La condotta degli individui in uno spazio di reclusione: “Salò o le 120 giornate di Sodoma”

Martedi 14 aprile “Salò o le 120 giornate di Sodoma” di Pasolini verrà proiettato al Cinema Nuovo Pendola di Siena alle 21.00.

Si tratta dell’anteprima di “Siena e il suo doppio. Percorsi nel passato e letture del presente”, un ciclo di incontri a cadenza settimanale dedicato alle intersezioni tra il pensiero di Michel Foucault e la storia e l’eredità dell’ex-ospedale psichiatrico San Niccolò di Siena.

Il programma proseguirà giovedi 16 aprile con la conferenza inaugurale di Mario Galzigna “Visibilità e strategie del controllo” e si concluderà venerdi 29 maggio con una tavola rotonda che ripercorrerà le due direttrici che guidano il progetto per proporre ipotesi di recupero memoriale, architettonico e documentale della struttura che in molti casi – ad esempio il panopticon Padiglione Conolly – versa in uno stato di completo abbandono.

Siena e il suo doppio non nasce dal nulla, ma si innesta su un percorso avviato dalla Rete sPAZZI e dal Centro di Ricerche Etno-Antropologiche (CREA) nel 2011 e proseguito con il focus Reparto Agitati, fucine di riflessione propositiva attorno al complesso manicomiale senese allargatesi più in generale alle problematiche relative alla salute mentale e alle questioni istituzionali e legislative delle strutture detentive.


Salò o le 120 giornate di Sodoma ha forse poco a che fare con la follia, sicuramente molto, invece, con le strategie disciplinari e le tecniche di assoggettamento all’interno di uno spazio di detenzione: non pare esserci introduzione più calzante a un progetto che intende affrontare i nodi teorici legati al controllo dei corpi e dei comportamenti individuali interrogando il passato per analizzare il presente.

Quattro uomini, quattro narratrici (di cui una pianista), nove ragazzi e nove ragazze (che presto diventeranno otto e otto), quattro collaborazionisti, quattro giovani soldati, cinque inservienti: sono queste le figure protagoniste di Salò o le 120 giornate di Sodoma, ambientato essenzialmente all’interno di una villa isolata nei dintorni di Marzabotto.

Tema: l’esercizio del potere sugli uomini da parte di altri uomini. Semplice e lineare – «esatto come un cristallo», dirà Pasolini a lavorazione quasi ultimata – il film mette in scena i giorni della Repubblica sociale descritta come un impero decadente dedito alla coltivazione degli eccessi più turpi.

Liberamente ispirato a Le 120 giornate di Sodoma del Marchese de Sade, Salò rappresenta un oggetto di complessa collocazione dentro i canoni della storia del cinema, sia per il suo carattere «estremistico», la cui necessità era teorizzata in quegli anni dallo stesso Pasolini, che per la vicenda biografica, sorta di lascito testamentario del regista di Casarsa, ucciso pochi giorni prima dell’anteprima parigina del novembre del 1975.

Salò chiude con violenza «l’arco nobile» del cinema italiano, aperto nel 1945 da Roma città aperta di Rossellini, e con esso della controversa modernità del Belpaese, come propone Roberto de Gaetano, e lo fa attraverso la deflagrazione di qualsiasi convenzione, perseguendo, con le parole di Pasolini, «una pornografia artistica contrapposta ad una pornografia di consumo» che restituisce l’osceno senza filtri o edulcorazioni.

Un film «infernale», che trae spunto dalla Comedia dantesca, articolato in un Antinferno e tre gironi, per testimoniare un disagio verso la civiltà contemporanea e la completa estraneità a essa. Al punto che fu oggetto di numerose e insospettabili critiche, da Roland Barthes, il cui Sade, Fourier, Loyola compare nell’insolita bibliografia con cui il film si apre, a Michel Foucault, che nell’intervista Sade, sergente del sesso, rilasciata subito dopo la proiezione parigina, evitò risolutamente di esprimersi in merito nonostante le esortazioni dell’intervistatore, limitandosi a postulare l’erroneità del nesso tra sadismo e fascismo.

E tuttavia, questo profondo sfasamento tra l’opera e il suo tempo, che per un verso la rende totalmente inattuale, può essere ridotto se si prova a tracciare un filo immaginario proprio con l’elaborazione teorica coeva di Foucault, non citato nella bibliografia iniziale, ma le cui ricerche stavano delineando un campo d’indagine che si situa in perfetta continuità con l’orizzonte dischiuso dal film. Una sintonia sinora poco studiata, quella tra i lavori del filosofo francese e di Pasolini, nonostante sia possibile rinvenire dei sottilissimi riferimenti incrociati, e che presenta risonanze sorprendenti in alcuni passaggi cruciali.

La connessione tra fascismo e sadismo, allora, che ha costituito un facile bersaglio per attaccare il regista friulano, acquista un completo rilievo solo se si ripensa la questione del potere in relazione alle intuizioni di Pasolini circa la critica a un antifascismo «archeologico» da un lato, e dall’altro l’esortazione al godimento, all’edonismo diffuso e alla conformazione dei comportamenti, che troveranno una formulazione stabile in Foucault nei mesi che circondano la lavorazione e l’uscita del film con il corso “Bisogna difendere la società” nell’anno accademico 1975-1976 e la pubblicazione di Sorvegliare e punire. Nascita della prigione nel 1975 e La volontà di sapere nel 1976.

Sovranità, disciplina, biopolitica: in Salò la tripartizione foucauldiana si contrae su se stessa e rende le singole facce indiscernibili le une dalle altre. Come la scena della declamazione delle leggi sul balcone evidenzia pienamente, norma ed eccezione si sovrappongono all’interno della villa, spazio eterotopico che si discosta sia da quello reale e storico (Salò e Marzabotto nel 1944) posto fuori dall’Antinferno, sia da quello mitico e utopico (ancora Salò) che ricorre nel corso della narrazione come meta agognata, disegnando il profilo di quel «paradigma biopolitico della modernità», nelle parole di Giorgio Agamben, rappresentato dal campo di concentramento, in un’accezione svincolata da precise coordinate storico-geografiche.

L’intreccio così ricostruito orienta dunque un possibile percorso di lettura del film, instaurando una correlazione tra due fenomeni, il sadismo e il fascismo, il cui accostamento sembrava non poter essere plausibile al di fuori di una logora analogia lineare.

Il punto di contatto diviene la nozione ambigua di “condotta”, analizzata da Foucault nel corso Sicurezza, territorio, popolazione del 1978, in grado di tenere uniti i due versanti lungo i quali si muove il rapporto di potere tra soggetti.

Elemento cardine del “pastorato”, arcaica forma di potere che secondo Roberto Esposito connette l’autorità sovrana di dare la morte con la facoltà biopolitica di regolare la vita, il concetto di condotta assume in Salò la capacità di innestare l’aspetto della soggettivazione in una dinamica marcatamente disciplinare esercitata come imposizione e coercizione sui corpi.

Una coercizione destinata alla creazione di uno spettacolo, con il quale il film si chiude nelle forme grottesche del varietà, profilando i tratti di un godimento tele-visivo (letteralmente, attraverso l’uso del binocolo) che rimette al centro la questione della visibilità dopo che è stata prevalentemente la parola orale a essere propedeutica all’eccitazione dei quattro signori, tramite il racconto delle narratrici.

L’eco degli scritti polemici di Pasolini innerva il film e offre una sponda immediata per districarsi nel «mistero» del testo, che programmaticamente «non deve essere capito». Eppure, adagiarsi su una relazione biunivoca tra questi scritti e le immagini non sembra offrire le condizioni idonee per afferrare l’attualità di un’opera al contempo così inattuale.

La ristrettezza prodotta da un tale impianto interpretativo può essere allargata solo grazie a un lavoro di astrazione storica che svincoli Sade dal sadismo e Salò dal fascismo mussoliniano, per convocare alcuni plessi concettuali, quali le dinamiche di soggettivazione e assoggettamento all’interno di uno spazio di reclusione, la dimensione positiva del potere contrapposta alla sua funzione repressiva, la coalescenza tra legalità e arbitrio nello stato di eccezione permanente, la formazione di corpi docili, la spettacolarizzazione della sofferenza, che costituiscono alcuni tratti distintivi di una contemporaneità dai contorni fortemente aporetici.

Una frattura del senso la cui sutura, come suggerisce allusivamente il finale ambiguo che incorpora in sé i presupposti di un riscatto dalla vertigine insostenibile dell’orrore mostrato, sembra il compito principale riservato oggi all’arte.

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