Tornano in libreria, edite da Nonostante, tre importanti opere della scrittrice francese Nathalie Sarraute (1900-1999).
In una recente risposta a una stroncatura di Alessandro Piperno alla riedizione de I falsari di Gide (Bompiani, 2016), Stefano Bartezzaghi si chiedeva: «esistono ancora lettori – e dico lettori, non dico professori, studiosi di letteratura, letterati, scrittori – che preferiscono il “fallimento” di Gide al “successo” di qualche romanziere odierno da classifica? O davvero oggi la letteratura non è che narrativa, con il suo catechismo suadente e i relativi obblighi di rappresentazione e di un bello scrivere tarato su scelte lessicali preziose e paracule, senza badare molto a sconci sintattici che saranno notati solo da cacadubbi senza voce né seguito?»
Sebbene i titoli presenti in classifica e la rimozione sempre più frequente di alcuni libri dal discorso pubblico e intellettuale a favore di un’identificazione della cultura con l’attualità sembrino confermare lo sconforto di Bartezzaghi, è pur vero che ci sono case editrici che fin dalla loro nascita non hanno mai smesso di credere in lettori partecipi. Come Nonostante edizioni, attiva a Trieste dal 2013 con un catalogo che punta a recuperare titoli di autori noti – Marguerite Duras, Claude Simon, Alain Robbe-Grillet – a cui si affiancano nomi ancora poco conosciuti in Italia come Jean Cayrol o Hélène Bessette. Grazie alla tenacia di questo piccolo editore, negli ultimi mesi sono finalmente riapparse in libreria tre importanti opere di Nathalie Sarraute (1900-1999): Tropismi, Ritratto d’ignoto (nelle memorabili traduzioni di Oreste Del Buono) e L’età del sospetto (tradotto da Donata Meneghelli).
Pubblicato originariamente nel 1938 e riedito nel 1957 in un’edizione ampliata, Tropismi contiene ventiquattro testi brevi in cui durante dei comuni episodi quotidiani i personaggi avvertono uno squilibrio interno, sotterraneo, che li porta brevemente a contatto con un malessere nuovo, sconosciuto. Il tropismo – termine preso a prestito dalla biologia – è qui un sentimento incontrollabile che, ancora prima di essere identificato, subisce il peso delle convenzioni linguistiche per ricondurre i personaggi dentro categorie note e rassicuranti. Che si tratti di una donna immobile in attesa nel silenzio della sua camera mentre «qualcosa di angoscioso si prepara» (Tropismo V); o di una coppia di anziani seduti a un bar, consapevoli di non dover più attendere sogni, ribellioni o speranze, limitandosi a scegliere tra «granatina o caffè, cappuccino o espresso, accettando modestamente di vivere, lì o altrove, e far passare il tempo» (Tropismo XVI); o ancora della resistenza di una donna ai logori cliché impersonati da chi le sta attorno, subito smorzata dal bisogno di «entrare nel loro girotondo» fatto di mani «tristi e umidicce» (Tropismo XXIII), Sarraute ricorre alla terza persona – singolare o plurale – per mostrare quanto l’essere umano sia un progetto in fieri, pluridimensionale, dai contorni indefiniti, che le parole non sono in grado di restituire totalmente. I personaggi sono prima di tutto «emozioni e stati psichici latenti», come scrive Arnaud Rykner nella postfazione al volume, attraverso cui l’autrice restituisce un mondo duplice, scisso tra apparenza e psiche, abitato da esseri incompatibili, dove emerge soprattutto il «dolore di esistere in mezzo agli altri».
Ritratto d’ignoto, pubblicato nel 1948 e riedito nel 1956, adotta il punto di vista di un uomo di mezza età per spiare un padre e sua figlia – privi di nome, assunti a tipi – verso cui prova una «repulsione mista ad attrazione». Trincerati nei rispettivi egoismi, i due si fronteggiano a suon di luoghi comuni, smorfie, recriminazioni, fino ad arrivare a quel fondo intimo «dove tutto è permesso, dove non c’è più bisogno di nascondere nulla». Conosciuto per la mirabile prefazione di Sartre, in cui conia l’espressione di antiromanzo – categoria in cui fa rientrare, tra gli altri, anche I falsari di Gide –, Ritratto d’ignoto abbandona presto i meccanismi dell’indagine poliziesca per lasciare spazio a percezioni, ricordi, divagazioni che si mescolano, riaffiorano e scompaiono di nuovo. Si tratta, nota Sartre, di «scrivere il romanzo di un romanzo che non si compie» dove le conversazioni artificiose servono a celare ogni disagio interiore, attraverso un «incessante andirivieni dal particolare al generale» che contraddistingue lo stile di Sarraute, in grado di narrare crudeltà e bassezze ricorrendo a uno stile pietoso, quasi pudico. Sostenuti da gesti cordiali e voci neutre, i dialoghi del romanzo diventano giochi di potere tra chi, a turno, riesce a circuire il proprio interlocutore che, impaurito, retrocede, si rintana. Sono figure «mai esenti da sospetti», abituate a camminare «con passo sicuro sull’orlo della paura» finché, avverte l’autrice, la «rassicurante e comoda convenzione riprende il sopravvento».
Nel 1956, a seguito della pubblicazione dei due testi, Sarraute decise di riunire quattro brevi scritti di tecnica letteraria nella raccolta L’età del sospetto, inteso come reazione «con cui un organismo si difende e trova un nuovo equilibrio». Scagliandosi contro i facili entusiasmi di alcuni critici, l’autrice mette in guardia dai libri, anche ben scritti, che restituiscono «nient’altro che la più piatta e banale apparenza» e non chiedono mai ai lettori uno sforzo eccessivo, dando loro l’impressione di «essere a casa, circondati da oggetti familiari». Il lettore dovrebbe invece avere la sensazione di «compiere lui stesso, senza sapere bene cosa stia facendo o dove stia andando, delle azioni». Servono lettori sospettosi che non si accontentino di una «realtà di superficie» per trovare nella letteratura «una conoscenza di ciò che sono, di ciò che è la loro condizione di vita, più approfondita, più complessa, più lucida, più esatta di quella che possono ottenere da soli». Una conoscenza che potrebbe arrivare proprio da quegli scrittori che «coltivano un gusto più o meno consapevole per una certa forma di fallimento, abbandonandosi a un’ossessione all’apparenza inutile».
Tornando, dunque, alla domanda di Bartezzaghi, dopo aver letto queste pagine che invitano a «non già tornare indietro ma sforzarsi di andare più avanti» per offrire nuove impressioni senza smettere di interrogarsi sul possibile futuro del romanzo, si è portati a credere, come scrive Sarraute in Valéry e l’elefantino. Flaubert il precursore (Einaudi, 1988), che se il linguaggio «è uno spazio cavo, il lettore, lo voglia o no, lo riempie». Perché il linguaggio rinvia sempre a un senso a cui il lettore – anche quello più passivo – non può sottrarsi. E se le classifiche di vendita mostrano successi da «catechismo suadente», basta ricordare che da sempre i buoni libri sono soltanto quelli che «sopportano di essere riletti».