Scuola e istruzione beni comuni (2)

Al provveditorato, disse la professoressa, facevano, scusando il termine, schifo, davano il posto a chi aveva più raccomandazioni, a lei avevano levato almeno sei punti e mezzo, nella graduatoria, e oltre tutto quella storia di riservare il cinquanta per cento dei posti ai reduci era l’ora che finisse, come era finita la guerra, ormai da cinque anni, e oltre tutto la guerra non l’avevano mica fatta soltanto gli uomini, anche alle donne era toccata la loro parte.

Dal T.F.A. al T.S.O. il passo è breve, ovvero bisogna avere il caos dentro per partorire una stella danzante

Marco Ambra

E va bene, diciamola tutta. Fino al mese scorso la speranza di vedere nascere il mostruoso Tirocinio Formativo Attivo per gli insegnanti di ogni ordine e grado sembrava una vana chimera. Ancor più misera era la speranza che si ergesse come una gioiosa macchina da reclutamento, fino ad incrementare le assunzioni nel centro-nord, rispetto al fabbisogno previsto dal turn-over generazionale, del 30%. Ma il mito del Dato comanda facili entusiasmi, genera illusioni ancora più grossolane di quelle attribuite all’Irrealtà. La prospettiva fornita dal T.F.A., quella di un rinnovamento generazionale (e non solo) della scuola pubblica italiana, riposa su più profani interessi di bottega (la posizione dell’Italia nelle statistiche OCSE per dirla in breve) che poco o niente hanno a che fare con la semantica della Riforma abusata dalla Gelmini, e meno ancora con il pragmaticismo cinico del ministro Profumo. Quest’affermazione lapidaria può essere approfondita su due livelli: la struttura dell’esame attraverso il quale si potrà accedere al Tirocinio e le “indicazioni nazionali” con cui i tirocinanti, così selezionati, dovranno confrontarsi per dar corpo alla didattica.

Innanzitutto, il T.F.A. recluta la futura classe insegante con un sistema barocco che ibrida l’americanissimo test a crocette d’emanazione ministeriale con il nostrano sistema binario del compianto concorsone (una prova scritta e una orale, con commissioni locali). Facciamo buon viso a cattivo gioco e passiamo sopra alla serietà di un sistema di valutazione basato su test a risposta multipla, all’omologazione del sistema di reclutamento degli insegnanti con il sistema di rilascio delle patenti di guida. Vediamo invece com’è fatto: sessanta test a risposta multipla (quattro per ogni domanda) da svolgere in tre ore e dei quali ben dieci sono volti ad accertare le competenze di lingua italiana . Come a dire: ammesso il fallimento della scuola pubblica nell’aver fornito agli aspiranti insegnanti la padronanza della propria lingua (sempre che in questo abbia potere in misura predominante solo la scuola), la verifica delle competenze rispetto alle discipline per le quali si vuole ottenere l’abilitazione deve passare per la scelta tra risposte ipersemplificate a quesiti rigidamente nozionistici. Così, se dovessi concorrere per la classe d’insegnamento A37 (storia e filosofia nei licei classici e scientifici) mi troverei nell’imbarazzante situazione di dover rispondere con assoluta certezza alla domanda “Cos’è la materia nel pensiero platonico?” oppure “La natura, oggetto d’indagine dei primi filosofi greci, era…”, quando basta aver seguito anche un solo corso universitario di filosofia per intuire che a domande del genere non esistono risposte univoche, o meglio che ci sono sempre molteplici interpretazioni di un tema storico-filososfico; che a domande del genere si possono solo dare risposte complesse e articolate. Personalmente, ritengo che l’unico modo di rispondere alle domande del quizzone (perché non farlo coordinare in videoconferenza a Gerry Scotti?) sia imitare la modalità stand-by di un qualunque apparecchio elettronico, abbassare la frequenza del flusso neuronale e buttarsi sulla risposta che avrei dato se in questi anni avessi letto solo quarte di copertina di classici, saggi e manuali. La ragion sufficiente del test preliminare mi pare allora che sia tutta nella seconda parte e nella terza parte dell’esame d’ammissione: nelle due prove ad uso e consumo dei singoli atenei o consorzi regionali di atenei. Sembra infatti che il test ministeriale risponda all’esigenza di una sordida dialettica tra stato e regioni, in cui il ministero concede ai potentati locali in lotta tra loro la possibilità di un campo di battaglia (la prova scritta e quella orale, chi porta a casa più scalpi d’aspiranti insegnanti vince), riservando per sé l’intervento attraverso il giudizio quantitativo, ovvero il filtro di campionatura statistica predisposto dal test a risposta multipla. In questo modo il ministero assurge al suo compito cosmico-storico, esercitando sulla scelta dei futuri insegnanti la medesima razionalità tecnica che anima le prove INVALSI, mentre lascia allo scontro per bande (accademiche) la responsabilità di verificare le conoscenze e le competenze specifiche. Nel migliore dei mondi possibili questo potere verrà esercitato per separare i buoni e i giusti dai peccatori, ma Panglos – si sa – è morto e neanche Candide sta troppo bene.

Più interessante mi pare la seconda gattopardesca novità con cui i tirocinanti dovranno confrontarsi quando si troveranno a strutturare dei percorsi didattici nelle scuole pubbliche reali. Rimaniamo sempre nell’ambito della classe d’insegnamento A37, quella di cui non posso fare epoché, il mio residuo esistenziale in questo articolo. Ebbene, tralasciando il fatto che le “indicazioni nazionali” di matrice gelminiana sostituiscono i Programmi per l’insegnamento della filosofia in vigore da Piazzale Loreto (il memorabile anno scolastico 1944-45) – rispondono quindi ad un’esigenza di rinnovamento – mi chiedo anche questa volta quali siano le motivazioni di questa “rivoluzione copernicana”. Basta rivolgersi al blog di una delle eminenze grigie dell’era Gelmini, il signor (dottor? professor?) Max Bruschi, nodo della cravatta impeccabile sfondo tricolore evocativo di un atemporale ’82 o 2006 . Ebbene, il nostro devoto tecnico ministeriale c’informa che «le indicazioni hanno risposto a una sollecitazione ben precisa che ci arrivava dal mondo della scuola: e cioè di evitare, tassativamente, l’enciclopedismo dei vecchi programmi ministeriali. Un enciclopedismo che si traduceva, per tutti, nell’ansia di concludere, superficialmente, qualcosa di sostanzialmente infattibile, oppure in tagli tanto drastici quanto arbitrari». Fatti, fatti, fatti. Il vetusto enciclopedismo crociano-gentiliano che imponeva all’insegnante d’anciene régime catto-comunista lo svolgimento della storia dello Spirito attraverso i sistemi filosofici che lo hanno attuato, verrà sostituito dal maneggevole e versatile elenco di indicazioni. Binari verso l’infinito, regole non scritte cui ciascun insegnate può adattare la macchinosa programmazione. E non solo, perché come direbbe il Guzzanti versione teleimbonitore d’oggetti d’arte, il grande protagonista è il Novecento: «il terzo obiettivo, salutato con grande favore, anche dal Corriere della Sera, era dare finalmente spazio al secondo Novecento, perché la letteratura NON si ferma, come purtroppo capita, alla triade Ungaretti, Saba, Montale, magari “fatti” (non “studiati”, in troppi casi, ma appunto fatti, spesso frettolosamente) nell’ultimo mese, giusto perché alla maturità li chiedono».

Ebbene a questo punto, sovraeccitato da tanto rinnovamento, liberato dal polveroso retaggio enciclopedico (ma gli enciclopedisti non erano dei “rinnovatori”? Devo essermi perso qualche passaggio…), vado a godermi la lettura delle indicazioni nazionali per l’insegnamento della filosofia [1]. Così, devo riprendermi da una brutta delusione quando scopro che il cadavere del vecchio Programma è stato sostituito da uno strano elenco di competenze e da un riassuntino del cadavere medesimo. Le indicazioni per l’insegnamento della filosofia sono infatti un’esigua paginetta in cui ad una prima parte esposta al vento atlantico delle tecno-competenze («la conoscenza degli autori e dei problemi filosofici fondamentali dovrà aiutare lo studente a sviluppare la riflessione personale, l’attitudine all’approfondimento e la capacità al giudizio critico; particolare cura dovrà essere dedicata alla discussione razionale, alla capacità di argomentare una tesi, riconoscendo la diversità dei metodi con cui la ragione giunge a conoscere il reale, e all’importanza del dialogo interpersonale») s’accosta una seconda parte in cui gli «obiettivi specifici di apprendimento” sono calendarizzati anno per anno, e in cui riemerge prepotente lo spirito enciclopedico. Ovvero si consiglia caldamente di svolgere nel secondo biennio (prima e seconda liceo, terzo e quarto anno) gli autori «rappresentativi delle tappe più significative della ricerca filosofica», alcuni dei quali sono «imprescindibili» e «devono essere proposti necessariamente». Così da Talete a Hegel riecco i Programmi del professor Gentile, questa volta non più piegati allo scopo dell’edificazione dell’homo novus fascista bensì al rilevamento di «un percorso il più possibile unitario, attorno alle tematiche sopra indicate». E il Novecento? Il grande protagonista del mercato editoriale si trova relegato ad un convulso quinto anno (la maturità, questa tiranna!) in cui ad un’imprescindibile spelonca di presunti “irrazionalisti” – dove sta infatti la ratio del trittico Schopenhauer, Kierkegaard, Marx in un unico piano-sequenza orizzontale, se non in un pregiudizio di questo tipo? – si affianca un minestrone di correnti filosofiche e nuclei tematici (trovo orrorifico il binomio fenomenologia/esistenzialismo trattati quasi come sinonimi).

Quali sono allora «i punti nodali dello sviluppo storico del pensiero occidentale» si chiederà il futuro insegnante, che durante la sua formazione ha dovuto masticare questo percorso in pillole (lassative) e bocconi (amari)? Ebbene «l’ontologia, l’etica e la questione della felicità, il rapporto tra la filosofia greca e le tradizioni posteriori, in primo luogo religiose, la scienza moderna e la filosofia», come se questi temi fossero enucleabili e isolabili in ciascuno degli autori imprescindibili, ma soprattutto, udite udite, «la libertà e il potere nel pensiero politico, nodo quest’ultimo che si collega allo sviluppo dellecompetenze relative a Cittadinanza e Costituzione”. A parte l’efficace copia e incolla di nuclei tematici wikipediani riferiti alla voce “filosofia”, anzi “philosophy” , il senso neanche tanto nascosto dello sbandierato svecchiamento dei programmi sta tutto in quella trasmissione di “competenze” che riguardano la Cittadinanza e la Costituzione (si noti la “C” maiuscola), con cui s’individua l’utilità, e in termini più pratici, la produttività del sapere filosofico. In sintesi, l’insegnante di filosofia post-Gelmini, può fare quello che gli pare, purché insegni delle competenze, attraverso gli autori della STORIA DELLE IDEE, che abbiano a che fare con: a) il negoziato concettuale, ovvero con la capacità di argomentare pro o contro qualcosa, una specie di retorica del calculemus che tornerà utile ai futuri sostenitori/costruttori/fruitori di Grandi opere inutili o riformatori/riformati del mercato del lavoro [2]; b) la formazione di sinceri democratici dotati di competenze relative alla Cittadinanza e alla Costituzione. Cioè, dando per presupposto che filosofia e democrazia siano un binomio coniugabile senza problemi e contraddizioni (Platone rosso di vergogna), le indicazioni nazionali attribuiscono all’insegnamento della prima l’obiettivo di colmare il vuoto lasciato dall’assenza degli studi sociali nelle scuole secondarie, con la possibilità di attingere nel suo perseguimento ad uno sfondo culturale più largo, all’intera storia delle idee. Insomma, a meno che non decidano di farsi carico di questo caos, solo con grosse difficoltà gli insegnanti del nuovo corso riusciranno a partorire la dignità e il gusto della didattica nella scuola pubblica.

P. S. Mi rendo conto che si tratta di un esercizio limitato alla sola classe A37, anzi alla sola filosofia. Lancio un appello a chiunque abbia il tempo e l’interesse, a ricercare analoghe “incongruenze” nelle indicazioni nazionali che riguardano altre discipline.

Note

[1] Si veda qui, pp. 20-22

[2] Esemplare di questo modo di pensare all’insegnamento della filosofia come alla trasmissione di un sapere che non è scienza ma “arte del negoziato concettuale” è il libro di CASATI R., Prima lezione di filosofia, Laterza, Roma-Bari 2011.

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