Sabbie bianche di tristi tropici

Sabbie bianche è una raccolta di saggi dello scrittore e critico britannico Geoff Dyer. Alcuni appunti attorno al libro.

Qualche settimana fa mi sono trovato seduto di fronte a Geoff Dyer che, nella biblioteca sistemata nella torre di un antico castello del centro Italia, leggeva alla trentina di persone presenti un suo scritto. Raccontava, fra le risate a volte un po’ imbarazzate dei presenti, l’esperienza vissuta con sua moglie Rebecca (Jessica, nel libro) – peraltro seduta lì di fronte a lui – quando, dalle parti di El Paso, dopo aver visitato la zona della bianchissima sabbia di solfato di calcio di White Sands (New Mexico), presero a bordo un autostoppista.

Prima d’iniziare, Dyer aveva brevemente raccontato l’esito delle sue prestazioni nel campo da tennis proprio accanto al castello, dove aveva quasi quotidianamente sfidato un altro fellow della fondazione che lo stava ospitando da tre settimane. Poi si era messo a leggere «Sabbie bianche»: ma non era arrivato alla fine, un po’ perché era scaduto il tempo a sua disposizione (e la cena era in tavola), e un po’ perché forse sperava che i presenti si sarebbero procurati il libro per soddisfare la curiosità di come sarebbe andata a finire. È quello che ho fatto io, e il libro in questione prende il titolo proprio dal racconto letto in quel castello: Sabbie bianche (Il Saggiatore, traduzione di Katia Bagnoli). Il reportage-aneddoto dal New Mexico è il capitolo che dà il titolo all’intero libro. A proposito: alla fine della lettura del capitolo in questione può succedere di avere l’impressione di aver letto un racconto di Carver, e a ognuno la propria valutazione se sia una buona notizia o meno.

Sabbie bianche è, come alcuni precedenti libri di Dyer, una raccolta di brevi reportage di viaggio, testi per i quali la distinzione fra fiction e non-fiction perde presto d’interesse, perché si ha altro a cui pensare: la bravura di Dyer nel tenere un ottimo equilibrio fra i registri utilizzati nei suoi testi – usciti per lo più in riviste varie  –, dai momenti di comicità a riflessioni spesso fatte appoggiandosi con rara godibilità a citazioni e rimandi. (Una parentesi personale: il suo Natura morta con custodia di sax è uno dei miei libri preferiti in assoluto).

Un tour guidato della Città proibita nella caotica Pechino; un viaggio a Tahiti sulle orme di Gauguin; la visita alle due opere di land art The Lightning Field di Walter De Maria e Spiral Jetty di Robert Smithson; un goffo tentativo di vedere l’aurora boreale alle Isole Svalbard; un “pellegrinaggio” alla casa di Theodor Adorno a Los Angeles; la visita alle Watt Towers costruite – sempre a Los Angeles – dall’immigrato italiano Sabato “Sam” Rodia (capitolo, questo, da leggersi in abbinamento a Raymond Isidore e la sua cattedrale, di Edgardo Franzosini); e il racconto dell’esperienza di un ictus, fortunatamente senza conseguenze, capitato all’autore: sono questi i temi di Sabbie bianche.

I nove capitoli sono inframezzati da dieci brevi testi di tono più lirico in cui Dyer descrive alcuni ricordi d’infanzia nei quali, senza cadere in una lettura psicologica da due soldi, possiamo forse trovare la genealogia del Dyer viaggiatore di oggi e del suo modo di raccontare quei suoi viaggi. Anzi, per la precisione: non viaggiatore, ma turista. È infatti questa una delle caratteristiche più marcate e, con onestà intellettuale, costantemente ricordate dallo scrittore britannico: è un turista, non un viaggiatore. Fa poi differenza? Sì, la fa, ma per una volta, nel caso di Sabbie bianche, la fa in positivo.

Non è il caso qui di attardarsi sulle innumerevoli riflessioni fatte sulla differenza fra turista e viaggiatore (da Il tè nel deserto: «Il turista è uno che appena arriva pensa di tornare a casa… Mentre il viaggiatore può non tornare affatto…»); viene però in mente il libro L’incontro mancato. Turisti, nativi, immagini, in cui l’antropologo e divulgatore Marco Aime riconosce nel turismo almeno tre paradossi: l’impossibilità di trovare l’“autentico”, un certo timore nell’incontro con l’“Altro” e la “bolla ambientale” in cui i turisti vengono per lo più incapsulati quando si trovano nelle loro destinazioni. Sono tre paradossi che i saggi di Dyer a loro modo esplorano, ma lo fanno volgendoli in positivo, per così dire. Così come, quando spuntarono gli imbarazzanti diari di Bronislaw Malinowski alle isole Trobriand, si parlò di “disagio dell’antropologo”, i saggi di Dyer ci offrono la possibilità di esplorare il disagio del turista come strumento euristico in sé: quel disagio è una lente, uno sguardo, una fonte di conoscenza tanto della meta di turno quanto della relazione fra la meta e il mondo mentale di chi la sta visitando. Se il mondo mentale in questione è quello di una mente virtuosamente farfallona come quella di Dyer, allora c’è di che divertirsi.

Nelle molte parole giustamente dedicate a Sabbie bianche dalla critica, ricorre spesso il nome di Claude Lévi-Strauss, che nel suo Tristi tropici parla in effetti anche dell’angoscia del ritardo nell’incontro con la versione “autentica” dei luoghi e delle persone – nel suo caso in Amazzonia – con cui si trova a contatto. Da lì, all’antropologo basta poco per tirare alcune liriche conclusioni sull’autodistruzione della civiltà occidentale: teniamo presente che Lévi-Strauss si trovava in Brasile anche per sfuggire alle persecuzioni razziali nell’Europa dei totalitarismi. (Peraltro, è la stessa cosa che successe anche al grande antropologo italiano Tullio Seppilli, scomparso poche settimane fa: bambino, dovette riparare con la famiglia in Brasile per sfuggire alle Leggi razziali fasciste. Ma questa è un’altra faccenda, da raccontare per bene al più presto).

Dicevamo, Lévi-Strauss e Tristi tropici. Da questo punto di vista, un altro libro che ben si unisce a Sabbie bianche è il bel saggio di Vincent Debaene, non tradotto in Italia (a proposito: mi offro per farlo), L’adieu au voyage (nella versione americana Far Afield). Concentrandosi sulla storia dell’antropologia francese, Debaene prende in esame i cosiddetti “secondi libri” degli antropologi. Infatti, mentre nelle loro opere principali – almeno da un punto di vista scientifico – gli studiosi in questione si dedicano ad analisi specialistiche e talvolta complicate per i non-specialisti, in altri libri si lasciano andare a volgere la propria esperienza di ricerca sul campo in vero e proprio racconto di viaggio, assecondando quindi i propri sentire di fronte a quell’esperienza di stretto e prolungato contatto con un’alterità radicale (e assecondando anche le esigenze di un pubblico più vasto di quello specialistico, certo). 

Debaene prende in esame tre casi specifici e a loro modo paradigmatici: appunto Tristi tropici di Lévi-Strauss, L’Africa fantasma di Michel Leiris e Torce d’uomini in Etiopia di Marcel Griaule. Si tratta di libri in cui possiamo capire come il viaggio, che sia ricerca etnografica di lunga durata o visita turistica, è prima di tutto un’apertura ad altre forme di soggettività e altri modi di costruzione di quelle stesse soggettività. Del resto, se il viaggio è un’esperienza esistenziale, i viaggiatori non hanno mai potuto fare altro che constatare la scomparsa delle condizioni per poter realizzare quel tipo di esperienza-viaggio (ed è un’altra di quelle lamentele che ci sembrano legate ai nostri tempi e che invece ritroviamo anche negli scritti dei secoli passati).

Intendiamoci, non è certo il caso di spingere troppo oltre il paragone fra i saggi di Dyer e la ricerca antropologica, ma vero è che Dyer riesce a portarci, con leggerezza e acume rari, al cuore di alcune delle domande che capita di farci mentre leggiamo libri di questo tipo e di questo livello. In fondo, Dyer ci conferma che la questione non è tanto sapere cos’è la letteratura, ma dov’è la letteratura: leggere Sabbie bianche è un bel modo di chiederselo con cognizione di causa. E si ride anche, molto. Come me quel pomeriggio nella biblioteca del castello.

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