Nuove soggettività a confronto. Inizia oggi un racconto in due puntate del convegno “utenti e familiari: nuovi soggetti per nuove politiche sanitarie” tenutosi a Modena il 24 ottobre.
Quasi due anni fa raccontavamo su Reparto Agitati la gestazione del Coordinamento Nazionale degli Utenti della Salute Mentale. Lo scorso 24 Ottobre gli aderenti al coordinamento si sono ritrovati a Modena per il convegno “utenti e familiari: nuovi soggetti per nuove politiche sanitarie”, confrontandosi con altre associazioni italiane attiva nel campo della salute mentale. Reparto Agitati ha seguito i lavori del convegno e inizia oggi un racconto in due puntate.
La prima raccoglie le testimonianze di Trento, Reggio Emilia e del Mugello, la prossima riporterà la discussione, con le riflessioni di Maria Augusta Nicoli e una sintesi delle posizioni del CNUSM.
1. La proliferazione di nuove presenze nei servizi di salute mentale
Negli ultimi anni i servizi pubblici di salute mentale sono attraversati da nuove forme di presenza, protagonismo e partecipazione degli utenti. Si tratta di un fenomeno che riguarda ancora un numero limitato di Dipartimenti di Salute Mentale, ma in rapido sviluppo su tutto il territorio nazionale. Partnership, mobilitazione, cooptazione, rappresentanza di interessi collettivi, sono le categorie più frequentemente utilizzate per capire il senso di queste “nuove presenze”. Una lettura univoca di questo fenomeno non è affatto facile e si scontra con un primo dato empirico: la “nuova presenza” degli utenti associati in percorsi di partecipazione e coordinamento con i servizi pubblici avviene in contesti organizzativi molto diversi tra loro, opachi e spesso poco valutabili dal punto di vista degli standard operativi, delle linee guida e della qualità delle prestazioni[1]. Questa molteplicità rende ambivalente il passaggio che stiamo attraversando, e questa ambivalenza è stata uno dei primi tratti distintivi con cui il CNSUM ha dovuto fare i conti.
Il Coordinamento Nazionale degli Utenti della Salute Mentale ha avvertito da subito il bisogno di interrogarsi collettivamente sulle forme di relazione da intrattenere con i servizi di salute mentale. Già dalla sua nascita, la immensa disparità di pratiche e organizzazioni sul territorio nazionale ha spinto gli aderenti ad avviare confronti e dibattiti anche con altre realtà nazionali. È emerso da subito che Dipartimenti di Salute Mentale diversi vedono in modi molto differenti la presenza di associazioni sul proprio terreno. Le associazioni sono andate ad occupare posizioni non sempre chiare, disponendosi lungo un segmento racchiuso tra i due estremi di “critici indefessi” o di “partner consensuali” alle scelte del servizio. Questa immagine del segmento è tuttavia semplicistica e fuorviante ed è necessario complicarla con altre dimensioni per non dare la falsa impressione che la posizione che le associazioni scelgono dipenda totalmente da “disposizioni soggettive” delle associazioni stesse e dei loro membri. Spesso sono la qualità degli spazi di ascolto, la trasparenza delle scelte delle AUSL e in generale le caratteristiche del tessuto sociale di appartenenza a determinare quali spazi sono praticabili per le associazioni di utenti e di familiari. Più realisticamente, molte associazioni spesso agiscono nella contraddizione consapevolmente accettata tra l’essere utilizzate come possibili “camere di compensazione” del malcontento generato dalla destrutturazione dei servizi pubblici e il tentativo di costruire spazi nuovi di rappresentanza e di controllo democratico sulle politiche.
Uno sguardo alla letteratura scientifica conferma questa prima lettura di ambiguità. Il documento del Febbraio 2006 del Health Evidence Networks dell’Organizzazione Mondiale della Sanità dice chiaramente[2]: mentre la partecipazione costituisce il retroterra delle strategie di presa di potere, la partecipazione da sola è insufficiente [a produrre risultati evidenti sulla riduzione delle ineguaglianze nella salute] e può essere manipolatoria e passivizzante, piuttosto che attiva, capacitante e basata sul controllo delle comunità. La partecipazione può essere vista utilitaristicamente, cioè per assicurare l’efficienza dei programmi, piuttosto che capacitante rispetto all’obiettivo di ridurre l’esclusione sociale. I metodi partecipativi a livello locale possono esser limitati – per esempio se usano i membri della comunità solo come informatori – o possono oscurare il bisogno di un’analisi delle più ampie strutture istituzionali e delle politiche pubbliche che influiscono sui determinanti locali di salute. Le domande da porre ad ogni comunità includono “chi sono i rappresentanti ufficiali?”, “la voce di chi rimane nascosta?”, “quali sono le disuguaglianze di potere che possono impedire la partecipazione di certi settori di popolazione?” Il coordinamento ha dunque accettato l’invito delle associazioni modenesi a partecipare al dibattito con diverse realtà associative, presenti sul territorio nazionale, in vario modo coinvolte nella sperimentazione di forme alternative di rapporto con i servizi di salute mentale, per iniziare a svolgere un confronto collettivo. All’incontro hanno partecipato, oltre al CNSUM, rappresentanti delle esperienze degli Utenti e Familiari Esperti di Trento, dei Facilitatori Sociali di Reggio Emilia e della Rete Toscana Salute Mentale. Come discussant è stata invitata la Prof.ssa Maria Augusta Nicoli, responsabile dell’Area “Equità e partecipazione” dell’Agenzia Nazionale Sanitaria dell’Emilia Romagna.
2. La professionalizzazione del sapere che viene dall’esperienza
Ad aprire il confronto tra le esperienze sono state le storie di Roberto Cuni, Maurizio e Adriana, provenienti da Trento e protagonisti della storia ormai consolidata degli UFE, gli Utenti e Familiari Esperti che collaborano con il Dipartimento di Salute Mentale. Gli UFE sono 45 persone, utenti e familiari con una storia di “presa in carico” da parte del Dipartimento di Salute Mentale, che oggi hanno un contratto di lavoro con una Associazione di Promozione Sociale che prende i soldi dal Dipartimento di Salute Mentale grazie a una convenzione. Il loro compito è quello di supportare gli operatori professionali nello svolgimento delle attività quotidiane del servizio.
Maurizio, UFE, ha raccontato la sua storia:
Mi piace definirmi “una persona che ha avuto un disagio”. È successo dieci anni fa e adesso mi definisco “una persona che sta bene”. So che devo prendere una terapia quotidiana per cercare di star bene. Fare l’UFE mi ha aiutato. Questa è la mia esperienza e non è generalizzabile: fare l’UFE mi ha insegnato ad accettare quello che mi è successo e quello che ho, capire e accettare quello che sono. Come UFE parlo con persone che arrivano al servizio perchè, come dico io, “hanno un momento particolare”. Sono un UFE “della crisi”, lavoro quindi a contatto con le persone che arrivano al servizio proprio quando stanno male.
Nella mia vita ho provato ad essere una persona che non mi piaceva. Poi mi sono chiuso in una camera: non volevo più essere un padre di famiglia, non volevo più guardare in faccia i miei figli, perchè mi vergognavo. Ora mi piace parlare con le persone e trovare degli aspetti positivi nelle loro situazioni. Funziona? A me piace pensare di si, perché vedo la relazione che instauro con le persone e mi sembra positiva. Ora so valutare le cose più belle che ho intorno a me. Penso per esempio al mio rapporto con il quartiere e con il vicinato. Io abito in montagna, dove ci si conosce tutti: i vicini vedevano in che condizioni ero, vedevano che ero una persona che non si teneva più, avevo la barba lunga e sentivano le urla dei litigi con mia moglie. Dopo, ho raccontato volentieri la mia esperienza agli altri e anche ai giornali. Non mi vergogno di raccontarla per poter esprimere gli aspetti positivi.
Come UFE faccio tre o quattro turni alla settimana, in tutto 40 ore. Partecipo alle equipe e a tutte le riunioni con i professionisti. Partecipo ai colloqui con il medico, se l’utente vuole un supporto. Stamattina c’era una persona che era agitata. Io stavo lì con lei, ma non stavo a fare la guardia. Questa persona ho sempre cercato di trattarla in modo da farle capire che si può star meglio; le parole che uso più spesso sono la fiducia e la speranza. L’idea è che se noi ci impegniamo possiamo star meglio. Nel tempo sono migliorato io ed è migliorato il rapporto con i professionisti. I professionisti hanno rispettato i miei tempi. E mi sono sentito stimolato, ho sentito il riconoscimento di altri che mi dicevano che ero capace di fare. Ho deciso di iniziare questo percorso quando mi sono trovato con una persona che aveva passato un momento particolare, e si è raccontata a me. Da lì ho iniziato a pensare: “se ce l’ha fatta lui posso farcela anche io”.
Roberto Cuni, coordinatore degli UFE, ha chiarito alcuni aspetti strutturali della vicenda:
Stiamo sempre più cercando di strutturare e aumentare il pagamento degli UFE da parte del servizio. Per noi significa dare un valore, riconoscere l’apporto che essi danno, trattare la loro attività come un vero lavoro. L’UFE porta con sé un “sapere esperienziale” che l’operatore non può avere, e che sommato al sapere tecnico può migliorare il servizio. Ad oggi gli UFE sono 45, e lavorano per varie ore settimanali. Stiamo cercando di valutare in che modo gli UFE influiscono sulla qualità del percorso di cura degli altri utenti, ma per adesso soprattutto vediamo che l’UFE trae giovamento soprattutto per se stesso da questa pratica. Vediamo che comunque il servizio di salute mentale “cambia pelle”: progressivamente il gradimento della loro esperienza da parte degli operatori è aumentato. Il riconoscimento del sapere esperienziale da parte dell’istituzione è sempre più importante e stiamo cercando di portarla avanti attraverso una politica di assunzioni. Spesso la gente ci chiede se questo modello è stato possibile grazie a una legge, o al fatto che la Provincia di Trento abbia uno Statuto Speciale. No, la diffusione di questi modelli non deriva da leggi particolari. Il valore dell’esperienza deriva da una cultura che c’è a Trento, una cultura di ricerca e sperimentazione. Un valore molto importante di questa esperienza è che ha permesso di risparmiare risorse pubbliche al servizio. E per la prima volta, con questa esperienza, gli UFE stanno cambiando il servizio dall’interno.
Adriana, che si è definita “familiare di un ragazzo schizofrenico”, ha raccontato la sua storia di graduale passaggio dalla riconoscenza nei confronti degli operatori all’impegno diretto nel servizio:
La spiegazione di come sono diventata UFE si intreccia con la storia di mio figlio. Mio figlio viene dalla tossicodipendenza, ha fatto tanti anni da tossicodipendente. A un certo punto non era neanche più questione di droga, era proprio che gli aveva preso il cervello. Nel 2010 il Centro di Salute Mentale lo ha preso in carica, ha fatto diversi ricoveri. L’ultimo ricovero lo ha fatto sei anni fa, è stato molto brutto, ha fatto un Trattamento Sanitario Obbligatorio di un mese. Da lì è successo qualcosa: lui ha preso la consapevolezza che ha bisogno di aiuto, che ha bisogno di prendere puntualmente i farmaci mentre gli anni prima un giorno li prendeva, due giorni li sputava, un giorno li vendeva. E questo è andato avanti per un po’ di tempo, fino all’ultimo ricovero. In quella occasione si è convinto di avere bisogno di aiuto, ne ha preso consapevolezza. E da lì veramente le cose sono cambiate sia per lui sia per me e l’altro mio figlio. Lui ha collaborato alle attività lavorative della Panchina (cooperativa di inserimenti lavorativi) e io sono andata in pensione. Una operatrice del centro mi ha detto: “e ora cosa fai?” Io le ho risposto che finalmente mi godevo la casa, dato che facevo la commessa e stavo tutto il giorno fuori. Lei mi ha detto: “vieni che c’è bisogno di aiuto” Mi sono detta “ci provo” e sono andata al Centro di Salute Mentale. Io pensavo che il centro ha dato molto a mio figlio, quindi è ora che anche io dia qualcosa a loro. Ora mio figlio sta abbastanza bene però è sempre sotto custodia da parte del centro, perchè non si sa mai nella vita cosa succede e bisogna stare attenti. Io ho iniziato a fare l’UFE al front office, poi sono andata anche al call center. Mi piaceva perchè con gli operatori si è fatto un bel gruppo. So che nei primi tempi gli UFE non erano ben visti dagli operatori ma io sono arrivata che la strada era già spianata quindi mi sono trovata bene. Il Dr. Cuni mi ha detto: “c’è bisogno di personale, vuoi provare a fare l’UFE in reparto?” Io ero titubante perchè il rapporto che si ha con gli utenti al call center o al front office è molto diverso da quello del reparto perchè lì c’è il momento di crisi, il momento in cui l’utente sta male e non si sa cosa aspettarsi. Certo io avevo l’esperienza di mio figlio ma non l’avevo mai visto “fuori”. Ho fatto un periodo di affiancamento agli altri UFE che già c’erano in reparto e poi ho cominciato. Ora mi trovo benissimo con loro. Noi cerchiamo soprattutto il dialogo con gli utenti perchè loro ci raccontano cose che neanche agli operatori e il medico vanno a dire. Perchè noi non abbiamo divise, noi siamo alla pari di loro, abbiamo solo la nostra esperienza di vita e ci mettiamo alla pari. Noi ci raccontiamo, loro si raccontano e veramente ci dicono delle cose; naturalmente noi certe cose importanti andiamo a dirle al medico e agli operatori perchè poi loro sanno come comportarsi. Noi partecipiamo a tutte le consegne, al giro visita dei medici, a qualsiasi riunione che c’è in reparto. I pazienti ci cercano. Noi come UFE andiamo “di pancia” perchè non abbiamo né la laurea né lo studio. Noi andiamo di pancia, ma con loro ci vuole tanto amore ma anche tanto buon senso, se no “ti girano” e fanno quello che vogliono loro.
3. Reggio Emilia: stare a galla sulla crisi con l’innovazione
L’esperienza dei facilitatori sociali di Reggio Emilia ha un’origine legata alle varie attività “esterne” realizzate nel contesto delle cooperative che appaltano pezzi di servizio pubblico di Salute Mentale. Dai racconti è emerso il progressivo “investimento” della AUSL su questa innovazione organizzativa, guidata dall’idea di poter migliorare l’immagine del servizio e l’efficacia.
Pietro Spada, facilitatore sociale, ha raccontato la sua storia:
I facilitatori sono dodici, hanno fatto un corso di sei mesi, teorico e pratico, e poi sono entrati in appoggio agli operatori nell’accoglienza a gli utenti: rispondono al telefono, lasciano le consegne per i medici e svolgono un ruolo di ascolto umanizzando l’organizzazione dei tempi e delle modalità operative. Chi prima telefonava ai centri di salute mentale aspettava delle ore in linea o trovava occupato l’apparecchio. Un gruppo di operatori si è fatto venire l’idea, ma le cose semplici sono più facili da pensare che da realizzare. Ora gli operatori e i medici del servizio hanno più tempo per fare le loro cose, addirittura riescono a fare in coppia le visite domiciliari agli utenti. Si tratta di un’esperienza positiva: abbiamo dei riconoscimenti da parte degli operatori, ma soprattutto abbiamo dei riconoscimenti da parte di chi chiama, degli utenti, che quando parlano al telefono o vengono lì di persona nei laboratori trovano delle persone che sono state preparate per essere gentili, farli parlare e aiutarli. Ci sono due signore che collaborano nei laboratori. Noi rispetto agli amici di Trento siamo ancora una piccola squadra.
Giorgio Ferrari, facilitatore sociale, ha letto un documento che descrive l’origine dei facilitatori nell’esperienza di Radio Tab. Si tratta di un esempio di quello che caratterizza il “modello emiliano” dei servizi pubblici: attivare e mobilitare risorse esterne, sia di tipo imprenditoriale (profit o non profit) sia di tipo volontario, civico, associativo, facendo leva sulla “coesione comunitaria” e il “capitale sociale”:
Questo progetto ha visto susseguirsi 4 corsi di formazione rivolti agli utenti, poi i facilitatori così formati sono stati assunti dal consorzio Oscar Romero, che già operava con fondi pubblici per realizzare Radio Tab. Radio Tab coinvolge persone che avevano avuto percorsi di inserimento lavorativo fallimentare, e che invece ora partecipano alle attività di una radio della salute mentale. Con questo progetto sperimentale sono state coinvolte delle persone con una attività diversa dalla solita inclusione al lavoro. Le persone coinvolte si percepiscono in un percorso di tipo evolutivo, c’è un’assunzione di responsabilità da parte dell’utente. Questi progetti modificano l’atteggiamento degli utenti da pazienti che chiedono a persone che offrono. Inoltre si tratta di un percorso individuale ma anche collettivo: collaborare in forme nuove è una dimensione di crescita organizzativa, che porta a valorizzare le risorse della persona. Le persone che hanno preso parte a questi percorsi hanno acquisito una maggiore consapevolezza rispetto alle loro capacità e anche una capacità di autovalutazione, che è stata importante per migliorare la loro partecipazione ai percorsi di cura. Inoltre questi percorsi sono visibili. Attraverso di essi si afferma una cultura della speranza e della guarigione. Le persone coinvolte hanno raccolto la sfida della testimonianza. Il Dipartimento di Salute Mentale li presenta come manifestazione delle proprie modalità di pratica. Ultima questione: il carattere innovativo di questo progetto ha permesso di intercettare fondi europei, che sono molto importanti in una condizione di crisi economica.
Dopo aver presentato il progetto, ha raccontato la sua esperienza:
Faccio il facilitatore sociale da un anno e mezzo. Trovare lavoro dopo 50 anni altrimenti sarebbe stato veramente difficile. Facendo questo ho ritrovato stimolo, motivazioni. Dopo aver vissuto il mondo psichiatrico come utente, il lavoro di facilitatore sociale mi permette di mettere a disposizione le esperienze, il bagaglio personale. Questo bagaglio è stato coltivato durante la storia della sofferenza. La mia esperienza diretta di malattia mi porta ad avere empatia verso gli altri. C’è una doppia valenza di questo lavoro: un beneficio per noi, in termini di autostima e coinvolgimento, poi un percorso virtuoso per il mondo psichiatrico che con la nostra presenza inizia a considerare prospettive che non aveva mai considerato. Si tratta di una nuova possibile strategia per la guarigione.
Delia, facilitatrice e vice presidente dell’Associazione Sofferenti Psichici “L’orlando furioso”, ha descritto la sua esperienza:
Oltre alle mansioni di accoglienza che svolgiamo all’interno dei due centri di Salute Mentale, i facilitatori spesso vengono inseriti nelle attività trasversali organizzate nel servizio e nelle opportunità che offre il distretto come i gruppi di automutuoaiuto. Da poco ci è stato richiesto dal servizio di fare una nuova attività che prevede l’impiego per 20 ore settimanali. Si tratta di un modo per trovare lavoro alle persone: l’azienda ha pensato di destinare parte delle risorse che sono devolute per il budget di salute al pagamento per i facilitatori impiegati in questa nuova attività della domiciliarità. Si tratta di sostegni a domicilio forniti a persone che vivono sole, che non hanno famiglia, con scarsa rete di relazioni, che magari non frequentano le attività del servizio, e nei momenti di difficoltà hanno bisogno di qualcuno a cui poter dire anche solo quanto stanno male. È un progetto appena iniziato rispetto al quale voglio raccontare una storia. Il nostro percorso di elaborazione e di consapevolezza ci porta a renderci conto che il problema diventa una risorsa. Ed è una risorsa spendibile. Questo è molto evidente nella domiciliarità. Racconto un esempio. Io non “seguo” le persone, perchè la parola “seguire” è un po’ inquietante… diciamo che si tratta della persona che incontro in questo periodo. Ho fatto il primo incontro con l’operatore, che mi ha preparato alla confusione e alla sporcizia che avrei trovato in quella casa. Questa era stata la caratteristica principale della persona, che mi aveva presentato prima che la conoscessi. Poi siamo andati a casa sua e sicuramente c’era un po’ di disordine. Questa persona ci ha chiesto se volevamo un caffè. La cosa che mi ha colpito di più è stato che lei, mentre il caffè veniva su, ha accuratamente lavato e sciacquato i bicchieri per offrirci il caffè. Credo che il concetto che volevo esprimere sia chiaro, ma lo rimarco: la nostra risorsa può essere quella di riuscire a vedere piccoli successi in una situazione che agli occhi dell’operatore può sembrare solo disastrosa, vedere le piccole grandi capacità che hanno le persone, pur dibattendosi all’interno del disagio, di una solitudine estrema, di una povertà economica, perchè purtroppo il problema è proprio questo: siamo a livelli di reale povertà.
4. Una domanda dalla Toscana: quale comunità?
Beppe Pratesi, dal Mugello, è intervenuto come rappresentante della Rete Toscana Salute Mentale, un coordinamento formale di 44 associazioni di familiari, che hanno provato a darsi nel tempo delle forme stabili di interazione e delle strutture di interlocuzione con i servizi pubblici. La sua esperienza si pone in un’area radicalmente diversa da quella delle esperienze di Reggio Emilia e Trento. Il Coordinamento Toscano è molto impegnato nel creare percorsi di consapevolezza tra familiari e utenti, nel condividere percorsi di ricerca sulle politiche dei servizi e nel costruire momenti di confronto e interlocuzione con le istituzioni sulla programmazione delle poltiche sociosanitarie. Nell’ultimo anno la sua associazione ha sviluppato una scommessa con la Regione Toscana: contrastare il disagio urbano diffuso fuori dalle logiche di “accompagnamento” del servizio di salute mentale, puntando verso l’autoorganizzazione in agricoltura. La cifra importante della loro esperienza è stata la scommessa sul superamento del principio della riabilitazione tecnica e lo spostamento verso il principio dell’impresa sociale e dell’auto valorizzazione. Le persone si sono impegnate in una forma di autoimpiego recuperando vecchie capacità agricole e artigianali andate perdute.
In questo dibattito ha dato un contributo critico nei confronti delle esperienze raccontate:
Come associazioni di familiari, ci siamo coordinati in modo formale. Il cammino è stato un cammino comune a tante esperienze che ho sentito anche oggi. Si partiva dall’idea del familiare tutto-fare, il familiare che credeva di avere una clinica privata in casa sua, che credeva di poter gestire il proprio figlio in ogni situazione. C’era poi il familiare rivendicativo, quello scatenato che di solito va al servizio perchè vuole spaccare tutto. È stato un percorso lungo, lungo il quale abbiamo preso consapevolezza di quale potrebbe essere il nostro ruolo. Siamo arrivati a capire che la famiglia è un grande limite che può essere anche una grande risorsa per la persona con disagio. È un limite se rinchiude, se c’è troppo protagonismo delle mamme o dei babbi nei confronti di tutti, se è troppo presente; invece può diventare risorsa se fa un passo indietro ed è un supporto per il percorso di guarigione e di recupero.
Invece rispetto a quello che abbiamo sentito oggi, del familiare che passa dall’essere volontario in un’associazione a diventare dipendente dei servizi pubblici, noi siamo nettamente contrari. Ci sono altre realtà rispetto a queste e questa forma di partecipazione non può essere declinata come unico linguaggio. Dobbiamo confrontarci oggi per evitare di non vedere i gravi limiti che hanno queste esperienze, e che potrebbero “scoppiare” in seguito. Racconto un’esperienza per semplificare la mia posizione. Un utente con cui siamo in contatto era in un paese piccolo, di quelli in cui tutti ci si conosce. Questo ragazzo si è trovato ad avere a che fare con una “mamma” impiegata nel servizio. E si trattava di un’amica di sua mamma: tutto il giorno le due mamme spettegolavano su di lui, su ciò che faceva o non faceva, sul fatto che non si impegnasse nel seguire i programmi terapeutici. In pratica questa rete, che dovrebbe di sostegno, in certi casi specifici e concreti può diventare una gabbia ulteriore. Se mi ritrovo il familiare esperto al bar, al cinema, quando evado, trovo magari non lo psichiatra ma qualcun altro che riferisce ciò che faccio allo psichiatra. Quello che ho sentito dire oggi mi sembra gravissimo “quello che i pazienti ci confidano noi poi lo riferiamo agli psichiatri” mi sembra fuorviante rispetto a quello che dovremmo fare. Nel mondo esistono altre visioni che vanno valorizzate.
La questione posta da Beppe Pratesi ha stimolato un dibattito articolato da cui è emersa la necessità di costruire momenti di inchiesta e riflessione collettiva su cosa significano oggi concetti come “partecipazione”, “empowerment”, “comunità” e “territorio” nei servizi pubblici. Mentre infatti questi nuovi paradigmi tendono a “tecnicizzarsi”, a diventare modelli operativi in cerca di riconoscimento scientifico, nelle dinamiche reali dei contesti emergono sempre criticità e contraddizioni che spingono ad interrogarsi più a fondo sulle soluzioni disponibili e sull’impostazione dei problemi.
Note
[1] La Società Italiana di Epidemiologia Psichiatrica ha più volte denunciato la distanza tra pratiche routinarie e linee guida nei servizi di salute mentale italiani. Si veda il progetto DIRECT’S, DIscrepanze fra pratiche di Routine ed Evidenze nella psichiatria di Comunità per il Trattamento della ‘Schizofrenia, di cui è disponibile una presentazione qui. Michele Tansella, Direttore del Dipartimento di Psichiatria della Clinica Universitaria di Verona ed Esperto dell’OMS per la Salute Mentale, in “Psichiatria sociale ed epidemiologia psichiatrica” ha denunciato questa situazione: nonostante esistano numerose evidenze che diverse organizzazioni dei servizi incidono profondamente sull’efficacia dei trattamenti e sullo stato di salute degli utenti, la ricerca scientifica è stata pesantemente sbilanciata su altre variabili, farmacologiche o biologiche, tralasciando quasi totalmente di studiare l’assetto istituzionale dei servizi come determinante di salute di una comunità.
[2] Si tratta del documento “Quali sono le evidenze sull’efficacia dell’empowerment nel migliorare la salute?”.