Scenari della guerra al terrore

Visualità bellica, testimonianza, autoritrattistica.

Pubblichiamo l’Introduzione del volume scritto da Lorenzo Donghi edito da Bulzoni (2016) all’interno della collana “Cinemaespanso”.

Quella al terrore è una guerra che si dà a vedere, che si può scegliere di guardare e, in tal caso, che occorre voler capire. Certo, come tutti gli stati di conflitto anch’essa è un ambiente che abitiamo, un pericolo che si insinua subdolamente nelle nostre vite, dove invece, in modo ciclico, irrompe con prepotenza inaudita: una condizione emergenziale divenuta paradossalmente quotidiana, cui ci sentiamo – cui siamo – costantemente esposti.

Quella al terrore è una guerra vischiosa, che ci si attacca addosso, penetra sotto pelle, e scava nel profondo di ognuno di noi, depositando lì i sui ammassi di scorie. Ce la sentiamo dentro, questa sensazione di terrore contro cui lottiamo e, al contempo, con cui abbiamo imparato a convivere, cui ci siamo, in un modo o nell’altro, abituati. Come un basso continuo, che permea dormiente l’ordinarietà delle nostre giornate, acuendosi magari quando siamo chiusi in un vagone della metropolitana nell’ora di punta, in fila aspettando l’imbarco su un aereo, quando compiamo passi svelti transitando in una piazza affollata.

D’altra parte ogni giorno, in qualche angolo del globo, in suo nome un’arma spara una raffica di colpi, un uomo si fa esplodere (o studia un piano per farlo), una gola viene tagliata, un drone sgancia una bomba, smembrando corpi ed edifici. La guerra al terrore si combatte a Baghdad come a New York, a Beirut come a Londra, a Gaza come a Bruxelles, a Raqqa come a Parigi. È vero, ce la portiamo dentro, la subiamo intimamente: ma sta anche tutt’intorno, aleggia ovunque. Ci opprime, ci minaccia e, ultimamente, persino ci sfiora.

È una guerra che ci avvolge, soffocandoci come una cappa, assumendo la forma di un gas rilasciato nell’aria, in un mondo in cui non sono previste maschere da indossare per evitarne i miasmi.

Del resto è la sua natura, il modo stesso con cui è stata concepita e con il quale si combatte, a delinearne questa caratteristica: l’offensiva che l’Occidente ha lanciato contro il fondamentalismo jihadista dopo l’11 settembre 2001 costituisce infatti una mobilitazione che si scaglia contro uno stato d’animo – il terrore, appunto – convocando nella sfera della controparte – il terrorismo – istanze difficilmente identificabili con parametri tradizionali, chiamate a raccolta intorno al volto, barbuto e appuntito, dello sceicco saudita Osama bin Laden, o più recentemente raggruppate sotto la bandiera nera del sedicente Stato Islamico. Non è solo, come si suol dire, una guerra asimmetrica: combattuta nelle frontiere globali di un mondo digitale, è divenuta anche, proprio come un gas, una guerra diffusa, così come diffuso è l’immaginario cui essa ha dato forma.[1]

Infatti, si diceva, quella al terrore è anche una guerra concepita per essere vista: una vera e propria «guerra delle immagini».[2] Ossia, una guerra che non impiega le immagini solo per meri fini propagandistici: piuttosto, che accade nelle immagini, che ha luogo (anche) in esse. Il punto è che – nel caso si decida di guardarle, quelle immagini – tanto al loro interno quanto in quella regione del senso che si protrae oltre il loro perimetro, bisogna volerci capire qualcosa. Bisogna, in altri termini, mettersi in gioco: provare a comprendere, elaborare principi di intelligibilità, tentare di intendere come e cosa rappresenti quel “fronte delle immagini” che, da ormai quindici anni, ci si staglia dinanzi. Cosa mostrino le tessere che lo compongono, che genere di collante le tenga insieme, quali gesti abbiano reificato quel fronte, e quali traiettorie possiamo provare a tracciare per attraversarlo. In sostanza, si tratta di capire come convivere con quello stillicidio di immagini che, giorno dopo giorno, ha raggiunto la portata di un fiume in piena: un fiume che ha inondato la nostra cultura visuale, conducendola in un oceano iconico dove ha finito per ibridarsi con quella del nemico.

E cercare di capire, mentre si osserva in questo mare magnum di immagini in cui ci ritroviamo a galleggiare, non significa ovviamente solo aprire gli occhi, ma prendere coscienza, mentre si compie quest’atto di visione: significa farsi consapevoli di vivere una (nuova) età dell’estremismo, come la definisce Marco Belpoliti, descrivendo un tempo che torna a caricarsi di una sconcezza primordiale;[3] la stessa età che Adriana Cavarero denomina dell’orrorismo, rimandando «all’ovvia assonanza con il termine terrorismo, ma, prima ancora, al bisogno di sottolineare quel tratto di ripugnanza che, accomunando molte scene della violenza contemporanea, le ingloba nella sfera dell’orrore piuttosto che in quella del terrore»4. Non c’è dubbio: le immagini che la War on Terror ci ha consegnato negli ultimi anni, certamente “estreme” e “orrorifiche”, mostrano scampoli di realtà che fanno rabbrividire, e che rendono intontiti davanti a tanto orrore. Eppure – o così almeno pare a chi scrive – a un nuovo orrore fanno ostinatamente séguito vecchie domande.

Davanti alle fotografie che illustrano le torture perpetrate nel carcere iracheno di Abu Ghraib, alle video-decapitazioni operate dai boia di al-Qaida, alle assurde immagini di crudeltà di cui si fa produttore seriale lo Stato Islamico, pare infatti di tornare a udire le tribolazioni di un dissidio che risuona come familiare, forse perché datato: mostrarle o non mostrarle, quelle immagini? Quasi fosse ancora viva l’eco delle parole di Marshall McLuhan, quando, ormai mezzo secolo fa, proponeva alla classe dirigente italiana di far calare un black-out sulle comunicazioni elargite agli organi di stampa dalle Brigate Rosse:[5] rendere visibile all’opinione pubblica ciò che è inimmaginabile, con ciò che ne consegue, o celare piuttosto materiali compromettenti sotto la coltre dell’invisibilità, dell’interdizione? Chiaro: se quei materiali non sono mostrati – o si decide di mostrare solo ciò che, arbitrariamente, è lecito considerare mostrabile – la loro irruzione nell’immaginario è scongiurata, o, quanto meno, assume contorni meno problematici.

Ma McLuhan non parlava ai tempi del web, di YouTube, di tutti i vari social network che dominano la medialità che ci ospita attualmente, la struttura divenuta il nostro tessuto connettivo. E, ai giorni nostri, non importa (solo) cosa mostra l’informazione ufficiale, governativa, istituzionale: oggi infatti, da quelle “immagini inimmaginabili”, non possiamo non essere raggiunti, per non dire travolti, tanto che diventa realmente difficile evitare di vederle. Cosicché, inquadrato in quest’ottica, il problema cambia pelle, sposta il suo baricentro, e la domanda che ne consegue diventa: al di là del vederle, dell’esserne costantemente assaliti, vogliamo guardarle, quelle immagini? D’altra parte esse esistono, sono lì, a portata di occhio, e testimoniano accadimenti su cui possiamo interrogarci solo tramite le rispettive incisioni mediali. Dunque, che fare?

Anzitutto, si può rispondere no, e decidere di non guardare (sottolineo che oggi tale opzione va intesa come una decisione, non più come un’impossibilità, e questo libro si rivolge anche a persone che, tendenzialmente, operano tale scelta). Si decide di non guardare pertanti motivi: perché si è nauseati, disgustati, inorriditi, anestetizzati; o semplicemente perché non si comprende come l’umano genere sia in grado di giungere a simili vertici di crudeltà. Tanto che Susie Linfield, in un intervento che si confronta, non senza polemica, con alcuni “classici” assunti di Susan Sontag, davanti a immagini che definisce «cloache di manipolazione e sfruttamento», si interroga allora sul perché guardarle, ovvero sul perché accaparrarsi un posto in prima fila davanti al dolore degli altri, aggiungendo poi che, al loro cospetto, «è diventato fin troppo facile distogliere lo sguardo; anzi, è considerata una virtù».[6] O almeno un sollievo, viene da aggiungere: difatti, se chiunque di noi, di noi tutti, si dimostrasse genuinamente disposto a esperire davvero, e anche solo per un attimo, l’orrore che vogliono trasmetterci le immagini della guerra al terrore, ne rimarrebbe immediatamente oppresso, stritolato. Si può non guardare, quindi: un’immagine è un oggetto innocuo, sterile, inservibile, senza spettatore. E se non c’è sguardo, possiamo ripeterci che non c’è niente da vedere.

Oppure, per converso, si può decidere di guardare. E anche questa è una scelta, che, va da sé, comporta altre conseguenze, e cui si ricorre per svariati motivi. Più o meno nobili, a dire il vero, perché in base a qual è quello che ci muove, la domanda cambia nuovamente fisionomia, e diventa: come guardare? Come voyeur, spettatori, consumatori? Come studiosi? Come testimoni, a nostra volta implicati in ciò che osserviamo? O come esseri umani, forse? Oltre a questi quesiti, già di non facile approccio, i capitoli che compongo- no questo libro cercano di dare risposta anche a un ulteriore interrogativo.

Va bene, decidiamo pure di guardarle, quelle immagini di cui possiamo disporre: ma per trovarci cosa? Cosa cogliere, in quel guardare? Cosa scoprire, in quelle cloache? Possibilmente, spingendo lo sguardo al di là di ciò che esse illustrano, dei loro contenuti: oltre il sangue rappreso, la salma scempiata, il bambino mutilato, il prigioniero iracheno al guinzaglio, la lama che sgozza, la nuvola di fumo della bomba teleguidata; oltre a Osama bin Laden che, vestito come un beduino, ci comunica che il mondo, almeno per come l’avevamo conosciuto, è cambiato; oltre al corpo in fiamme di Muad Kasasbeah, il pilota giordano che, catturato dagli uomini dello Stato Islamico e rinchiuso in una cella, viene arso vivo a favor di videocamera, nemmeno fosse una fascina di paglia.

In altri termini, cosa trovarci, in quelle immagini, significa in cosa imbattersi quando ci si spinge oltre, scorgendo i gesti che le hanno generate, e i significati che tali gesti comportano, soppesando la valenza che queste pratiche sprigionano mentre si moltiplicano, si clonano e si confondono: democrazia occidentale e fondamentalismo islamico che si fronteggiano, si annusano, ringhiano l’una contro l’altro, per poi copiarsi, come in uno specchio deformante, replicando sfacciatamente il loro peggio. Cosa trovarci, significa quindi guardare l’immagine per – in un certo senso – superarla: osservare il suo contenuto, riflettere su quello scampolo di realtà di cui essa è appunto immagine, ri-presentazione; ma chiedersi anche perché essa sia stata pensata così, e da chi; per quali ragioni sia stata realizzata in quel peculiare modo, e quale sia il suo funzionamento all’interno del sistema mediale in cui viene immessa; cosa abbia in comune con le altre immagini, simili e diverse, da cui è circondata; come comunichi con loro, e cosa esse, se opportunamente messe in relazione, trasmettano vicendevolmente a chi sceglie di guardarle; e ancora, come, attraverso queste rielaborazioni, si possa tentare di restituire la pregnanza di documenti che intasano i media e la Rete, rimaneggiandoli tanto su un piano estetico, come ricorda Barbara Grespi nella sua prefazione, quanto su uno estremamente pratico, operativo (pensiamo, per esempio, ai montaggi vertiginosi presenti in molti video jihadisti).

Ebbene, dopo aver guardato molte immagini della guerra al terrore, chi scrive ha visto, in alcuni suoi scenari, un incrocio. Quindi, prima di tutto, ha compiuto una scelta, considerando talune immagini e non altre: le più famose e forse le meno conosciute; quelle divenute icone assolute e quelle su cui l’attenzione si è soffermata in modo più distratto; quelle che documentano l’abiezione di alcuni soldati statunitensi occupati a “esportare la democrazia”, e quelle che hanno dato forma al sinistro immaginario jihadista che, nel tempo, abbiamo imparato a conoscere.

Tutte immagini, però, in cui l’incisione mediale dell’accadimento si fa determinante perché l’occorrenza stessa avvenga in quel determinato modo, a quelle condizioni, inscritta in quella precisa temporalità. E tutti episodi – ecco la tesi che il libro cerca di enunciare – che individuano, nella cornice della visualità bellica contemporanea, alcuni caldi punti di incidenza, che divampano quando si accavallano due traiettorie: quella della testimonianza e quella dell’autoritrattistica. Due declinazioni della soggettività che, di primo acchito, al lettore possono sembrano persino divergenti, ma che, seguitamente, risulteranno accomunate da una processualità tutt’altro che opposta.

Una sensazione, questa di un’apparente e iniziale divergenza, indotta dal fatto che se, da un lato, la testimonianza si dà a intendere come il dominio dell’accertamento, della verifica, dell’attendibilità, quello occupato dall’autoritrattistica pare invece lo spazio dedicato all’infingimento, alla recita, dove regnano il desiderio dell’auto-finzione e il bisogno di vedersi altrimenti: così, dove la testimonianza sembra indicare l’orizzonte dell’autenticità – o per meglio dire, dell’autenticazione[7] – l’autoritrattistica viene a costituirsi come l’eterotopia in cui rifugiarsi quando la propria vita pare non bastare. E se, facilitato dagli sviluppi della tecnologia e incoraggiato da un pervasivo impulso alla condivisione, quello di testimoniare un evento tramite l’impiego delle immagini è via via diventato un atteggiamento consueto e massivo, assunto ogni giorno da una variegata schiera di testimoni che, armati di device, ci danno conto di realtà che accadono oltre la limitatezza del nostro sguardo, allo stesso modo, anche quello di autoritrarsi è un gesto che oggi risulta parimenti inflazionato, costituendo una pratica sociale che – dalle pagine web ai profili aperti sui social network, dagli autoritratti in time-lapse ai selfie – si rivela dominante all’interno della medialità contemporanea.

La divergenza allora cessa di sembrare tale quando, nello specifico della cornice tracciata dalla guerra al terrore, i due gesti sopra descritti si sovrappongono fino a coincidere. Laddove, pertanto, la testimonianza iconica viene concepita, eseguita, veicolata nella forma di un gesto autoritrattistico: un gesto che quindi dispone per lo sguardo altrui tanto l’evento (ossia l’oggetto della testimoniare) quanto il soggetto (ovvero l’istanza individuale che enuncia la testimonianza), facendo così del dire del mondo l’occasione per dire di sé. E viceversa.

A tal proposito, vale forse la pena specificare perché la scelta del titolo sia caduta sul termine scenari. Il motivo è semplice: nulla infatti, come uno scenario (inteso, in questa sede, nella sua accezione spettacolare, artificiosa, verrebbe da dire “scenografica”) pare meglio configurare lo sfondo in cui oggi si verifica questo incrocio di traiettorie. Nulla, come uno scenario, racconta di come, affrontando il terrore, realtà e messa in scena si rimescolino in un amalgama inscindibile, e di come il terrore stesso allestisca palcoscenici – dal crollo delle Twin Towers fino alle esibizioni del boia Jihadi John – su cui rendere performativo l’atavico gesto di combattersi: non li chiamiamo forse “teatri di guerra”, questi stati di conflitto che localizziamo, e che si moltiplicano come spore, sulle nostre mappe geo- grafiche? Del resto, la guerra condotta dalla coalizione internazionale in Medio-Oriente è un teatro, che ha costruito nei corridoi e nelle celle del carcere di Abu Ghraib la sua messa in scena più in- dimenticabile; ma anche il terrorismo sconta una forte matrice teatrale, se è vero che – e ce lo ricorda Jean-Paul Galibert nel suo ultimo libro – «per suscitare terrore occorre creare uno scenario».[8]

Sono quindi scenari le stanze del carcere di Abu Ghraib, le location dove Osama bin Laden predispone le proprie epifanie iconiche, o dove gli shahid qaidisti registrano i loro video-testamenti prima di compiere le rispettive azioni suicide; così come è uno scenario il set dove il reporter britannico John Cantlie, ostaggio dello Stato Islamico dalla fine del 2012, ambienta le puntate di Lend Me Your Ears, la web-serie fatta oggetto di studio dell’ultimo capitolo.

Scenari in cui si testimonia mentre ci si mostra, compiendo un unico gesto, viziato da quel si neutro, generico, che profila il territorio in cui vengono prodotte e fruite le testimonianze autoritrattistiche della guerra al terrore (e non solo). Il territorio, cioè, dell’impersonale, lo spazio in cui il soggetto smette i panni dell’individuo per farsi singolo; l’orizzonte in cui l’io, ritraendosi (e operando dunque una doppia e opposta manovra, che è di esposizione e al contempo di ritirata, quasi un passo indietro compiuto proprio nel momento del mostrarsi, che diventa così anche il momento del perdersi) si confonde in un lasco tutti noi, affermando se stesso come mera singolarità impersonale, e ricusando la sua individuabile unicità, diluita nell’indefinitezza del collettivo: laddove finiscono per essere disciolte anche le sue – le nostre – responsabilità di produttori, consumatori, utenti mediali.

Concludo con una postilla, rimarcando che l’autore di questo studio non è un islamista, o tanto meno un esperto di cultura visuale islamica, e non parla né legge l’arabo o il persiano; piuttosto, è uno studioso occidentale che ha guardato, volendo capirci qualcosa, fotografie e video che hanno cementato il fronte iconico della guerra al terrore, concentrando il suo sguardo anche su un’ingente quantità di materiali prodotti dai nostri “nemici” (attenzione però: materiali pensati per essere rivolti anche a noi, noi occidentali, tanto da essere spesso recitati, o almeno sottotitolati, in inglese). Ha guardato dal suo parziale punto di vista, insomma, una cultura complessa e diversa dalla propria, dalla quale però si è sentito direttamente – e a volte violentemente – interpellato: l’esito conseguito, che non potrà che essere altrettanto parziale, e di certo non esaustivo, è da intendere come il risultato di tale orientamento, che tiene conto di alcuni indicazioni di massima[9].

 

Note

 

[1] Sul concetto di guerra diffusa si rimanda ad A. Hoskins-B. O’Loughlin, War and Media. The Emergence of Diffused War, Cambridge, Polity Press, 2010, in special modo, pp. 15-7.

[2] W. J. T. Mitchell, Cloning Terror. La guerra delle immagini dall’11 settembre a oggi, Firenze-Lucca, VoLo Publisher, 2012.

[3]  M. Belpoliti, L’età dell’estremismo, Milano, Guanda, 2014.

[4] A. Cavarero, Orrorismo, ovvero della violenza sull’inerme, Milano, Feltrinelli, 2007, p. 41.

[5] Si pensi alle interviste che McLuhan rilascia a quotidiani italiani sia prima del rapimento di Aldo Moro («Il Tempo», 19 febbraio 1978), che successivamente («Corriere della Sera», 23 marzo 1978).

[6]  S. Linfield, Una luce crudele. Fotografia e violenza politica, Milano, Contrasto, 2013, p. 26.

[7] Sul concetto di autenticazione, ampiamente ripreso nel secondo capitolo di questo lavoro, si rimanda a P. Montani, L’immaginazione intermediale. Perlustrare, rifigurare, testimoniare il mondo visibile, Roma-Bari, Laterza, 2010

[8] J.P. Galibert, Suicidio e sacrificio. Il modo di distruzione ipercapitalistico, Viterbo, Stampa Alternativa, 2015, p. 41. Si ricordi anche il “motto” dell’esperto di terrorismo internazionale Brian Jenkins, che già a metà anni Settanta definiva il terrorismo proprio come un teatro.

[9] Si è infatti deciso di utilizzare una traslitterazione semplificata dei termini arabi e persiani, in modo da evitarne le problematiche relative a sillabazione e accentazione. Inoltre, i prestiti dalle suddette lingue sono sempre usati al singolare, tranne nei casi in cui il plurale sia diventata una forma ricorrente nella lingua italiana (come, per esempio, nel caso della traslitterazione del termine).

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