Romeo, perché sei tu Romeo?

Appunti su Sul concetto di volto nel figlio di Dio

Romeo Castelluci
Foto di Slava Filippov

Altrove, avevo dichiarato la mia perplessità rispetto al modo in cui non poche coalizioni cattoliche, più o meno istituzionalizzate, sono scese in piazza – si badi bene, l’espressione è da intendersi fuor di metafora –, per manifestare contro l’ultima messa in scena di Romeo Castellucci – artista italiano di fama internazionale, il cui impegno politico, a teatro, si è sempre tradotto in una critica delle categorie estetiche ed interpretative dominanti, così come d’ogni possibile concezione dell’opera d’arte, che non sappia sottrarsi ad esegesi di tipo esclusivamente documentario [1]. Non ritornerò sugli argomenti che mi avevano indotto, sin dal principio, a giudicare in maniera severa l’atteggiamento di chi, pur affermando apertamente di non aver visto lo spettacolo, si era sentito in dovere di condannarne i propositi, quasi si trattasse di conformare i propri interventi ad una non meglio precisata “linea di partito” – priva di fondamento; troppo di rado assunta in quanto tale. Ciò detto, nel definire i temi affrontati in Sul concetto di volto nel figlio di Dio, dovrò rievocare almeno uno dei motivi validi a prendere posizione, per quel che mi riguarda, non tanto in favore della pièce, quanto del dibattito che avrebbe dovuto suscitare, se solo il pubblico se ne fosse dimostrato all’altezza: la formulazione, da parte del regista, di un discorso mai davvero iconoclasta, e tuttavia teso a riflettere sullo statuto ontologicamente ibrido delle immagini, attraverso l’impiego che se ne fa – nella vita e sul palcoscenico.

L’azione si svolge in un bilocale asettico, ricreato a pochi metri dall’uditorio, come a volerne cercare il consenso. Reso solo da una muta disponibilità all’ascolto, quest’ultimo non può che palesarsi qualora ogni spettatore decida di assistere, insieme a tante altre persone che non conosce, all’esternarsi d’un dolore individuale, elevato a ipostasi del “dolore e basta”. Ne fanno l’esperienza un padre ed un figlio, alle prese, il primo con i problemi dell’incontinenza – figura, non del disagio, ma della vergogna che si prova di fronte al deperimento della propria stessa carne –, il secondo con quelli delladipendenza – intesa in senso vasto, quale rapporto di subordinazione imprescindibile nei confronti di qualcuno (o qualcosa), le cui istanze, per quanto insostenibili esse siano, chiedono di essere assecondate. È l’ora di cena; uno aiuta l’altro a mettersi comodo sul divano, davanti alla televisione accesa. Poi, inabili a limitare i danni causati dalle perdite involontarie del vecchio, i cui umori finiscono per contaminare le superfici lucide dello spazio intorno, i due tentano di consolarsi a vicenda, sussurrando parole che arrivano spezzate, lasciate a metà. Svuotata d’ogni eventuale retorica di circostanza, la diegesi si riduce allora ad una triste sequela di variazioni sul tema. È questione, a diverse riprese, di venire in aiuto, cancellare le tracce di una forma niente affatto obsoleta d’abbandono ed ammettere le ragioni, non solo fisiche, che possono esserne all’origine; il che equivale a reificare, per mezzo di gesti desunti dalla quotidianità – e forse addirittura un po’ banali, se estrapolati dall’intreccio – l’unico interrogativo valido, anche fra quanti osservano: perché? Non “a cosa serve tutto questo”, ma “perché” – che se non fosse una domanda, sarebbe una congiunzione complessa, causa od effetto degli enunciati che servono a renderne conto.

Difficile risolvere quello che assomiglia a un dilemma, ovvero a un mistero nell’accezione più religiosa del termine. Eppure, mi sembra, il significato che si decide di accordarvi cela il senso riposto di un’operazione, certo estetica, ma anche e soprattutto deontologica – se per deontologia s’intende, a discapito dei luoghi comuni, quell’insieme di comportamenti capaci di opporre una resistenza “ponderata”, benché non necessariamente “moderata”, al consequenzialismo d’ascendenza modernista. A ben guardare infatti, la materia narrativa si dipana secondo una logica a geometria variabile, della quale solo chi osserva può determinare l’interdipendenza dei fini e dei mezzi spesi ad illustrarne il funzionamento. Così, a seconda che si scelga di privilegiare la sobrietà del gioco d’attore o la sfrontatezza degli accostamenti – penso alla riproduzione monumentale del Cristo di Antonello da Messina [2], che se ha suscitato tante discussioni è anche perché “fa da sfondo”, da testimone inamovibile, ma mai partecipe, della miseria descritta – l’interpretazione avanzata è costretta ad oscillare fra due poli distinti. Da un lato sta la volontà di aderire alla provocazione, perché provocatoria lo è solo in apparenza – cioè laddove la forza icastica dei contrasti finisce col prendere il sopravvento su qualsiasi altro discorso di più ampio respiro; dall’altro, quel bisogno di consolazione che, per dirlo con un asserto noto e variamente ripreso, est impossible à rassasier.

Esplicitare l’ambiguità dell’impianto messo in atto corrisponde sia a ridimensionare la portata simbolica degli oggetti convocati – elementi indiziali complessi, disposti intorno al valore metonimico di ogni loro unità sintattica –, sia ad accettare un momentaneo ribaltamento della prospettiva eurocentrica, percorsa da vettori di segno opposto, ma dimentica, nel suo continuo voler mettere ordine, d’accogliere le antinomie, anziché più banalmente tentare di risolverle. È forse questo il monito di quell’icona che, all’epoca dei social network, paga lo scotto di una virtualità dilagante, negando(ci) la compiacenza dell’incontro non mediato. Se così fosse, “la corrente che unisce lo sguardo di Dio e lo spettatore [sarebbe] interrotta da [una] storia di feci” [3], non tanto per giocare sullo scarto fra sacro e profano, bensì per denunciare il moto di progressivo allontanamento con cui le società capitalisticamente avanzate hanno rimosso la dimensione ctonia da quella del cultuale, travisando il messaggio evangelico, o ancora negligendo la sconcertante attualità dell’impresa apostolica. Lungi dal coincidere con la lettura che ne è stata fatta in ambito istituzionale, quest’ultima rappresenta uno degli esempi più antichi di “filosofia incarnata”, di epifania della voce, senza sosta ripetuta, perché l’unico rinnovamento possibile è quello che si opera in seno alla lingua.

In principio distante, inudibile, già rumore, anche se ancora musica, quando meno ce lo si aspetta la lingua – corale, polifonica, surgie d’ailleurs, donc de nulle part – penetra all’interno delle mura domestiche e sovrappone il suo fracasso a quello dei personaggi, costretti ad abbandonare il palco esausti, come alla ricerca di un riparo che non c’è, se non dietro le quinte. È allora che l’attesa si fa “attesa del Verbo”. Nell’istante in cui viene definitivamente meno la speranza di una parabola davvero compiuta, la tela raffigurante il Messia incomincia a tremare, a stirarsi, a rompersi come si rompono le statue, lasciando precipitare i pezzi. Traiettorie di corpi aerei non meglio identificati ne slabbrano i contorni, fino a lasciar affiorare un’architettura che è scheletro e sostegno. Come durante l’annunciazione, l’universo – teatrale, d’accordo, ma è pur sempre un universo – pare, il tempo di un ulteriore strappo, “trattenere il fiato”. La vera bestemmia è non cogliere quel sentimento di finitudine condivisa e restituita dalle pieghe di un volto disfatto, destinato a macchiarsi e, dietro le macchie, a scomparire. Non si sa se per redimere o soltanto ravvisare. È il dubbio che sembra dover permanere in chiunque sopporti la violenza d’un ritratto, fatto per scrutare, più che per essere scrutato; voluto per durare, sebbene – direbbe Michel Serres, confortato dalle mille polemiche sterili, suscitate nei giornali ed alla radio – “quale residuo di una civiltà sempre meno abituata a riconoscere ou, le cas échéant, ad accettare se stessa” [4].

Note

[*] L’articolo che segue non intende incriversi nell’attualita’ dei fatti da cui prende le mosse. Cio’ detto, se se ne diffondono i contenuti e’ per almeno tre ragioni distinte:

(1) Le reazioni suscitate dallo spettacolo di Romeo Castellucci fin dalle sue prime rappresentazioni pubbliche continuano a prodursi laddove siano state previste, a breve, delle repliche (in Canada, proprio qualche giorno fa, alcune associazioni cattoliche interuniversitarie hanno incominciato a promuovere iniziative di vario genere, nell’intento di ostacolare la ricezione della messa in scena da parte di chi desideri assistervi in occasione del prossimo TransAmériques, festival di teatro e danza della città di Montréal – maggio/giugno 2012);

(2) Minacce e critiche ad personam non hanno cessato di alimentare blog e siti internet di carattere prevalentemente comunitario;

(3) Le polemiche, piu’ o meno mediatizzate a seconda dei paesi, hanno troppo spesso rischiato di offuscare l’analisi di un prodotto che si vuole, prima di tutto, “oggetto di contemplazione estetica”.

Grazie alla redazione de il lavoro culturale per aver, una volta di più, relevé le défi.

[1] Il contributo a cui mi riferisco, scritto a quattro mani con Marion Duvernois, risale allo scorso ottobre ed è consultabile qui. Le foto che lo accompagnano sono state scelte dalla redazione de “L’Intermède” e facevano parte del dossier de presse fornitoci dal Théâtre de la Ville de Paris.

[2] Il Salvator Mundi o Cristo benedicente, conservato alla National Gallery di Londra, che vi ha dedicato una scheda monografica di notevole interesse, così come la riproduzione digitale interattiva consultabile in rete.

[3] Romeo Castellucci citato da Ilaria Mancia in un contributo pubblicato, dapprima neIl Mucchio, poi su Minima e Moralia.

[4] Parafrasi da: Michel Serres, Récits d’Humanisme, Le Pommier, Paris 2006.

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