forme della serialità televisiva
In occasione della presentazione della collana “Repetita” di Edizioni Estemporanee, pubblichiamo una riflessione in due puntate sulle nuove forme della serialità televisiva, la prima a cura di Giacomo Tagliani e la seconda (che uscirà la settimana prossima) di Angela Maiello, autori rispettivamente dei primi volumi dedicati a due oggetti seriali molto popolari, Homeland – Caccia alla spia e Gomorra – La serie.
Le serie televisive hanno almeno un merito, concediamoglielo: sono diventati uno dei principali argomenti di discussione sociale. Al bar, a scuola, sui social network, dal barbiere, all’aperitivo o nelle cene fra amici: immancabilmente, arriva il momento in cui ci si scambiano consigli di visione, si confrontano opinioni, si dissimulano “spoileraggi”. Non era così per i telefilm, né tanto meno per le fiction nostrane: tutti questi discorsi attorno alle immagini erano una prerogativa esclusiva del cinema, dei suoi adepti e dei suoi cultori. Ora che la “sacralità” della sala buia è venuta meno e il cinema – rilocato nella sua esperienza specifica – ha perso parte del suo prestigio novecentesco, queste nuove forme di serialità permettono alla nobile arte della critica, più o meno professionale, di sopravvivere in un’epoca di “videomaking universale”. Un cinema espanso, dunque, nei suoi spazi, nei suoi tempi e nella sua fruizione; o più semplicemente, una nuova forma di intrattenimento di massa, al pari del calcio e della politica.
Ma è davvero tutto qui? Se ci discostiamo per un attimo dal considerare le serie televisive come una nuova forma commerciale delle immagini che esalta le dinamiche di isolamento sociale che attraversano il presente, svilendo oltretutto quel potenziale critico dell’immaginazione visiva cinematografica attraverso lo schiacciamento esclusivo sul piano della scrittura, possiamo scorgere ulteriori motivi che fanno di questa serialità una modalità specifica del nostro tempo, capace di intercettare delle questioni particolari e di notevole interesse, sulle quali vale la pena di soffermarsi. La radicata diffidenza nei confronti delle narrazioni seriali, o almeno le sue motivazioni classiche (su tutte, la stereotipia delle formule narrative e la necessità di numerosi tempi morti o dilatati all’eccesso con funzione di raccordo), sembra oggi palesare un’inadeguatezza alla comprensione di questo fenomeno, che non è certo esente da critiche, ma che quantomeno andrebbero ricalibrate. Quanto ci proponiamo di fare qui è tracciare alcune linee di sviluppo che caratterizzano tanto la serialità contemporanea in generale quanto determinati esempi specifici.
La dilatazione del tempo della storia comporta infatti due conseguenze decisive, che si riflettono sia sulla relazione con il mondo esterno allo spazio della finzione, sia sulla struttura interna. Una prospettiva inaugurata dal ciclo pluridecennale di Heimat di Edgar Reitz, che oggi trova un’estensione e una più specifica declinazione. Sviluppata tra la fine degli anni Settanta e il 2014, l’impresa di Reitz (uno dei padri del cosiddetto “Nuovo cinema tedesco”) era pensata originalmente per una fruizione televisiva e solo successivamente “promossa”, a partire dal terzo capitolo (non si parla di stagione), al grande schermo. Lì, la diluizione in molteplici episodi era ritenuta necessaria per affrontare in forme adeguate la complessità della storia della Germania moderna attraverso il Novecento, portando avanti un’originale e complessa riflessione sul regimi di storicità e sull’esperienza del tempo. Una scelta che consentiva oltretutto un vero e proprio racconto plurale, composto da personaggi che in qualche modo si alternavano alle redini della narrazione, orientando di volta in volta la percezione degli eventi da parte dello spettatore.
Se pensiamo alla sua “versione italiana”, La meglio gioventù di Marco Tullio Giordana, possiamo percepire immediatamente lo scarto che intercorre tra le due, al di là delle diverse impostazioni di partenza: la necessità di Giordana (e degli sceneggiatori Rulli e Petraglia) di compattare quattro decenni circa nell’arco di 6 ore (contro le 26 di Die Zweite Heimat) non ha conseguenze solo sulla selezione degli eventi narrati, ovviamente molto più rigida, ma anche sulla semplificazione delle posizioni rappresentate. Non solo in termini di rilettura dei fatti storici, ma anche di reticolo polifonico dispiegato dal racconto: una visione pacificata e mediana, attorno alla quale raccogliersi per rifondare la società secondo gli ideali di quella generazione appena entrata nella fase della maturità all’alba del nuovo millennio. Insomma, un’operazione didattica, che come tale si appoggia a precisi criteri retorici: semplicità, didascalismo, chiarezza. Più che sollevare domande – secondo Maurizio Grande la prima funzione di un’opera politica – La meglio gioventù fornisce risposte: in altri termini, un’opera ideologica.
La serialità contemporanea assume ovviamente la Storia a proprio tema specifico, e tuttavia non sembra particolarmente interessata a farne il proprio caposaldo, quanto piuttosto a schiacciarla sempre più sul versante del presente e della cronaca. Con le dovute eccezioni, le serie che hanno segnato l’immaginario di questi ultimi anni hanno intavolato un gioco più o meno complesso tra l’attualità e la memoria recente, senza ricorrere a un respiro epico e onnicomprensivo, quanto piuttosto frastagliato e frammentario. Ma è questo che sembra fornire il principio di coerenza per rendere efficace l’aderenza al mondo presente. Accompagnando lo spettatore per una porzione della sua esistenza, e rinnovandosi di anno in anno, alcune serie hanno così saputo intercettare questioni sociali e politiche dirimenti del mondo contemporaneo, in qualche modo commentandole in differita: il potere (The Wire, House of Cards); il terrorismo (Homeland); il capitalismo finanziario (Billions); la reciprocità tra creatività e mondo dei consumi (Mad Man) o della politica (1992); la criminalità organizzata (Romanzo Criminale, Gomorra – La serie).
La permeabilità tra realtà e finzione si muove dunque in bilico tra puntualità e distanza, tra prontezza della cronaca ed elaborazione attraverso la messa in forma. Un difficile equilibrio che può essere aggiustato quasi in tempo reale, eventualmente rilanciando nella stagione successiva. Storicizzando quell’eterno presente dentro il quale si muovevano i classici telefilm, da Happy days a Friends per intenderci, la nuova serialità si propone sempre più di elaborare il materiale cronachistico dentro un universo finzionale che si fa carico di incorniciare determinate questioni socio-politiche all’interno di una riflessione sulla forme dell’esperienza attraverso le immagini.
Arriviamo così al secondo ordine di problemi, relativo alla strutturazione interna. Certamente, questa esplosione di narrazioni seriali si è data una normalizzazione strutturale, ovviamente legata a motivazioni commerciali: una standardizzazione pressoché completa di formato (numero di episodi e durata degli stessi) di più facile inserzione dentro i palinsesti, in continuità con la formula tipica del telefilm. Ma l’estensione della durata non risponde solo a esigenze spettacolari di riempimento della programmazione delle varie emittenti attraverso la reiterazione di formule stereotipate e lo sfruttamento di un potenziale narrativo sempre più spremuto. Innescando un continuo gioco di rimandi alla memoria filmica dello spettatore, le serie contemporanee articolano in forme nuove quella tensione autoriflessiva, a volte autoreferenziale, che ha segnato il cinema degli ultimi decenni, ma lo fanno a partire non da un citazionismo di maniera o da un rinvio diretto, bensì unendo una doppia prospettiva: la crescente intermedialità cinematografica (il cinema come operatore critico nei confronti di un archivio culturale) e la predilezione per la complessità narrativa (i cosiddetti “mind-game film”).
La nuova serialità non si pone dunque più come un oggetto inerte pensato per intrattenere lo spettatore per una porzione relativamente breve di tempo, ma si presta a visioni multiple ed espansioni al di fuori dei propri confini, materiale a sua volta manipolabile da condividere e rimontare a piacimento (Lost insegna). In qualche modo, molte delle serie di più recente produzione si innestano su un terreno già preparato dal cinema degli ultimi anni, che non a caso sta prediligendo (anche nei blockbuster) una forzatura dei limiti delle due ore canoniche di durata.
Il fatto che la nostra esperienza quotidiana sia sempre più segnata dalle immagini – fruite e prodotte – impone così un ripensamento dello spazio di legittimità e di efficacia del cinema, la forma espressiva che più ha saputo registrare e plasmare le tensioni accorse durante il Novecento. In un certo senso, sembra che in questa entropia audiovisiva del tempo presente la settima arte abbia ritrovato una rinnovata autorità, forse “aristocratica”, come le “liturgie” estive delle arene all’aperto e la diffusione delle visioni in lingua originale parrebbero testimoniare. Le serie televisive si inseriscono dunque in questo contesto come versione domestica e popolare di una pratica, quella cinematografica, tornata (ancora molto timidamente) a occupare lo spazio pubblico, per quanto in forme più elitarie che in passato. Ma così facendo, queste prendono in prestito dal cinema i tratti peculiari (il finale del quarto episodio di True Detective, ad esempio, che ha portato a conoscenza di un vasto pubblico il concetto di piano sequenza, risultando quasi propedeutico alla visione di un film come Birdman) o addirittura ne influenzano le mosse, tanto su base tematica che estetica.
Nella particolare condizione temporale che le caratterizza, strettamente aderenti al presente eppure già sufficientemente distanti da non limitarsi a raddoppiarlo nella cronaca, le serie più riuscite e meglio strutturate sembrano dunque funzionare come piano intermedio tra lo spazio dell’arte e quello della vita. Un territorio laboratoriale, dove far convergere sperimentazione e consuetudine, ricerca e didattica, conferendo un possibile nuovo e allargato orizzonte di senso all’espressione “home cinema”.