#salvafilosofia

Nelle ultime settimane, il mondo accademico e quello interessato alla filosofia hanno voluto sottolineare l’importanza di questo sapere e la sua necessaria presenza all’interno delle scuole e di alcune facoltà umanistiche. Queste apologie sono nate tutte dopo le ultime proposte ministeriali che vorrebbero ridurne l’insegnamento o, in alcuni casi, eliminarlo totalmente.

In effetti, se la sua didattica deve ridursi ad una semplice storia del pensiero, allora tanto vale eliminarla perché fare filosofia è tutta un’altra cosa. Questo è quello che accade normalmente nei licei dove la filosofia viene studiata in maniera manualistica per tre ore a settimana e dove le interrogazioni non servono a mettere in dubbio quello che si dà per scontato, ma hanno la finalità di rendere chiaro quando finisce l’Idealismo e inizia il Positivismo. Questa almeno è stata la mia esperienza personale nonostante la quale mi sono fortunatamente iscritta e laureata alla facoltà di filosofia. Proprio frequentando e vivendo l’università, mi sono resa conto che sostenere un esame in questa disciplina – per chi non abbia scelto questa carriera – equivale più o meno ad una infarinatura generale di termini e nozioni che si dimenticheranno appena usciti dall’aula. Tuttavia, se la filosofia viene interpretata come un esercizio critico della mente, tutti potranno capirne il ruolo fondamentale del suo insegnamento e la necessità di una riforma scolastica che possa veramente contribuire alla formazione del cittadino. Infatti, dovremmo ricordare più spesso che la scuola è un servizio pubblico e in quanto tale pagato da tutti per la formazione culturale e civica dei cittadini.

Il sistema di valori che l’istruzione pubblica assume e trasmette ai giovani non deve essere accettato senza essere analizzato e discusso a sua volta e, soprattutto, pensando che sia l’unico legittimo. Proprio come nel caso della didattica filosofica, l’unica prospettiva -per quanto utile- non è solo quella cronologica offerta dai manuali. In Italia, la prospettiva storiografica ha rinchiuso nella sua gabbia diverse discipline umanistiche senza invece dare spazio a prospettive possibili dall’incontro con altri saperi, solo in apparenza distanti. Sempre nel caso della filosofia, soltanto in tempi recenti il mondo accademico ha iniziato a mostrare interesse per una visione che non fosse strettamente di matrice storica, utilizzando le conoscenze derivate dall’antropologia o quelle nate dalle ultime scoperte neuroscientifiche. Il sapere è unico, nonostante i sui mille e affascinanti volti, ed è proprio questo che la scuola e l’università dovrebbero trasmettere, senza proteggere una corrente ideologica piuttosto che un’altra.

Spesso, la filosofia viene considerata inutile perché non produce nulla di visibile o tangibile, ma questo non vuol dire che la sua pratica sia priva di senso o non abbia nessun valore. A questo proposito, mi piace ricordare che anche l’arte condivide lo stesso pregiudizio perché non sarebbe in grado di creare degli oggetti che servono a qualcosa. Anche Kant diceva che l’arte era inutile ma non nello stesso modo in cui oggi lo diremmo noi: le opere d’arte venivano descritte come oggetti che non possono essere utilizzati nella nostra vita quotidiana, ma sono essenziali perché danno da pensare. Ecco, per la filosofia si potrebbe dire la stessa cosa quando si serve delle parole come concetti. Infatti, ogni giorno impieghiamo espressioni e termini sui quali manca spesso una puntuale riflessione: si sentono ripetere termini come democrazia, libertà e individualità ma senza definirli e, di conseguenza, senza sapere davvero di che cosa ci stiamo occupando. Il compito della filosofia consiste allora nell’analisi dei concetti per capire la realtà che ci circonda.

Per poterlo fare, però, bisogna allontanarsi dalle abitudini che contraddistinguono la nostra vita quotidiana e mettere tra parentesi la nostra convenzionale visione sulle cose in modo tale da fare esercizio critico su di essa. Non si tratta, però, della solita fuga nella torre d’avorio nella quale il filosofo troverebbe la pace lontano dalle problematiche dei comuni mortali, ma di un momento necessario per formulare una riflessione autonoma: libera dagli schemi interpretativi dominanti che utilizziamo senza esserne coscienti. Come ha scritto di recente Alberto Gaiani «se la filosofia non è una specie di superscienza vuota ma intoccabile ed è invece un sapere che ci fa conoscere in modo diverso quello che pensavamo di sapere, quello che davamo per scontato, viene meno il bisogno di distinguere tra discipline umanistiche e discipline scientifiche e di creare una gerarchia tra i saperi». In questo senso allora, l’esercizio filosofico si mostra come pratica e, al contempo, come strumento teorico in grado di fronteggiare alcuni pericoli sempre attuali: la propaganda ideologica o la sua versione economica qual è la pubblicità sono forme discorsive capaci di trasmettere atteggiamenti e credenze che solo un’attività critica -come quella che sviluppa la filosofia- può giudicare ed eventualmente sovvertire.

 

In questo senso, vorrei ricordare l’esempio utilizzato da Carlo Ginzburg (Cfr. Occhiacci di legno. Nove riflessioni sulla distanza, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 15-34)  quando ricorre alla metafora della marionetta, cara a Marco Aurelio, per definire il compito della filosofia e ricordare lo spirito con la quale è nata nell’Antichità e che mantiene ancora oggi. Infatti, la bambola coi fili simula il comportamento umano ma rimane pur sempre un oggetto inanimato che vive solo grazie al burattinaio, senza il quale sarebbe del tutto inerme sulla scena. Allo stesso modo, chi non esercita il pensiero critico diventa un fantoccio nelle mani di qualcuno che decide al suo posto. La paura di diventare schiavi dell’opinione altrui -o peggio del nostro stesso sguardo sulla realtà, dato dalle convenzioni sociali e dalle ideologie della nostra cultura- è stata sempre presente nella storia umana fin dai tempi antichi, proprio come testimonia la metafora di Marco Aurelio. Tuttavia, l’esercizio filosofico ha sempre cercato di difenderci da questa minaccia alimentando la forza del pensiero critico. Il pericolo di diventare marionette non è affatto così recondito, soprattutto in questa nuova generazione 2.0 che punta maggiormente alla fotografia istantanea del momento, piuttosto che ad un’analisi approfondita di ciò che accade. Non vorrei apparire retrograda, ma penso che la filosofia abbia bisogno di tempo umano e che questo mondo corra un pò troppo per darle uno spazio adeguato al di fuori di quelli accademici, molte volte autoreferenziali. Malgrado ciò, spero solo che la filosofia non si riduca alla moda pop del momento, non solo per i suoi oggetti di indagine ma per la sua stessa pratica che non può essere immediata ma -come dicevo- ha bisogno di consentire allo sguardo di dilatarsi, senza morire con (in) un post.

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