La scuola sarà di tutti?

Intervista a Girolamo De Michele

scuola di tutti

Ferrara, 28 aprile. In una giornata di canicola estiva, Girolamo De Michele, insegnante di storia e filosofia al Liceo Ariosto, nonché autore dell’appassionante raccolta di saggi La scuola è di tutti. Ripensarla, ricostruirla, difenderla (Minimum fax, Roma 2010, 15 euro), mi accoglie in casa per un dialogo su scuola, beni comuni, Costituzione e società italiana.

Marco Ambra: Partiamo da un episodio che mi è capitato il 25 aprile. Sono andato in visita alleStanze della memoria, un museo senese situato presso l’ex “casermetta” della Repubblica sociale italiana, che propone un itinerario attraverso i momenti salienti del Novecento della città, ponendo particolare enfasi sulla storia del movimento operaio, sull’affermazione del fascismo, e infine sulla Resistenza e la Liberazione. Mi sono trovato a visitare le Stanze con un signore tra i 40 e i 50 anni, il quale entusiasta dell’allestimento museale si lamentava del fatto che i “giovani”, non ci sarebbero venuti se non per forza , che la scuola non riesce più ad instillare in loro il gusto della memoria, la responsabilità della ricerca nel passato per costruire il presente. Incalzato dalle mie domande su cosa la scuola che ha frequentato gli avesse insegnato della Shoah o dei partigiani, alla fine ha dovuto ammettere che ai suoi tempi eventi come la Resistenza non venivano neanche lambiti dai programmi scolastici. Ecco, mi sembra che questo episodio rappresenti in modo esemplare ciò che nel senso comune del Paese è un frame, un insieme concettuale che veicola una metafora impermeabile all’argomentazione razionale, della “crisi dell’educazione”. Si tratta del medesimo frameattraverso il quale i governi degli ultimi trenta anni hanno costruito nell’opinione pubblica l’immagine di una scuola in crisi, sia dal punto di vista dell’efficacia dei modelli pedagogici sia da quello più interessante (per il potere) della disciplina. Ora ti chiedo nella costruzione di questo frame quanto dipende dalla retorica del potere sulla crisi dell’educazione e quanto invece c’è di proprio del senso comune del Paese? In altri termini quanto della costruzione e della persistenza del frame della “crisi dell’educazione” e della obsolescenza della scuola pubblica italiana sia da ricondurre alla stessa società, a chi costituisce l’utenza della scuola pubblica, ai genitori e alle famiglie?

Girolamo De Michele: L’episodio che citavi all’inizio è reale, ma l’attribuzione di responsabilità alla scuola è invece un frame costruito. La scuola in Italia ha avuto, dal 1945 a oggi, un’incidenza sulla società minore di quanto si creda, purtroppo. Non solo perché è stata messa sotto attacco nel momento in cui ha iniziato a scalfire la rigidità sociale del Paese, perché in Italia le gerarchie sociali e i rapporti di forza non sono mai stati effettivamente sovvertiti. Basta prendere in considerazione un dato: la maggioranza dei figli avranno un lavoro nello stesso ambito di provenienza del lavoro dei padri, con alcune professioni (notai, avvocati, medici) che hanno addirittura un percentuale di trasmissione del 60 %. Oggi si rimprovera alla scuola il fatto che non si legge, che non c’è interesse per la storia, che si formano adulti ignoranti, ma cosa è cambiato rispetto al passato? Innanzitutto nella scuola del passato si leggeva di meno: il dovere dello studente si esauriva nella lettura del manuale, come oggi forse. Tuttavia la scuola era sostenuta da una società, ovvero la maggior parte delle cose che sapevi non le sapevi grazie alla scuola. Io ho studiato su manuali di impostazione crociana, unilaterali, costruiti sulle stesse nozioni. Poi però avevo accesso alla biblioteca paterna, dove trovavo testi grazie ai quali potevo farmi una cultura critica. Insomma, c’era una società molto più avanzata della scuola, oggi non c’è più. Dunque la rete di saperi nel circuito sociale di provenienza, ma anche altre fonti come ad esempio la televisione. La televisione ti dava un sacco di informazioni in più rispetto ai manuali che leggevi a scuola. Io ho preparato lo scritto di italiano per gli esami di maturità sulla Prima guerra mondiale guardando gli sceneggiati Rai. Gli sceneggiatori non erano solo dei bravi tecnici della sceneggiatura (come quelli delle odierne docu-fiction), ma persone preparate sul contenuto della sceneggiatura. Ti faccio degli esempi: Badaloni sceneggiatore di Giordano Bruno, Camilleri direttore della stagione teatrale Rai. Adesso la televisione è quella cosa lì che ci ha mostrato Lorella Zanardo nel documentario Il corpo delle donne. Non c’è niente di più realistico delle accuse della Zanardo alla televisione, tanto Rai quanto Mediaset. Ad ogni modo, tolto questo supporto che viene dalla società e dai media, la scuola rimane a combattere una battaglia isolata. Ogni 12 dicembre dedico una lezione alla strage di Piazza Fontana, e quando inizio a parlare mi accorgo che nessuno dei ragazzi ne sa qualcosa. Questo vuol dire che le loro famiglie, i contesti sociali in cui sono cresciuti, i mezzi di informazione cui hanno accesso non gli insegnano cosa è successo il 12 dicembre 1969. La scuola rimane isolata, dopo di che tutto quello che non funziona viene imputato alla scuola. Ora secondo me questo implica un duplice errore di prospettiva. Innanzitutto non è vero che tutto non funziona. Prendiamo il caso delle geremiadi che da ogni parte sentiamo sul presunto impoverimento grammaticale e lessicale della lingua italiana. Non è vero che la lingua italiana è in crisi: lo dicono Luca Serianni, Giuseppe Antonelli, Tullio De Mauro, linguisti di certo non tacciabili di furore ideologico. Nei lavori di questi linguisti si scopre, ad esempio che la perdita del congiuntivo è solo un effetto percepito, perché quando scriviamo confermiamo la capacità dell’uso del congiuntivo. Invece le fonti ministeriali, i giornali, la televisione ti dicono che la lingua italiana è in crisi perché il test da cui si conclude questo giudizio è impostato con il metodo della risposta multipla. Come se la capacità di uso della lingua dipendesse dal barrare la risposta esatta tratta dal manuale di grammatica e non avesse nulla a che fare con la comprensione di un testo sintatticamente complesso. Inoltre, è questo è il secondo errore di prospettiva, non è vero che la responsabilità di quello che non funziona dipende per intero dalla scuola. Facciamo l’esempio dell’uso della parola “criticità”. Una parola che viene dall’ambito della fisica e della chimica, ma che non ha nulla a che fare con il campo semantico della “situazione di crisi” del “problematico”. Però l’ha usata in questo senso un ministro lessicalmente sprovveduto, che ha dato inizio ad un meccanismo perverso per cui la parola finisce nei documenti, la usano i dirigenti della pubblica amministrazione e tutti quanti, anche nella scuola pubblica, finiscono per usare “criticità” in questo senso snaturato. Ecco, la responsabilità di questo non dipende dalla scuola, eppure il “declino” della lingua, l’uso improprio di termini come “criticità”, sono visti come l’effetto di una crisi della scuola pubblica.

Marco Ambra: La profondità di sguardo con cui analizzi la lingua, le parole, con le quali si costruisce il frame della “crisi dell’educazione” mi sembra uno degli aspetti più interessanti del tuo libro. Ciò che metti in particolare rilievo è l’uso di concetti e categorie, con cui si giustificano gli interventi di riforma, riduzionistiche rispetto alla complessità della scuola pubblica italiana. Semplicità, dittatura della misurazione quantitativa, unilateralità dell’interpretazione dei dati numerici, didattica della meraviglia contrapposta all’esercizio critico del dubbio, monodimensionalità della mente del bambino costruita su un modello che ignora gli sviluppi delle scienze cognitive degli ultimi vent’anni. In questa retorica si esprime una vera e propria “cultura di destra” oppure in questo sguardo povero e riduttivo ci si appella al lessico e ai metodi della mentalità finanziaria per coprire l’assenza di un progetto, di una visione della società di lungo periodo?

Girolamo De Michele: A mio parere il problema è più ampio, chiama in causa qualcosa di più originario come l’identità italiana e la cultura del naturalismo in essa radicata. Il naturalismo è sempre cultura di destra, il fascismo ne è un prodotto. La cultura italiana avendo bypassato l’illuminismo e il romanticismo europei, ha due fondamenti che si sorreggono a vicenda: la peggiore cultura cattolica tradizionalista (quella contro il modernismo, che ha trovato incarnazione in tutti i papi – se si escludono Giovanni XXIII, Paolo VI e Giovanni Paolo I – dell’Otto-Novecento) e l’idealismo crociano (anche nella sua versione di sinistra rielaborata dall’asse Labriola-Togliatti). In entrambi i casi c’è una concezione naturale dell’uomo e dei valori. C’è poi una terza linea illuministico-calvinista, che corre fra Torino e Milano e trova una sponda nel meridionalismo più radicale, quella che emerge con Gramsci e Gobetti. Se questa cultura antagonista non dà battaglia la cultura italiana tende a sprofondare nel naturalismo. Questo spiega l’atteggiamento della pedagogia italiana nei confronti della filosofia della mente e delle scoperte delle scienze cognitive nell’ambito della psicologia del bambino e dell’adolescente degli ultimi vent’anni. In Italia, laddove si opera concretamente con la mente dei bambini, come nella scuola pubblica, ci si accorge che stanno ritornando concezioni improntate a questo naturalismo. Forse qualcuno si ricorderà del “fanciullo tutto intuizione e meraviglia” del ministro della Pubblica Istruzione Franca Falcucci (ministro democristiano dall’ ’82 all’ ’87, n.d.r.). La scuola elementare del modulo e del 3 su 2 aveva invece tutta una cultura dietro, all’avanguardia. Le statistiche hanno fatto emergere il successo della scuola pubblica figlia di questa cultura: la capacità di lettura dei bambini della scuola primaria italiana è inferiore, nel mondo, (se si escludono alcune piccole realtà con grosse possibilità di spesa) solo a quella dei bambini della scuola russa, e a ciò si aggiunga che nel momento in cui affrontano i test con i quali si verifica la capacità di lettura i nostri bambini hanno dai sei mesi ad un anno di scolarizzazione in meno rispetto ai loro colleghi europei. Per rispondere alla tua domanda, direi dunque che questo ritorno al naturalismo venuto fuori negli ultimi anni è qualcosa di più radicale del vuoto di valori, della mimesi sciocca del linguaggio e dei metodo dell’economia, in definitiva è qualcosa che viene direttamente dalla nostra identità culturale: nel trentennio che va da Don Milani (i primi anni Sessanta) al 1985 abbiamo praticato una cultura pedagogica alternativa, adesso ritorna il conservatorismo alla base della nostra tradizione culturale.

Marco Ambra: Hai citato il trentennio 1962-85, quello che grosso modo va dall’esperienza della scuola di Barbiana e al varo della scuola media unica (1962) e passa negli anni Settanta attraverso l’istituzione del tempo pieno (1971) e del sistema formativo integrato (1977), per arrivare ai nuovi programmi della scuola media (1979) ed elementare (1985) ispirati all’acquisizione in ambito pedagogico dei metodi e degli sviluppi della pedagogia pragmatista, da Dewey a Jerome Bruner. Ecco, a partire dagli anni ’80 questo filone culturale ha trovato un riscontro scientifico nell’ambito delle scienze cognitive, con l’affermazione di un modello della mente plurale, organizzato attorno alla nozione di “intelligenze multiple”, di una pluralità di sé che interagiscono nello sviluppo psicomotorio e cognitivo di ogni essere umano: Gardner, Matte Blanco, Bateson ne sono stati gli artefici. Quale sarà il prezzo che la scuola pubblica italiana pagherà se effettivamente dovessimo fare ritorno al modello pedagogico del “fanciullino tutto intuizione e meraviglia”? Quale costo sociale pagheremo se ignorassimo, così come la riforma Gelmini vuole, la “svolta cognitiva” e non aggiorniamo la nostra cultura pedagogica?

Girolamo De Michele: Ci vuole una generazione perché una riforma scolastica si sedimenti. Nel mondo anglosassone (penso alla Nuova Zelanda, che dati alla mano avrebbe la migliore scuola pubblica del mondo) quando si scrivono documenti sulla scuola si pensa alla scuola del 2030, alla scuola tra vent’anni. A cosa porteranno le scoperte delle scienze cognitive? Lo sapremo nel 2030, quando ci troveremo in un altro tipo di scuola, frutto delle nostre scelte di adesso. Un rapporto OCSE del 2001, non un rapporto di un movimento occupy, ma dell’OCSE, che riporto e analizzo nel mio libro (cfr. pp. 177-183, n.d.r.) delinea sei ipotetici scenari futuri. Nei primi due si ipotizza il permanere dello status quo, ovvero le spinta al rafforzamento dei sistemi scolastici burocratizzati che culmina nell’estensione del modello del mercato. In questo caso la resistenza alle novità che vengono dalla società, come l’impatto di nuove discipline quali l’informatica e la comunicazione, potrebbe portare nel medio periodo allo svilimento del valore pubblico dell’educazione e ad una crescente privatizzazione che favorirebbe l’accrescimento delle disuguaglianze. Il terzo e il quarto scenario prevedono invece un processo di “riscolarizzazione” in cui le scuole vengono investite delle risorse e dei mezzi atti ad arrestare la tendenza alla disgregazione sociale della modernità liquida. In particolare lo scenario quattro promuove la riduzione delle disuguaglianze attraverso lo sviluppo di un ambiente socioeducativo nel quale un ruolo importante verrà svolto dai media interattivi. Infine, nello scenario cinque e nello scenario sei si ipotizza un processo di “descolarizzazione” che si traduce in una crescente sfiducia nei confronti della scuola pubblica, e nella sua graduale sostituzione a partire dalla pressione sulla politica e sull’opinione pubblica da parte di gruppi d’interesse economico-finanziario, con nuove forme di aggregazione identitaria: reti di associazioni che provvedono a privatizzare le funzioni sociali della scuola, favorendo l’aggravarsi delle disuguaglianze sociali. Nel medio periodo questa situazione porterebbe, nel sesto scenario, al cosiddetto meltdown, una situazione catastrofica in cui il sistema scolastico si avvita in una progressiva crisi d’identità del corpo docente e nella crescente difficoltà di reclutare personale motivato. Ora, gli scenari tre-quattro si realizzano solo attraverso il riconoscimento dell’educazione come bene comune, e sulla ricerca di alti livelli di motivazione (anche salariale) del corpo docente con massicci investimenti pubblici, e politiche che incentivano la fiducia nell’istruzione pubblica. Io in Italia sottoscriverei lo scenario quattro ma mi pare del tutto evidente invece che il sistema scolastico italiano stia imboccando la strada della distruzione prospettata dagli scenari due, cinque e sei.

Marco Ambra: Il modo in cui in Italia ci muoviamo verso lo scenario peggiore ipotizzato dall’OCSE è connesso con i tentativi di stravolgimento negli ultimi vent’anni dei princìpi costituzionali? Questo ritorno del naturalismo e quella che nel tuo libro vedi come una potenziale “fascistizzazione” della scuola pubblica, non ti sembra che vadano di pari passo con i tentativi di svuotare il senso della carta costituzionale? E, aggiungo, qual è il ruolo del mondo cattolico in questa partita per l’istruzione pubblica? Qual è il ruolo di gruppi d’interesse come Comunione e Liberazione?

Girolamo De Michele: Io descriverei quello che dici come processo di “decostituzionalizzazione” (la definizione è del filosofo padovano Sandro Chignola). Si tratta di quel processo colto dai foucoltiani migliori per cui la Costituzione rimane formalmente immutata ma al suo interno i contenuti materiali vengono sostituiti con contenuti di tipo nuovo, che di fatto contraddicono la costituzione formale, e la cui legittimazione deriva da fattori come l’efficienza, il minor costo ecc… Faccio un esempio: quello che sta avvenendo con l’articolo 18. Voglio dire che quello che sta succedendo a chi lavora a scuola è analogo a quello che è successo alla FIAT con Marchionne: nella scuola sono state introdotte alcune esperienze laboratoriali in cui l’aspetto formale è più importante di quello materiale. Ad esempio, se sto un giorno a casa in malattia perdo l’indennità di servizio, 4-5 euro, una perdita apparentemente irrisoria che nasconde invece la privazione di un diritto: quello di essere retribuito nel caso di una malattia. Tutto questo in nome di una maggiore produttività. E ancora: nelle scuole è stato invalidato l’art. 1 dello Statuto dei lavoratori, viene cioè censurata la libertà d’espressione su cose come la riforma Gelmini o l’utilità delle prove INVALSI. Di fatto, attraverso una serie di circolari e normative l’articolo 1 è stato di fatto svuotato. Insomma, la scuola e la Fiat, sono in questo momento come la Grecia: un terreno di sperimentazione. Prendiamo la riforma Brunetta: rende i dirigenti scolastici onnipotenti dal punto di vista formale e di fatto: se sono un insegnate non posso fare ricorso contro il mio dirigente se non appellandomi al dirigente regionale, che viene nominato con lo spoil system, e risponde direttamente al suo partito. Quindi da un lato il mondo della scuola deve capire che se non ci si batte anche per quello che sta fuori dalla scuola si perde, la scuola è una parte della partita contro il neoliberismo. Chi è fuori dalla scuola deve invece capire che il mondo della scuola è oggetto di un’esperienza laboratoriale, esattamente come la Fiat di Marchionne o la Grecia. Nei movimenti di questi anni pochi hanno capito che la vera partita si stava giocando in Grecia, e che era molto più importante andare a manifestare in piazza Syntagma piuttosto che a Roma. Quanto al ruolo dei cattolici in questa partita, io separerei il mondo cattolico da Comunione e Liberazione, che è una lobby a sé meno ampia di quanto possa sembrare (grosso modo ci ritrovi una serie di sigle che fanno riferimento alle “personalità” firmatarie del Manifesto per la scuola libera). Nel mondo cattolico, invece, ci sono reali esperienze scolastiche avanzate, e, inoltre non tutti i cattolici vedono CL bene (è il caso del blog di Valter Binaghi, un insegnante cattolico che non lesina critiche al mondo di CL). Il cattolicesimo di CL è realmente ideologico, ed è un aspetto di quel ritorno al naturalismo di cui dicevo. Don Giussani scimmiottava il linguaggio della sinistra extraparlamentare degli anni Settanta per riproporre i valori del cattolicesimo più autoritario, della Chiesa di inizio Novecento: l’educazione secondo testimonianza. In questo orizzonte culturale la verità è un contenuto, che ha i suoi custodi, i quali sono autorevoli in quanto tali. In tal seno viene sminuito l’aspetto più importante del sapere, il fatto che chi apprende un sapere sia in grado di criticare i fondamenti di quel sapere. O meglio ogni sapere autentico è caratterizzato da due elementi: la possibilità di critica del sapere, e la trasparenza dei suoi fondamenti. Nella scuola di CL non c’è trasparenza, i contenuti sono tali perché lo dice l’autorità. Nelle scuole di CL e per gli insegnati collegati alla rete di CL il sapere che viene fuori è quello che dice: Darwin è una favola, Galilei s’è sbagliato e la verità scientifica è quella dell’Inquisizione. Tutto perché l’ha detto Ratzinger, che di scienza capisce poco e fa delle affermazioni per cui uno studente qualunque verrebbe rimandato: dall’esistenza dello spazio assoluto, all’ignoranza rispetto alla svolta quantistica e alla teoria della relatività galileiano-einsteiniana. Ma anche: il genocidio delle popolazioni amerinde come invenzione della storiografia protestante, l’insistenza in funzione anti-islamica sul genocidio degli armeni (quando invece è noto il laicismo dei Giovani Turchi, il fatto che questo genocidio sia un effetto della modernità e non il risultato di una guerra di religione), l’utilizzo di questo genocidio per sminuire in chiave antisemita la Shoah. Insomma i contenuti che passano nella scuola di CL sono degni di una cultura da Voyager: una cultura della meraviglia in cui non ci sono fondamenti da mettere in discussione. L’abbandono della mentalità scientifica (che è cosa ben diversa dallo scientismo) ti porta a dire che la scienza e la ragione non hanno alcun ruolo nello sviluppo della conoscenza. E con questo si apre la porta alla riaffermazione del miracolo, all’accettazione dell’uomo della Provvidenza. Non a caso Padre Pio era un fascista ante litteram: ha benedetto le rami degli agrari che sparavano sui contadini prima ancora che nascesse il fascismo politicamente organizzato (non è un caso che il frate di Pietralcina incontrò l’ostilità di Giovanni XXIII, e prima ancora di padre Gemelli). Insomma CL punta a promuovere questa disabitudine critica che fa comodo a molti, anche andando al di là delle appartenenze politiche. In un Paese immobile dal punto di vista sociale, e con una popolazione che solo nel suo 10 % riesce a padroneggiare pienamente gli strumenti cognitivi (a leggere un quotidiano comprendendo a pieno e senza problemi il contenuto degli articoli), mi sembra evidente che ciò ritorni utile ad un’élite da sempre impegnata a tramandare le posizioni di potere attraverso il mantenimento di questa condizione di ignoranza del resto della popolazione, con ogni mezzo necessario.

Marco Ambra: Quindi la battaglia per la scuola pubblica di questi anni è una battaglia per riaffermare alcuni princìpi costituzionali come l’articolo 3? Bisogna insomma tornare a veder nella scuola, come diceva Piero Calamandrei, un «organo costituzionale», ovvero un mezzo per rimuovere quelle “barriere materiali” che in Italia impediscono l’uguaglianza di fatto dei cittadini?

Girolamo De Michele: Torniamo a Calamandrei anche se va fatto un discorso realistico sul fatto che la difesa di quei valori che radichiamo ancora nella Costituzione deve prevedere un orizzonte in cui andiamo oltre quella Costituzione fondata sul lavoro. Abbiamo sancito, con la pratica referendaria, l’esistenza dei beni comuni, che nella Costituzione formalmente non ci stanno. Anche se un buon costituzionalista potrebbe darne un’ interpretazione costituzionale (e questo mi pare sia il lavoro di Mattei e Rodotà). Io l’articolo 3 lo riformulerei: nell’ultimo quarto di secolo il lavoro è diventato strumento dell’allargamento delle disuguaglianze di fatto, occorre andare oltre la Costituzione fondata sul lavoro per promuovere il contenuto materiale dell’articolo 3. Ripartire quindi dalla scuola pubblica, senza però cadere nell’antinomia tra pubblico e privato. Per me la scuola è pubblica perché non è privata, e privatus è colui il quale se ne rimane a casa per non coltivare l’interesse comune, è cioè un termine che definisce qualcosa per negazione, che esprime una privazione. La scuola pubblica si difende cambiando la società, perché la scuola non può rimanere l’unico luogo di apprendimento. Questo non vuol dire cadere nella retorica dell’istruzione lunga una vita, del lifelong learning. Il punto è che ci sono esperienze di produzione culturale fuori dalla scuola, basta pensare all’informatica. Ho in mente quindi una scuola in cui chi produce un sapere, che sia l’informatica o altro, dovrebbe insegnare. Inoltre, la scuola deve essere integrata con il territorio, anche se quest’ultimo non deve essere inteso in senso esclusivamente geografico. Ti faccio un esempio concreto: andando verso i lidi a Ferrara c’erano delle scuole superiori dove la prima lingua straniera era il tedesco. Il lavoro estivo legato al turismo dalla Germania trasformava in un’esigenza formativa lo studio della lingua tedesca. In altre parole si tratta di un’esigenza reale del territorio che con la riforma Gelmini è stata frustrata: i soldi per un secondo corso di lingua, oltre all’inglese, non ci sono e a gente del posto se la prende con la scuola pubblica. E ancora: ci sono degli istituti professionali dove si è tornato ad insegnare solo l’avantreno meccanico perché l’insegnamento dell’avantreno elettronico era solo una sperimentazione. In officina però i ragazzi si troveranno a lavorare con entrambi! Dunque apertura ai saperi esterni alla scuola e valorizzazione degli interessi del territorio ma non in un’ottica di esclusione; c’è anche l’infosfera, c’è la possibilità che le scuole di un’area mettano in network le loro specificità. Insomma, la vera osmosi educativa tiene conto delle esigenze del territorio e le integra con quelle dell’infosfera, con la pluralità di orientamenti culturali e formativi presenti nelle altre scuole e nella società. Questa è una scuola pubblica che sia espressione dei beni comuni. Non so se sono abbastanza chiaro, ma secondo me è limitativo fermarsi a esperienze del tipo: organizzo un seminario autogestito nella mia facoltà e poi faccio una lotta perché mi si riconoscano degli spazi e la possibilità di ottenere dei crediti. Si tratta di un’esperienza limitata perché non hai interagito con la didattica universitaria, hai riprodotto un discorso autoreferenziale. Il modello che ho tratteggiato, in questo momento, è un’utopia, ma, secondo me, deve avere un orizzonte utopico: dobbiamo guardare alla scuola del 2030!

Marco Ambra: C’è però una grossa tara sull’orizzonte utopico che descrivi. Se la battaglia per una scuola pubblica come espressione della lotta per i beni comuni deve essere realizzata anche nella pratica didattica quotidiana, gli insegnanti del futuro giocano un ruolo decisivo. Purtroppo il nuovo sistema di reclutamento degli insegnati, il Tirocinio Formativo Attivo, prevede in entrata un test ministeriale a risposta multipla, diretta emanazione di quel riduzionismo naturalista a fondamento delle prove INVALSI. Come conciliare, per un aspirante insegnante, questo metodo di selezione con una mentalità antiriduzionista, con la capacità di dare corpo all’orizzonte utopico della scuola integrata nel territorio e nell’infosfera di cui parli?

Girolamo De Michele: È chiaro che il modello di rilevazione delle competenze specifiche disegnato dalle prove INVALSI e dai test a risposta multipla (dall’ultimo concorso per i dirigenti scolastici al TFA) risponde ad una logica analitico-finanziaria, per cui la possibilità di costruire un dato da sbandierare per giustificare un intervento di trasformazione della scuola è più importante del metodo che si utilizza per costruire quel dato. Prendiamo il caso del test a risposta multipla per verificare la comprensione di un testo sintatticamente complesso, come un racconto di un autore della nostra storia della letteratura. Le risposte da barrare considerate esatte dall’INVALSI sono spesso ambigue e suscettibili di un’opposta interpretazione. Un discorso analogo può esser fatto a proposito dei test che sono stati somministrati ai futuri dirigenti o quelli che si utilizzeranno per l’accesso al TFA. A questo aggiungi che la somministrazione di questi test elimina le responsabilità dei dirigenti scolastici (che ricevono il plico con le domande dal ministero e ne verificano esclusivamente l’integrità) e dei somministratori, ridotti a meri passacarte (nel caso delle prove INVALSI vengono scelti insegnanti che provengono da una disciplina non affine rispetto a quella del test, come se un insegnante di matematica non avesse la minima conoscenza della storia della letteratura e viceversa). Al di là del test d’accesso ciò che dovrebbe svolgere un ruolo preminente nel metodo di reclutamento degli insegnanti è il tirocinio. La scelta di un’esperienza di tirocinio come possibilità all’interno dei corsi di laurea che hanno come sbocco professionale quello scolastico, dovrebbe essere vincolante rispetto alla possibilità stessa di conseguire un’abilitazione per insegnare una qualsiasi disciplina. Non servono corsi seminariali sulla “didattica di…”, è solo attraverso il contatto diretto con la classe, con gli studenti, che si “impara ad insegnare”. Per il resto, ai futuri insegnanti consiglio, parafrasando i Sex Pistols, di non pensare al futuro, tanto non ce l’hanno.

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